Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 437 - pubb. 01/01/2007

Fallimento di società di fatto tra società semplice ed i soci

Tribunale Roma, 01 Novembre 2006. Est. Di Marzio.


Fallimento pronunciato a seguito di accoglimento del reclamo da parte della Corte d'appello – Opposizione – Società di fatto tra società semplice e soci della stessa – Distinzione delle entità partecipanti alla formazione della volontà sociale – Insussistenza.



Perché possa ritenersi sussistente una società di fatto tra determinate persone fisiche ed una società semplice di cui le stesse sono unici soci, occorre che nell’ambito di tale società di fatto sia possibile distinguere nettamente le singole soggettività partecipanti e tali da esprimere una propria opinione di indirizzo utile a fondersi con le altre opinioni parimenti idonee a concorrere alla formazione pluralistica della volontà sociale. (Nel caso di specie, il Tribunale ha negato la sussistenza di tale società di fatto ritenendo difficilmente ipotizzabili separate determinazioni espresse dalla medesima persona fisica ora nell’ambito della società semplice, al fine di determinare la volontà della società di fatto, ora autonomamente, quali soci insieme alla società semplice nella società di fatto che tutti li ricomprende). (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


Segnalazione del Prof. Avv. Francesco Fimmanò


omissis

r.g. 2809/2004

Svolgimento del processo

Con citazione in opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento F. V., P. S. e P. S. hanno convenuto in giudizio la curatela fallimentare della s.d.f. F. V., P. S., P. S. e dei loro fallimenti in proprio, nonché Cassa di Risparmio di Rieti, Intesa Gestione Crediti, Banca di Roma, e Banco di Napoli impugnando contestualmente la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata da questo Tribunale in data  17.12.2003, n. 1190/03, con la quale è stato dichiarato il fallimento della s.d.f. F. V., P. S., P. S. e delle persone fisiche stesse.

Gli opponenti hanno in particolare contestato:

1) la regolarità della procedura, per non essere stati, nonostante espressa richiesta,  convocati ai sensi dell’art. 15 davanti al Tribunale dopo che la Corte di Appello di Roma, riformando il decreto di rigetto dell’istanza di fallimento precedentemente emesso da questo Tribunale, aveva ordinato, ai sensi dell’art. 22 l.f., dichiararsi il fallimento;

2)la ricorrenza del presupposto di fallibilità integrato sia dalla sussistenza di una società di fatto tra le persona fisiche, sia della qualità di imprenditore commerciale in capo alle stesse. Hanno inoltre precisato che, essendo la sentenza dichiarativa di fallimento argomentata sulla sussistenza tra dette persone fisiche e la Sg. s.s. di una società di  fatto, poiché P. S. e S. hanno esercitato la facoltà di cessione della loro partecipazione sociale in data anteriore all’anno precedente alla dichiarazione di fallimento, questa dichiarazione deve in ogni caso essere revocata nei loro confronti in applicazione del disposto dell’art. 10 l.f.

Infine, gli opponenti hanno chiesto condanna al risarcimento dei danni subiti,formulando apposita domanda nei confronti dei creditori istanti per la somma di euro 25.000.000,00, o diversa somma ritenuta dal Tribunale.

Si costituivano in giudizio i creditori: Capitalia (già Banca di Roma); Intesa Gestione Crediti; San Paolo IMI (incorporante il Banco di Napoli) e la curatela fallimentare.

I primi due creditori contrastavano la domanda chiedendone il rigetto; il terzocreditore concludeva rimettendosi alle determinazioni del Tribunale; la curatela fallimentare chiedeva in via principale il rigetto della domanda e in via incidentale la correzione della sentenza dichiarativa di fallimento per essere il Tribunale incorso in errore materiale avendo argomentato in motivazione il fallimento della Sg. s.s. ma non avendo riportato in dispositivo anche la denominazione di detta società.

Con istanza in data 30.3.04, la curatela fallimentare presentava nuovamente al Tribunale domanda di correzione dell’errore materiale. Il Tribunale, con ordinanza del 4.8.04, riconoscendo la sussistenza del lamentato errore materiale, disponeva in conformità.

Con atto in opposizione alla dichiarazione di fallimento la Sg. s.s. conveniva in giudizio tutti i creditori menzionati nonché la curatela fallimentare della s.d.f. e della Sg. ribadendo le domande già formulate (con eccezione di quella sul risarcimento dei danni nei confronti di San Paiolo IMI, poi espressamente rinunciata all’udienza del 2.1.2004)e formulando apposita domanda di opposizione avverso il fallimento di Sg. s.s.

Si costituivano in giudizio i creditori Capitalia e Intesa Gestione Crediti nonché la curatela fallimentare.

I creditori contrastavano la domanda chiedendone il rigetto; la curatela fallimentare chiedeva, inoltre, riunirsi la nuova causa a quella già pendente.

Riuniti i due giudizi, ed espletata l’istruttoria, la causa era trattenuta in decisione sulle conclusioni delle parti costituite come da atti.

Motivi della decisione

L’eccezione sollevata in via pregiudiziale dagli opponenti F. V., P. S. e P. S. non è fondata e va respinta.

Gli opponenti lamentano di non essere stati convocati dal Tribunale per essere sentiti in ordine alla dichiarazione di fallimento imposta dalla Corte di Appello. In questa prospettiva, discutono analiticamente la diffusa motivazione all’uopo resa dal Tribunale, che non ha ritenuto di accogliere l’istanza da loro espressa a riguardo; per argomentare infine la violazione dell’art. 15 l.f. così come riletto dalla Corte costituzionale  con sentenza n. 141/1970: e dunque la violazione del principio del contraddittorio nella istruttoria prefallimentare in ragione della mancata assicurazione del diritto di difesa al fallendo.

Per giurisprudenza consolidata, il diritto costituzionale di difesa del fallendo è assicurato dalla sua convocazione in camera di consiglio in sede di istruttoria prefallimentare.

Come emerge dagli atti e come dichiarato dalle parti, tale convocazione ha avuto luogo; i fallendi hanno attivamente svolto le loro difese sia in tale sede che nella sede del reclamo davanti alla Corte di Appello avverso il decreto di rigetto di questo Tribunale. Infine, hanno ulteriormente svolto difese nella istanza sulla convocazione presentata al Tribunale a seguito della remissione degli atti avvenuta in applicazione dell’art. 22 l.f. In tale istanza, hanno illustrato le ragioni della opportunità della convocazione, rendendone così edotto il Tribunale.

A tal riguardo, va osservato che, per orientamento della giurisprudenza di legittimità, ove il tribunale dichiari il fallimento, non è in dovere né di comunicare il decreto né di ascoltare il debitore in camera di consiglio una volta che questi abbia esercitato il diritto di difesa avanti alla Corte di appello (cfr., per es., Cass. n. 3919/93).

A maggior ragione, la dichiarazione di fallimento deve ritenersi comunque valida se il debitore, non convocato davanti al Tribunale, abbia comunque espresso le proprie difese consentendo al giudice di tenerne conto. Ciò si è verificato nel caso di specie, come emerge dalla sentenza dichiarativa di fallimento la quale, come anticipato,è motivata in prevalenza proprio con riguardo alla istanza di convocazione e alle ragioni di merito che la fondano. Pertanto, la valutazione sulla convocazione ulteriore dei fallendi era valutazione di mera opportunità, e non di stretta legalità.

Le ragioni di merito affermate dagli opponenti come ostative alla dichiarazione di fallimento devono essere nondimeno vagliate in questa sede, in quanto costituenti ragioni dell’opposizione.

In primo luogo, rilevano gli opponenti che P. S. e P. S., al momento della dichiarazione di fallimento, non erano più soci della Sg. da oltre un anno; alla dichiarazione del loro fallimento osterebbe pertanto il disposto dell’art. 10 l.f. In secondo luogo, gli opponenti sostengono che sarebbe difettato, in capo ai creditori, un interesse giuridicamente apprezzabile alla dichiarazione di fallimento, in quanto i creditori istanti disponevano di ipoteche su tutti i beni degli opponenti.

Entrambi gli argomenti sono incondivisibili.

Il primo, in quanto le persone fisiche sono state dichiarate fallite non in qualità di soci della Sg., ma in qualità di soci, insieme alla Sg., di una società di fatto: con conseguente irrilevanza della cessazione, oltre il termine annuale, della qualità di soci dei P. della Sg..

Giova aggiungere che il socio di società di fatto, dunque socio illimitatamente responsabile, rimane soggetto alla dichiarazione di fallimento sine die in considerazione del difetto di pubblicità nel registro delle imprese. La circostanza del recesso, infatti non è resa nota ai terzi.

Tale recesso, infine, sarebbe comunque stato inopponibile ai terzi in quanto pur sempre privo di pubblicità, attesa la natura giuridica di società semplice (dunque: società collettiva irregolare) della Sg..

Il secondo argomento è parimenti infondato: sia in quanto l’interesse alla dichiarazione di fallimento non è particolare e in capo ai creditori istanti, ma ordinamentale (come dimostra, pe es., la fallibilità dei soci illimitatamente responsabili in quanto soci di società personali e di società in accomandita per azioni: art. 147 l.f.); sia in quanto l’interesse dei creditori alla dichiarazione di fallimento non è soddisfatto dalla responsabilità illimitata del debitore, dovendosi apprezzare anche le possibilità legali di ricostruzione dell’attivo che soltanto la dichiarazione di fallimento consente pienamente (basti pensare alla esperibilità delle azioni revocatorie fallimentari).

Sempre in via pregiudiziale, va respinta l’eccezione processuale sollevata da Sg. in merito alla propria dichiarazione di fallimento.

Deduce l’opponente violazione dell’art. 276 c.p.c. per essere stata l’ordinanza di correzione pronunciata da collegio diverso da quello della sentenza dichiarativa di fallimento; specifica infatti che tale ordinanza si fonda su di una pretesa correzione di errore materiale come tale non sussistente, ed integra pertanto nella sostanza una autonoma sentenza dichiarativa di fallimento, che avrebbe dovuto essere pronunciata allo stesso collegio che riservò la decisione. Poiché ciò non è avvenuto, ne sarebbe derivata lesione del diritto costituzionale di difesa, con conseguente nullità del provvedimento.

In realtà, dalla lettura della motivazione della sentenza dichiarativa di fallimento n. 1190/03 si evince chiaramente che la stessa è argomentata, sia espressamente (cfr. il primo capoverso della motivazione), sia con ampio richiamo alle argomentazioni svolte dalla Corte di Appello nel suo decreto, nei confronti delle persone fisiche F. V., P. S., P. S. e nei confronti della Sg. s.s. quali soci tutti di una ritenuta società di fatto.

Ne discende l’assoluta coerenza della dichiarazione di fallimento di tutti i soci di tale società di fatto e l’assoluta incoerenza della dichiarazione di fallimento di alcuni soltanto di costoro, in assenza di una esplicita motivazione sulla esclusione (es., decorso del termine posto dagli artt. 10 o 11 l.f.): motivazione che nel testo del provvedimento non è rinvenibile.

Ne consegue che l’omissione della dichiarazione di fallimento della Sg. s.s. in tale sentenza è dovuta a mero errore materiale e non a una valutazione espressa sul punto dai giudici.

Ai sensi dell’art. 287 c.p.c., l’ordinanza di correzione dell’errore materiale deve essere pronunciata dallo stesso giudice che ha deciso la controversia: per tale intendendosi – pacificamente - lo stesso ufficio giudiziario. Come nel caso di specie è avvenuto.

Nel merito, l’opposizione è fondata e va accolta.

Sostiene la Corte di Appello nel suo decreto che:

i) “il Tribunale ha respinto l’istanza di fallimento presentata dagli istituti di credito, in considerazione della mancata prova rigorosa dell’esistenza di una società di fatto tra i soci [la F. e i P.], finalizzata alla gestione unitaria del patrimonio mobiliare ed immobiliare comune, con coordinamento e decisioni, anche attraverso la società semplice Sg. 79, relative all’attività svolta dalle varie società di capitali appartenenti agli stessi, dichiarate in seguito fallite”;

ii) deve pertanto accertarsi la “esistenza o meno di una società di fatto, unitariamente gestita, tra i familiari P. (madre e due figli) e la società semplice da loro creata (Sg. 79), titolare di loro beni immobili”;

iii)precisano i giudici di appello che tali beni sono serviti a garantire, insieme ai beni personali dei soci, le banche in relazione ai finanziamenti concessi alle società di capitali poi fallite;

iv) precisano inoltre che in tali società di capitali i soci persone fisiche della società di fatto erano soci di maggioranza e ricoprivano le cariche sociali;

v) sostengono l’esistenza di un “gruppo editoriale P.”, costituito dalle società di capitali;

vi) sostengono che la Sg. è stata costituita allo scopo di finanziare e garantire l’attività editoriale delle società di capitali;

vii) sostengono che la Sg. deve pertanto considerarsi società di fatto, svolgente l’attività indicata: “organizzare, gestire e sovvenzionare, attraverso i predetti finanziamenti, l’attività di tutte le società operative, ingenerando, peraltro, legittimamente nei terzi la certezza che società e soci fideiussori agissero come soci e non come garanti”;

viii) concludono che pertanto soci persone fisiche e società semplice (e dunque la società di fatto che essi compongono) integrano “la parte finanziaria e organizzativa centrale” di detto gruppo.

ix) ordinano infine la dichiarazione di fallimento sull’argomento che sussistono prove sufficienti a suffragare tale ricostruzione.

Come si vede, i giudici della Corte di Appello ipotizzano una società di fatto prima tra le persone fisiche; poi tra di esse e la società semplice (cfr. i) e ii)). Ipotizzano il “gruppo P.” come integrato dalle società di capitali,quali società operative (cfr. v)). Ipotizzano la Sg. come società di fatto (cfr. vii)). Ipotizzano che le persone fisiche e la Sg. costituiscono parte integrante del gruppo (cfr. viii)).

Una coerente ricostruzione della tesi svolta dalla Corte di Appello – e sollecitata dai creditori istanti – postula quanto segue.

1) Tra le persone fisiche F. V., P. S. e P. S. e la s.s. Sg., di cui le stesse persone fisiche costituiscono la compagine sociale, è costituita una società di fatto.

2) Tale società di fatto, patrimonialmente integrata dai cespiti in capo alle persone fisiche e alla società semplice, ha per oggetto sociale il compimento dell’attività di direzione e coordinamento delle società operative di cui le predette persone fisiche sono soci e amministratori.

3) L’attività di direzione e coordinamento è esercitata dalla società di fatto per mezzo dell’attività dei soci persone fisiche della stessa, i quali la pongono in essere in grazia dei ruoli ricoperti in dette società operative.

4) Tale attività di direzione e coordinamento determina un controllo della società di fatto sulla attività delle società operative.

5) Il fatto storico di tale controllo evidenzia l’esistenza del fenomeno giuridicamente rilevante del gruppo di società: nel caso di specie, del “gruppo P.”, costituito dalla società di fatto (persone fisiche e società semplice) e dalle società di capitali operative nell’editoria.

6) Oltre alla gestione unitaria delle società operative, e anche a prescindere da essa, la società di fatto e i soci che la compongono (le persone fisiche e la Sg.) esercitano una attività volta a favorire il finanziamento bancario delle società operative, la quale si esplica nel rilascio sistematico di garanzie reali e personali a supporto dei debiti contratti dalle società operative.

7) Da questa complessa attività discende un vantaggio specifico di ogni socio persona fisica della società di fatto, il quale vantaggio è determinato dalla posizione di socio che tale persona fisica ricopre nelle società operative.

8) Essendo stata isolata una società di fatto (composta dalle persone fisiche e dalla Sg.); essendo stata evidenziata una attività d’impresa della stessa (coordinamento e finanziamento delle società operative); essendo apprezzabile il lucro derivante da tale attività, è ricostruita compiutamente la fisionomia di un soggetto fallibile. Trattandosi di società di fatto, al fallimento della stessa consegue il fallimento delle persone fisiche che vi partecipano.

Questa ricostruzione, che ripete gli elementi esplicitati dalla Corte di Appello integrandoli con altri elementi non specificati e tuttavia necessari alla costruzione della figura giuridica, e dunque da ritenersi impliciti, solleva molteplici perplessità. E ciò sia con riguardo agli elementi costitutivi già esplicati, sia per la mancanza di altri elementi costitutivi, la ulteriore esplicitazione dei quali è necessaria per la costruzione della figura.

Infatti.

Ipotizzare che tra le persone fisiche e la società semplice di cui esse sono gli unici soci possa costituirsi una società di fatto impone che nell’ambito di tale società di fatto sia nettamente distinguibile ogni soggettività partecipante, come tale capace di esprimere una propria opinione di indirizzo utile a fondersi con le altre opinioni parimenti idonee a concorrere alla formazione pluralistica della volontà sociale. Ciò impone, ontologicamente, il contratto di società.

Nel caso di specie, tuttavia, da un lato vi sono persone fisiche, dall’altro una società semplice (in effetti una società in nome collettivo irregolare) costituita da quelle stesse persone fisiche. Pertanto, resta difficile immaginare separate determinazioni espresse dalla stessa persona fisica ora nell’ambito della società semplice, a conformare la volontà che la stessa esprime nella società di fatto, ora autonomamente, quali soci, insieme alla società semplice, nella società di fatto che tutti li ricomprende.

Va inoltre precisato che la supposta attività di direzione e coordinamento è esercitata, in effetti, non dalla società di fatto, ma da alcuni soci della stessa: le persone fisiche. La società semplice non risulta in nessun modo socia o amministratrice delle società operative, né risulta svolgere in via di fatto un controllo sulla attività delle stesse, e dunque, per mezzo dell’operatività di esse, una attività d’impresa (secondo l’ipotesi della c.d. holding pura, stigmatizzata da Cass. n. 1439/90). Ne discende che la società di fatto, non svolgendo la funzione di controllo, non può ricevere vantaggi dall’operatività delle società di capitali (ossia vantaggi di gruppo): manca pertanto un lucro oggettivo (indefettibilmente richiesto dalla giurisprudenza: v. ancora la fondamentale Cass. n. 1439/90).

Anche a prescindere da tale ultimo rilievo, e accedendo all’ipotesi della c.d. holding operativa, ossia della organizzazione che svolge attività accessorie e vantaggiose per le società di capitali afferenti al gruppo (quali attività ausiliarie e finanziarie), integranti esse stesse attività di carattere imprenditoriale, dovrebbe individuarsi un lucro oggettivo autonomo e indipendente da quallo discendente dalla operatività delle società di capitali appartenenti al gruppo: cosa che nel caso di specie non è nemmeno ipotizzata.

Nemmeno ipotizzando la sussistenza di una holding mista il discorso può preludere a esiti soddisfacenti. Infatti, escluso un lucro oggettivo e autonomo, dalla attività di direzione e controllo del gruppo esercitata da alcuni suoi soci la società di fatto non ricava alcun vantaggio a essa direttamente imputabile. Il vantaggio è infatti in capo alle persone fisiche che ne costituiscono in parte la compagine; esso deriva dalla posizione assunta da tali persone fisiche nelle società operative (lucro soggettivo).

Ne discende che nessun vantaggio è ipotizzabile in capo alla società semplice quale socia anch’essa della società di fatto: né vantaggi derivanti dal partecipare alla società di fatto (la quale non ripete vantaggi), né vantaggi diretti (non partecipando la società semplice alle società operative). Dovrebbe pertanto a tale ultimo riguardo desumersi l’esistenza di un patto leonino tra i soci della società di fatto, partecipando la società semplice soltanto alle perdite e non anche agli utili (cfr. art. 2265 c.c.). Di tale patto non è traccia negli atti né menzione negli scritti difensivi.

Sembra pertanto inevitabile ipotizzare una società di fatto costituita dai soci dalla società semplice soltanto, quali soci – appunto - della società semplice (come tale esteriorizzata, e dunque apparente).

Proseguendo nell’esame del merito, va osservato che il fallimento delle persone fisiche e della società semplice, quali soci della società di fatto tra di essi ipotizzata, è stato chiesto dai creditori dei fallimenti delle società operative, che sono anche creditori della società Sg. e delle persone fisiche (essendosi costituiti, questi ultimi, garanti delle società di capitali).

Deve escludersi che tale fallimento sia stato chiesto, e comunque potesse essere dichiarato, in estensione ai fallimenti delle società di capitali: e ciò per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, la formula all’epoca vigente dell’art. 147 l.f. includeva tra i legittimati al ricorso soltanto il curatore fallimentare, oltre a disporre il potere del Tribunale di dichiarare il fallimento di ufficio. Dunque, i creditori non avrebbero avuto legittimazione alla domanda.

In secondo luogo, secondo la regola posta dall’art. 2462 c.c., la responsabilità illimitata del socio di s.r.l. per le obbligazioni assunte dalla società presuppone (tra l’altro) il possesso integrale in capo a tale soggetto delle quote, come non è dimostrato essere nel caso di specie (e come risulta peraltro escluso dai ricorrenti, che hanno riferito di partecipazioni di maggioranza e non esclusive: né formalmente tali, né tali in via indiretta: per intestazione fiduciaria a soggetti terzi).

Il fallimento della società di fatto e dei soci che la compongono non poteva dunque essere dichiarato, né può essere confermato, come fallimento in estensione ai fallimenti delle società di capitali operative.

Tale fallimento poteva invece essere richiesto e dichiarato come fallimento in proprio. In primo luogo, come fallimento della società di fatto che svolgesse una autonoma attività di coordinamento dell’altrui attività e/o una attività di finanziamento e/o di garanzia della stessa, e dunque fosse qualificabile come impresa autonoma ma fiancheggiatrice delle società operative. In secondo luogo, come fallimento della Sg. e, autonomamente, delle persone fisiche, quali imprenditori insolventi.

Il tenore dei ricorsi per la dichiarazione di fallimento, genericamente indirizzati alle persone fisiche e alla società semplice che essi compongono, non esclude tali eventualità, che devono pertanto essere analizzate e accertate in fatto.

Con riguardo all’ipotesi del fallimento in proprio della società Sg., quale società di fatto, vale quanto segue.

La dichiarazione di fallimento in via autonoma può ricorrere in una delle tre ipotesi isolate dalla dottrina e dalla giurisprudenza: 1) la società di fatto deve esercitare una attività di direzione gestione e controllo delle società operative, fornendo alle stesse i mezzi per l’attività; 2) oppure una attività autonomamente esplicata e concernente il finanziamento (anche) delle società operative; 3) oppure entrambe le attività.

In tutti e tre i casi il fallimento sarebbe dichiarato per la sussistenza di una autonoma qualità di imprenditore commerciale della società di fatto e per la sussistenza di una autonoma insolvenza, derivante dall’inassolvimento delle proprie obbligazioni verso le società del gruppo e/o verso i loro e/o i propri creditori.

Una prima fattispecie rientrante in tale novero di ipotesi concerne il mandato diretto della società di fatto (holding) alle società operative, mandato volto all’esercizio dell’attività e supportato dal sostegno finanziario a tale attività assicurato dalla società di fatto (cfr. art. 1719 c.c.). Qui la legittimazione alla domanda spetta soltanto al curatore delle società dichiarate fallite (quale soggetto subentrato alle mandatarie), il quale abbia esercitato la c.d. actio mandati contraria e non abbia ottenuto i finanziamenti richiesti.

Nel caso di specie, il fallimento non poteva dunque essere richiesto dai creditori nemmeno per questa via.

Inoltre, il fallimento può essere richiesto dai creditori della società di fatto (holding), in via autonoma rispetto al fallimento delle società operative del gruppo, ai sensi degli artt. 2497 ss. c.c. Questo complesso normativo fissa la responsabilità della società holding presupponendo tuttavia non soltanto l’attività di coordinamento da essa svolta sull’attività delle società operative, ma anche i danni che ne derivano per essere stata esercitata tale attività in maniera non conforme ai principi del corretto svolgimento dell’attività imprenditoriale delle società operative, provocando danni alle società e dunque ai soci (in ragione della minore redditività delle imprese e al diminuito valore delle partecipazioni) e ai creditori delle stesse (in ragione della lesione cagionata all’integrità patrimoniale).

Di modo che, i creditori che avessero promosso e ottenuto l’accertamento giudiziale di tale responsabilità e la conseguente condanna, avrebbero potuto, in caso insolvenza della loro debitrice, richiedere la dichiarazione di fallimento.

Invece, non risulta che il fallimento delle società operative sia disceso dalle emendabili scelte gestionali imposte dalla società di fatto, ma soltanto che tali società sono state dichiarate fallite, e risultano massicciamente garantite nei loro debiti dalla società di fatto e dai suoi componenti. In particolare, non risulta promossa azione di responsabilità da parte dei creditori sociali.

Infine, il fallimento poteva essere chiesto dai creditori della società di fatto per l’autonoma attività di finanziamento quale attività professionale svolta da tale società, e svolta anche – ma non esclusivamente - a vantaggio delle società operative.

Nel caso di specie, invece, le plurime garanzie risultano concesse esclusivamente alle società operative, e (come già sottolineato dal Tribunale nel decreto di rigetto dell’istanza di fallimento) appaiono giustificate dall’essere i soci della società di fatto soci delle stesse: dunque, risultano concesse al di fuori di una autonoma attività di finanziamento (diretto o indiretto, e svolto anche per mezzo del rilascio sistematico di garanzie) che sia anche attività d’impresa autonomamente esercitata da tale società.

Non essendo provato l’esercizio professionale dell’attività di finanziamento o di garanzia, il rilascio sistematico delle fideiussioni (rilevante unicamente quale indizio ai fini di argomentare la qualità della società di fatto quale socia delle società operative, pertanto dichiarabile fallita in estensione) non è di rilevanza giuridica ai fini della dichiarazione di fallimento in proprio.

Per queste stesse ragioni, nemmeno poteva essere dichiarato il fallimento in proprio delle persone fisiche: sì debitrici insolventi ma, per carenza di prova sul punto, non imprenditori individuali. Infatti, non risulta che le persone fisiche, oltre al rilascio delle garanzie (giova ribadire: fatto rilevante unicamente per l’ipotesi del fallimento in estensione a quello delle società garantite), abbiano svolto altre attività. Non risultano, dunque, attività di impresa a loro imputabili: e dunque la loro qualità di imprenditori commerciali.

In conclusione, in atti è prova: della esistenza della società semplice; del rilascio da parte della stessa e da parte dei suoi soci di molte garanzie reali e personali a sostegno del finanziamento bancario di tali società operative; del ruolo preminente, ma non esclusivo, svolto dalle persone fisiche in tali compagini sociali: quali soci di maggioranza (ma non unici) e/o amministratori unici o componenti dei consigli di amministrazione di tali società.

Tutte queste circostanze potevano essere rilevanti per una dichiarazione di fallimento in estensione di quello delle società operative, della quale mancano tuttavia i presupposti. Sono invece in se stesse irrilevanti per la dichiarazione di fallimento in proprio: tanto della Sg., quanto, autonomamente, delle persone fisiche che ne integrano la compagine sociale.

Per tutte le ragioni esposte nel merito, la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere revocata.

Circa la domanda di danni, essa è sfornita di prova, e va pertanto respinta.

Gli opponenti non offrono nessuna prova sui danni effettivamente subiti, nemmeno forniscono elementi sufficientemente univoci perché il giudice possa esprimersi, a riguardo, con apprezzamento equitativo ai sensi dell’art. 1226 c.c., con ciò mancando di assolvere all’onere posto a loro carico dall’art. 2697 c.c.    

Circa le spese di lite, va opportunamente considerata la parziale soccombenza degli opponenti, unitamente all’iter processuale che ha condotto alla decisione, e alla natura particolarmente complessa delle questioni sottoposte al giudicante (e dunque, l’incertezza della lite, testimoniata dalle contrapposte conclusioni a cui sono giunti prima il Tribunale  e poi la Corte di Appello).

Per l’insieme di tali ragioni ricorrono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda in epigrafe, ogni diversa istanza disattesa e resspinta, così provvede:

Revoca la sentenza di fallimento pronunciata dal Tribunale di Roma nei confronti di F. V., P. S., P. S.. RIS. Sg. s.s. s.d.f., e di ciascuno di tali soggetti, depositata in cancelleria in data 17 dicembre 2003 (sent. n. 1190/03);

Respinge la domanda di risarcimento danni proposta dai falliti avverso i creditori ricorrenti;

Compensa le spese di lite.