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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 1472 - pubb. 24/12/2008.

Dichiarazione di fallimento, onere della prova e questione di costituzionalità


Tribunale di Napoli, 23 Aprile 2008. Est. Campese.

Fallimento – Dichiarazione – Presupposti – Requisiti dimensionali – Onere della prova – Questione di costituzionalità.


E rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 1 R.D. n. 267/42, come modificato dal D.Lgs. n. 169/2007, nella parte in cui addossa al debitore l’onere di provare la propria non assoggettabilità a fallimento o, se si preferisce, nella parte in cui prevede il fallimento dell’imprenditore commerciale insolvente che non abbia dimostrato di non essere compreso nell’area della non fallibilità definita dalle lett. a), b) e c) del medesimo comma.

 

Preliminarmente, va precisato che l’odierno procedimento, instaurato da un ricorso depositato il 15 febbraio 2008, va trattato e definito secondo la innovativa disciplina, sostanziale e processuale, della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) introdotta dal D.Lgs. (c.d. correttivo) 12 settembre 2007, n. 169 ed entrata in vigore il 18 gennaio 2008.

Va poi pregiudizialmente ritenuta sussistente la competenza territoriale di questo Tribunale avendo la P.P. S.r.l. la propria sede legale, fin dalla sua costituzione, in *, alla via * (cfr. l’allegata visura storica), e non essendovi in atti elementi per dubitare della coincidenza di tale sede con quella effettiva della medesima società. Deve infine evidenziarsi che detta società non si è costituita in giudizio, né è comparsa all’udienza del 23 aprile 2008, malgrado la ritualità (giusta quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 145, primo comma, c.p.c. e 7 della legge n. 890/82, come modificato dall’art. 36, comma 2quater e 2quinquies della legge 28 febbraio 2008, n. 31, in vigore dall’1 marzo 2008) della notificazione nei suoi confronti del ricorso e del pedissequo decreto di convocazione.

Fermo quanto precede, va rilevato che la ricorrente ha compiutamente dimostrato di essere creditrice della P.P. S.r.l. in liquidazione, per il complessivo importo di E 79.852,73: tanto emerge agevolmente dal decreto ingiuntivo n. 2565 pronunciato, in danno di quest’ultima, dal Tribunale di Monza, in composizione monocratica, il 27 giugno 2005 e munito di esecutorietà, ex art. 647 c.p.c., il 10 novembre 2005 (cfr. in atti), dal successivo precetto del 21 febbraio 2006, oltre che dalla copiosa documentazione già allegata a sostegno della predetta istanza monitoria e depositata anche in questa sede (cfr. fatture della Kodak S.p.a. ed estratti autentici dei suoi registri I.V.A. vendite).

Inoltre, dalla documentazione acquisita di ufficio dal Tribunale in virtù dei poteri conferitigli dall’art. 15 della legge fallimentare (cfr., in particolare, quanto recapitato dall’Agenzia della Riscossione competente per territorio), si evince agevolmente l’esistenza di ulteriori debiti scaduti della resistente per complessivi E 95.232,76 per le specifiche causali riportate in ciascuna delle cartelle indicate.

L’entità dei descritti debiti consente, allora, di ritenere superato il limite di cui all’art. 15 del R.D. n. 267/42, come modificato dal D.Lgs. n. 169/2007 (non si fa luogo a dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dall’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad E 30.000,00) al di sotto del quale, anche in presenza di un accertato stato di insolvenza, non potrebbe comunque dichiararsi il fallimento dell’imprenditore che, stando al tenore dell’attuale art. 1 del R.D. n. 267/42 (come risultante dalle modifiche apportategli dal già richiamato D.Lgs. n. 169/2007), non dimostri il possesso congiunto dei tre requisiti dimensionali previsti dalla medesima disposizione.

Per poter giungere alla pronuncia della invocata dichiarazione di fallimento occorre, pertanto, verificare la sussistenza, nella specie, dei presupposti, oggettivo (stato di insolvenza) e soggettivo (impresa soggetta al fallimento), rispettivamente previsti dagli odierni testi degli artt. 5 ed 1 della citata legge fallimentare.

Giova premettere, quanto al primo, che la S.r.l. P.P. S.r.l. si trova attualmente in liquidazione giusta atto per notaro * del 17 novembre 2005, iscritto nel registro delle imprese il 2 dicembre 2005 (cfr. l’allegata visura storica) e che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, «quando la società è in liquidazione, la valutazione del Giudice, ai fini dell’applicazione della l.fall., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei credi tori sociali, e ciò in quanto - non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali, ed alla distribuzione dell’eventuale residuo tra i soci - non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte» (cfr. Cass. 6 settembre 2006, n. 19141; Cass. 17 aprile 2003, n. 6170; Cass. 11 maggio 2001, n. 6550). Infatti «il principio secondo il quale l’insolvenza della società non può necessariamente desumersi da uno squilibrio patrimoniale, il quale può essere eliminato dal favorevole andamento degli affari o da eventuali ricapitalizzazioni, non è invocabile quando la società è in liquidazione, ossia quando l’impresa non si propone di restare sul mercato, ma ha come unico suo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali, previa realizzazione delle attività sociali ed alla distribuzione dell’eventuale residuo attivo tra i soci. In tale ipotesi, pertanto, la valutazione del Giudice, ai fini dell’accertamento delle condizioni richieste per l’applicazione della l.fall., art. 5, non può essere rivolta a stimare, in una prospettiva di continuazione dell’attività sociale, l’attitudine dell’impresa a disporre economicamente della liquidità necessaria per far fronte ai costi determinati dallo svolgimento della gestione aziendale, ma deve essere diretta, invece, ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali» (cfr. Cass. 10 aprile 1996, n. 3321, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. 6 settembre 2006, n. 19141).

In applicazione dei riportati principi, quindi, nella specie non può seriamente dubitarsi, sulla base della seppure scarsa documentazione prodotta dalla ricorrente e di quella acquisita, ex officio, dal Tribunale, dello stato di insolvenza della società resistente atteso che dall’ultimo bilancio dalla stessa depositato presso il registro delle imprese, risalente all’esercizio chiuso il 31 dicembre 2003, emerge un attivo complessivamente pari ad E 172.176,00: importo, quest’ultimo, già da solo inferiore al totale dei debiti attualmente scaduti della medesima società come in precedenza accertati (E 79.852,73 + 95.232,76 = 175.085,49).

A tale significativa circostanza va aggiunto il riscontro di ulteriori sintomi, da valutarsi unitariamente, ed individuabili: a) nei dati ricavabili dalla documentazione acquisita ex officio dal Tribunale presso l’Anagrafe Tributaria (in particolare, dalla sensibile diminuzione del volume di affari della società passato dagli E 399.695,00 del 2004 agli E 88.337,00 del 2005); b) nell’abbandono della sede (cfr. relata di notifica del ricorso introduttivo di questo procedimento); c) nel rilevante importo del debito verso la odierna ricorrente, e nel suo protratto mancato soddisfacimento malgrado le reiterate sollecitazioni giudiziali e stragiudiziali; d) nell’omesso deposito dei bilanci successivi a quello concernente l’esercizio chiuso il 31 dicembre 2003.

Quanto, invece, alla ricorrenza, o meno, del presupposto soggettivo, l’essere cioè, oggi, la P.P. S.r.l., attualmente in liquidazione, un imprenditore fallibile o non, il corrispondente accertamento non può che avvenire, allo stato, in base a quanto previsto dall’art. 1, primo e secondo comma, R.D. n. 267/42, come modificato dal D.Lgs. n. 169/2007.

Secondo la citata norma «1. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. 2. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila».

Ad avviso di questo Collegio, però, il riportato secondo comma della citata disposizione è in contrasto, in primis, con l’art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza, essendo foriero di irragionevoli disparità di trattamento, nella parte in cui addossa al debitore l’onere di provare la propria non assoggettabilità a fallimento o, se si preferisce, nella parte in cui prevede il fallimento dell’imprenditore commerciale insolvente che non abbia dimostrato di non essere compreso nell’area della non fallibilità definita dalle lett. a), b) e c) del medesimo comma (si tratta, infatti, al contrario di quanto sembra ritenere la Relazione di accompagnamento dello schema del D.Lgs. n. 169/2007, di una falsa alternativa, giacché le regole di distribuzione dell’onere della prova sono, in definitiva, sempre regole di giudizio).

In proposito, infatti, va innanzitutto osservato che, prima della riforma della legge fallimentare recata dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, nessuno aveva mai dubitato che l’accoglimento della domanda di fallimento richiedesse la dimostrazione, oltre che dell’insolvenza, della qualità di imprenditore commerciale del debitore, e che quasi altrettanto unanime era l’idea che analoga soluzione dovesse valere anche per la qualità di non piccolo imprenditore del debitore, il quale, dunque, si riteneva comunemente che non potesse essere dichiarato fallito qualora il giudice non fosse stato in possesso di elementi (da qualsiasi fonte legittimamente acquisiti al procedimento) sufficienti a negare la sua qualità di piccolo imprenditore: basti pensare, da un lato, a quanto precisato dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 3 febbraio 1990, n. 744, in cui si affermava, sostanzialmente, che la qualità di imprenditore non piccolo del fallito (secondo i criteri di cui al secondo comma dell’allora vigente art. 1 R.D. 16 marzo 1942 n. 267, e, in particolare, dopo l’abolizione della imposta di ricchezza mobile e la conseguente impossibilità di far riferimento al relativo imponibile, in base al parametro del capitale investito), al pari degli altri presupposti della dichiarazione del fallimento, doveva essere dimostrato dal creditore istante; dall’altro, all’autorevole opinione dottrinaria concernente l’impossibilità di concepire un onere probatorio principale del debitore, quando lo stesso non fosse il richiedente, giacché la domanda o la iniziativa era contro di lui e quindi ogni onere spettava al ricorrente ed al Tribunale, aggiungendosi che neppure la qualifica di piccolo imprenditore commerciale poteva essere oggetto di un suo onere probatorio principale.

Proprio la Corte Costituzionale, poi, già con la sentenza n. 570 del 22 dicembre 1989 (con cui ebbe a dichiarare la incostituzionalità dell’art. 1, secondo comma, R.D. n. 267/42, come modificato dalla legge 20 ottobre 1952, n. 1375, nella parte in cui prevedeva che «quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila»), precisò che «... le categorie di piccolo, medio e grande imprenditore, ed insolvente civile, nell’ordinamento economico e giuridico hanno posizioni nettamente differenziate. A fondare la distinzione, specie ai fini dell’assoggettabilità o meno alla procedura fallimentare, occorre un criterio assolutamente idoneo e sicuro. I limiti devono essere stabiliti in relazione all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, alla entità dell’impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale. La insussistenza di validi presupposti per la diversificazione delle situazioni soggettive che si volevano diversamente e distintamente disciplinate, crea anche disparità di trattamento, tanto più che altre norme (artt. 2083 e 2221 del codice civile) pongono più validi criteri di distinzione. Imprese molto modeste incorrono nelle procedure fallimentari e vengono meno le finalità del fallimento. L’esiguo patrimonio attivo del fallito può rimanere assorbito interamente dalle spese della complessa procedura e a volte risulta persino insufficiente a coprire le spese anticipate dall’erario. Il fallimento finisce con l’essere un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori e un mezzo di difesa insufficiente...».

Secondo la riportata statuizione della Consulta, quindi, la linea di discrimine tra chi è e chi non è assoggettabile a fallimento, deve fondarsi su «un criterio assolutamente idoneo e sicuro», cioè su un criterio che non può non essere oggettivo, e che deve tener conto dell’«attività svolta» e dell’«organizzazione dei mezzi impiegati» dall’imprenditore, dell’«entità dell’impresa» da questi esercitata e delle «ripercussioni che il (suo) dissesto produce nell’economia generale» e mirare ad evitare che «imprese molto modeste incorr(a)no nelle procedure fallimentari» e che vengano meno le finalità del fallimento o, peggio, che questo si trasformi, nei fatti, addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori».

Considerazioni, queste della Consulta, da cui già si ricavava chiaramente l’obbligo del legislatore ordinario e dei giudici di legiferare, e, rispettivamente, di interpretare ed applicare la legge in modo da ridurre al minimo i fallimenti nei quali non si realizza un attivo nemmeno sufficiente a soddisfare, almeno in parte, qualche creditore concorsuale e da liberare risorse umane e materiali preziose per l’organizzazione giudiziaria, evitando, al contempo, di criminalizzare (stante l’ambito di applicabilità delle disposizioni penali contenute nella legge fallimentare) comportamenti privi di concreto disvalore sociale.

Ed evidentemente in questa prospettiva si era posto l’art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 che, al comma quinto, aveva delegato al Governo l’adozione, con l’osservanza dei princcìpi e dei criteri direttivi di cui al sesto comma, di uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267: infatti, il menzionato sesto comma prevedeva che, nell’esercizio della citata delega, il Governo si sarebbe dovuto attenere, tra i vari principi e criteri direttivi ivi dettati, a quello di «semplificare la disciplina attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto e l’accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia».

Appare di tutta evidenza, quindi, che scopo del legislatore delegante era quello di eliminare quelli che, all’epoca, costituivano la grande maggioranza dei fallimenti dichiarati e che, concretamente, si chiudevano con la realizzazione di un attivo spesso non sufficiente a coprire nemmeno le spese della procedura, e, dunque, con un bilancio negativo che ricadeva integralmente sulle spalle dello Stato (anche per le risorse umane ed economiche destinate allo svolgimento della procedura), senza alcun apprezzabile beneficio né per i creditori concorsuali, né per il fallito, né per la collettività.

Si comprende, allora, il perché il D.Lgs. n. 5/2006, emanato in attuazione della predetta delega ed entrato in vigore il 16 luglio 2006, pur mantenendo il richiamo alla categoria dei piccoli imprenditori come una di quelle (con gli enti pubblici) escluse dalla assoggettabilità al fallimento, si fosse sul tema limitato a dettare alcuni parametri finalizzati a consentire la individuazione dei soggetti da qualificare, agli effetti delle disposizioni della legge fallimentare, piccoli imprenditori, senza nulla prevedere specificamente quanto alla ripartizione del corrispondente onere probatorio (tenuto altresì conto della conservazione al Tribunale del potere di disporre d’ufficio mezzi istruttori), ed ad introdurre la disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 15 l.fall., che escludeva che potesse essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore i cui debiti scaduti e non pagati fossero di importo inferiore a 25.000,00 euro e che, con D.Lgs. n. 169/ 2007, è stata modificata aumentando tale limite a 30.000,00 euro.

A seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 5/ 2006, si è però verificata in Italia una sensibilissima riduzione delle dichiarazioni di fallimento; ed una delle principali cause di tale fenomeno è stata da taluni individuata proprio nella perdurante adesione a quell’orientamento per il quale il dubbio sulla qualità di non piccolo imprenditore del debitore, cioè, mutatis mutandis, sul superamento da parte del debitore delle soglie quantitative dell’area della non fallibilità allora fissate dal secondo comma dell’art. 1 l.fall., doveva importare il rigetto dell’istanza di fallimento.

Il fenomeno - benché, ad avviso di questo Collegio, certamente in linea con la citata direttiva di cui all’art. 1, sesto comma, lett. a), n. 1), della legge 14 maggio 2005, n. 80 - ha indotto il legislatore delegato a tentare, con il D.Lgs. correttivo n. 169/2007, di attenuarne la rilevanza soprattutto mediante l’espressa attribuzione al debitore dell’onere di dimostrare la sua qualità di imprenditore non fallibile poiché rientrante nell’area di non fallibilità come ora delimitata dal nuovo secondo comma dell’art. 1 l.fall.

Questo comma ora stabilisce infatti che «Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al comma 1, i quali dimostrino il possesso congiunto dei... requisiti» di cui alle seguenti lett. a), b) e c).

La soluzione sembrerebbe essere espressione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e del correlato c.d. principio di vicinanza (o prossimità o riferibilità) della prova, alla stregua del quale l’onere di provare i fatti rilevanti ai fini della decisione giudiziale va addossato alla parte nella cui sfera giuridica essi si sono verificati e che quindi deve presumersi in possesso degli elementi utili per fornirne la dimostrazione.

Tanto, invero, emerge chiaramente dalla Relazione illustrativa del decreto legislativo n. 169/2007, in cui si legge, tra l’altro, relativamente all’intervenuta nuova formulazione dell’art. 1 R.D. n. 267/42 che «... Le modifiche tengono conto del fatto che l’eccessiva riduzione dell’area della fallibilità venutasi a determinare a seguito della novella del 2006 spesso ha impedito di assoggettare al fallimento ed alle conseguenti sanzioni penali imprenditori di rilevanti dimensioni con elevati livelli di indebitamento, danneggiando, in tal modo, sia i numerosi creditori insoddisfatti, che il sistema economico in generale. ... Più in dettaglio, va evidenziato il fatto che, per delimitare l’area dei soggetti esonerati dal fallimento, non viene più utilizzata la nozione di piccolo imprenditore commerciale, ma vengono indicati direttamente una serie di requisiti dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali (resta quindi fermo l’esonero dalle procedure concorsuali di tutti gli imprenditori agricoli, piccoli e medio grandi) devono possedere congiuntamente per non essere assoggettati alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo. In questo modo, si superano i contrasti interpretativi sorti in ordine all’individuazione dei criteri di qualificazione delle nozioni di piccolo imprenditore (art. 2083 del cod. civ.), da una parte, e di imprenditore non piccolo (art. 1 l.fall.), dall’altra: concetti entrambi contemplati dall’articolo 1 della legge fallimentare, come modificato dal decreto legislativo n. 5 del 2006. ... Di notevole importanza, poiché supera i gravi problemi interpretativi emersi in materia di distribuzione dell’onere della prova del presupposto soggettivo del fallimento, è la disposizione volta a precisare che grava sul debitore l’onere di fornire la prova dei requisiti di non fallibilità, intesi come fatti impeditivi della dichiarazione di fallimento. È quindi onere dell’imprenditore fallendo dimostrare di non aver superato (nel periodo di riferimento) alcuno dei tre parametri dimensionali previsti dalla norma in esame. Si evita, così, di «premiare» con la non fallibilità quegli imprenditori che scelgono di non difendersi in sede di istruttoria prefallimentare o che non depositino la documentazione contabile dalla quale sarebbe possibile rilevare i dati necessari per verificare la sussistenza dei parametri dimensionali. In tale modo, qualora gli elementi probatori, dedotti dalle parti o acquisiti d’ufficio, non siano sufficienti a fornire la prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, l’imprenditore, permanendo l’incertezza sulla sussistenza o meno dei requisiti soggettivi di esenzione dal fallimento, resta assoggettato alla procedura fallimentare...».

Sennonché, la correzione di tiro operata dal legislatore delegato con il D.Lgs. n. 169/2007 - vale a dire l’aver addossato al debitore l’onere di provare la propria non assoggettabilità a fallimento o, se si vuole, l’aver previsto il fallimento dell’imprenditore commerciale insolvente che non dimostri di non essere compreso nell’area della non fallibilità definita dalle lett. a), b) e c) del secondo comma, dell’art. 1 l.fall. - non può ritenersi, ad avviso di questo Collegio, rispettosa dell’art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza.

Essa, infatti, ha sostanzialmente disatteso le indicazioni date dalla Corte Costituzionale con la menzionata sentenza n. 570/89, che, come si è visto in precedenza, aveva evidenziato la necessità che la linea di discrimine tra soggetto assoggettabile, o meno, a fallimento fosse fondata su «un criterio assolutamente idoneo e sicuro», cioè su un criterio oggettivo, che tenesse conto dell’«attività svolta» e dell’«organizzazione dei mezzi impiegati» dall’imprenditore, dell’«entità dell’impresa» da questi esercitata e delle «ripercussioni che il (suo) dissesto produce nell’economia generale» e ciò al fine di evitare - come sapientemente si disse in quell’occasione - che «imprese molto modeste incorrano nelle procedure fallimentari» e che vengano meno le finalità del fallimento o, peggio, che questo si trasformi nei fatti addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori».

L’addossare al debitore l’onere di provare la sua non assoggettabilità a fallimento può invece finire per far concretamente dipendere il fallimento - come nel caso di specie - anche da un comportamento, peraltro nemmeno necessariamente colpevole, del medesimo debitore che potrebbe non dipendere, e normalmente non dipende, dalla natura e dall’importanza dell’attività economica e dei mezzi impiegati nell’impresa da costui esercitata e non ha alcun rapporto con le ripercussioni del dissesto dell’imprenditore sul sistema economico e, dunque, non solo non impedisce ma addirittura favorisce dichiarazioni di fallimenti del tutto inutili (tanto più se si considera che nulla sembra precludere al debitore che non si sia costituito o che, pur essendosi costituito, non si sia difeso sullo specifico punto della sua estraneità all’area degli imprenditori commerciali insolventi fallibili delineata dal secondo comma dell’art. 1 l.fall. nel procedimento di primo grado di proporre reclamo, ai sensi dell’art. 18 l.fall., avverso la sentenza dichiarativa del suo fallimento e di dimostrare in quella sede di essere in possesso di tutti i requisiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma del predetto art. 1), ridando spazio alle disparità di trattamento già paventate dalla Corte Costituzionale, alla stregua delle cui indicazioni va interpretata - come si è già chiarito - anche la direttiva dell’estensione dell’area di non fallibilità impartita dal legislatore delegante al Governo.

Il principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e quello, al primo correlato, di vicinanza della prova, oltre a non aver rango costituzionale, devono, peraltro, ritenersi impropriamente richiamati allorché, come nel caso del procedimento per la dichiarazione di fallimento, non siano in gioco diritti di cui le parti possano disporre.

Benché la riforma della legge fallimentare del 2005-2007 abbia sensibilmente ampliato i poteri delle parti a discapito di quelli dell’Autorità Giudiziaria, rimane infatti che l’evitare fallimenti inutili, se non addirittura dannosi per i creditori e per lo Stato, è, per le considerazioni svolte dalla Consulta con la sentenza n. 570/ 89, questione di interesse pubblico e che, dunque, come il creditore non ha il diritto di ottenere il fallimento del proprio debitore, cos` quest’ultimo non ha il diritto di ottenere il proprio fallimento; che il fallimento non è un bene di cui le parti possano liberamente disporre.

Difficile, poi, sarebbe comprendere perché mai, stando alla nuova formulazione del secondo comma dell’art. 1 l.fall., il debitore che chieda il proprio fallimento dovrebbe preoccuparsi di dimostrare di non essere fallibile, non avendo evidentemente alcun interesse a fornire una siffatta prova, salvo che, in contrasto con la lettera della norma, ma in coerenza con la sua assunta ratio e con l’art. 14 l.fall., si ritenga che, in questo caso, sul debitore ricorrente incomba l’onere di dimostrare non già la sua non assoggettabilità, ma la sua assoggettabilità a fallimento.

Il che conferma, ove ve ne fosse bisogno, l’irragionevolezza della soluzione in tema di distribuzione dell’onere probatorio in ordine al superamento delle soglie dell’area della fallibilità individuate dal secondo comma dell’art. 1 l.fall. escogitata dal legislatore delegato con il D.Lgs. n. 169/2007 per contrastare la riduzione, evidentemente giudicata eccessiva, del numero dei nuovi fallimenti.

La distribuzione dell’onere probatorio disegnata dal legislatore delegato con il D.Lgs. n. 169/2007, suscita poi dubbi di costituzionalità anche per violazione dell’art. 76, primo comma Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega, in quanto potenzialmente idonea a contraddire, di fatto, nella sua concreta applicazione, la direttiva della legge delega concernente l’estensione del novero dei soggetti esclusi dal fallimento: vi saranno, infatti, imprenditori che, pur non raggiungendo - magari anche di gran lunga - le soglie di fallibilità poste dalla norma, non saranno in grado di darne la prova, oppure trascureranno (anche incolpevolmente) di darla, oppure avranno addirittura interesse a non darla (anche se piccoli imprenditori ex art. 2083 c.c.) al fine di accedere all’istituto dell’esdebitazione.

Il chiaro disposto dell’art. 1, secondo comma l.fall, come modificato dal D.Lgs. n. 169/2007 - laddove, nell’escludere ormai qualsivoglia rilevanza alla distinzione tra imprenditore piccolo e non (invece mantenuta dal D.Lgs. n. 5/2006), stabilisce, semplicemente, che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento... gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui alle successive lettere a), b) e c) - induce il Tribunale a ritenere preclusa (in claris non fit interpretatio) la possibilità di interpretazioni della predetta normativa che prescindano dalla concreta ripartizione dell’onere probatorio, quanto ai presupposti soggettivi del fallimento, in termini diversi da quelli fin qui prospettati e considerati di dubbia costituzionalità.

La prospettata questione di costituzionalità oltre a non essere manifestamente infondata per le ragioni fin qui evidenziate, ad avviso del Collegio è anche rilevante in questo giudizio in quanto: a) la P.P. S.r.l., ora in liquidazione, di cui è stato chiesto il fallimento, non si è costituita in giudizio; b) relativamente al triennio (2005-2007) anteriore alla data (15 febbraio 2008) di deposito dell’istanza di fallimento, vi è in atti (per effetto dei poteri istruttori ex officio utilizzati dal Tribunale mediante l’acquisizione dei dati della predetta società ricavabili dall’Anagrafe Tributaria) esclusivamente la prova (mod. U760) che, nel 2005, la resistente aveva realizzato un volume di affari di soli E 88.337,00; c) nessun’altra indagine istruttoria appare concretamente ed utilmente ipotizzabile sulla base della documentazione in atti, risultando, peraltro, per tabulas (cfr. l’allegata visura storica) che l’ultimo bilancio redatto dalla stessa è quello (ininfluente ai fini che ci occupano atteso il tenore letterale della citata norma) relativo all’esercizio chiuso il 31 dicembre 2003. In buona sostanza, quindi, l’invocata declaratoria di fallimento avverrebbe esclusivamente perché la P.P. S.r.l., in liquidazione, non costituendosi, non ha dimostrato, come invece impostole dalla norma qui sospettata di incostituzionalità, il possesso congiunto di tutti i requisiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma dell’art. 1 R.D. n. 267/42 come modificato dal D.Lgs. n. 169/2007, prescindendosi, invece, del tutto da quel «criterio assolutamente idoneo e sicuro», oltre che oggettivo, che tenga conto dell’«attività svolta», dell’«organizzazione dei mezzi impiegati», dell’«entità dell’impresa» e delle «ripercussioni che il (suo) dissesto produce nell’economia generale» già ritenuto necessario dalla Consulta al fine di evitare che «imprese molto modeste incorrano nelle procedure fallimentari» e che vengano meno le finalità del fallimento o, peggio, che questo si trasformi nei fatti addirittura in «un rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori».

Tanto premesso in fatto ed in diritto, va disposta la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per la decisione sulla questione pregiudiziale di legittimità costituzionale, siccome rilevante e non manifestamente infondata.