Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 11576 - pubb. 12/11/2014

Il termine per il deposito della cauzione non è perentorio ma determina l’apertura d’ufficio del procedimento di revoca del concordato di cui all’articolo 173 LF

Appello Bari, 30 Settembre 2014. Est. Patrizia Papa.


Revoca del concordato - Istanza di revoca - Rigetto - Reclamabilità del provvedimento di rigetto - Esclusione

Concordato preventivo - Deposito cauzionale - Natura perentoria del termine - Esclusione - Apertura d’ufficio del procedimento di revoca

Concordato preventivo - Provvedimento di ammissione di cui all’articolo 163 L.F. Reclamabilità - Esclusione



Il decreto di cui all’articolo 173 L.F., con il quale viene rigettata la richiesta di revoca del concordato, non è autonomamente reclamabile, atteso il carattere meramente ordinatorio del provvedimento, il quale non provvede sulla revoca e non implica, pertanto, alcuna decisione in ordine alla omologazione del concordato. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Il termine per il deposito della cauzione di cui all’articolo 163 L.F. non può ritenersi perentorio in mancanza di esplicita previsione normativa; in secondo luogo, il mancato rispetto di detto termine non comporta l’immediata e automatica applicazione della sanzione della revoca del concordato, bensì l’apertura d’ufficio del procedimento di revoca, nell’ambito del quale, previa audizione del debitore, il giudice, tenendo conto dell’interesse della procedura e dei creditori, dovrà valutare caso per caso se il ritardato versamento della somma renda impossibile il rispetto di tutte le successive scadenze. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)

Posto che il decreto di ammissione al concordato preventivo di cui all’articolo 163 L.F. non è soggetto a reclamo per esplicita previsione del primo comma di detta disposizione, appare opportuno rilevare che la soluzione di valutare l’eventuale mancato rispetto del termine per il deposito della cauzione nell’ambito del procedimento di revoca del concordato appare una soluzione coerente con la natura procedimentalizzata del procedimento e consente di contemperare, grazie al controllo del giudice, le particolari e pregnanti varie esigenze di speditezza e certezza della procedura. (Franco Benassi) (riproduzione riservata)


Segnalazione del Dott. Alfredo Cantoni


Il testo integrale



Massimario ragionato del concordato preventivo:

Reclamabilità del provvedimento di revoca

Omesso deposito e apertura del procedimento di revoca

 

Il regime impugnatorio del decreto di archiviazione emesso all’esito del procedimento ex art. 173, l. fall., e la natura del termine fissato dal tribunale per il deposito delle spese del concordato preventivo

di Aldo Tetti (*)

SOMMARIO: 1. La fattispecie oggetto della pronuncia; 2. La tesi della non reclamabilità del decreto di non luogo a provvedere emesso all’esito del procedimento ex art. 173, l. fall. Critica; 3. La natura del termine fissato dal tribunale ai sensi dell’art. 163, comma 2, n. 4, l. fall.

1. La fattispecie su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Appello di Bari può essere così sintetizzata.

Con decreto depositato in data 11 luglio 2013, successivamente integrato con provvedimento del 17 luglio 2013, il Tribunale di Foggia, Articolazione territoriale di Lucera, ammetteva alla procedura di concordato preventivo le società del Gruppo Marte, e segnatamente, Marte s.p.a., Ala Fantini s.r.l., Saba s.r.l., Ala Fantini Precompressi s.r.l., Latermont s.r.l., Fornaci Ioniche s.r.l., Ilas Alveo Later s.r.l., Celam s.p.a., Fantini service s.r.l., fissando (inter alia) il termine ex art. 163, comma 2, n. 4, l. fall., di giorni quindici dalla comunicazione del provvedimento per il deposito della somma di € 1.350.000,00, pari a circa il 35% delle spese presumibili dell’intera procedura.

In data 26 luglio 2013 le società ammesse al concordato di gruppo, temporaneamente sprovviste di sufficiente liquidità, depositavano soltanto la minor somma di € 500.000,00. Il Tribunale apriva perciò d’ufficio il procedimento di revoca dell’ammissione al concordato, ma prima dell’udienza fissata per la trattazione e decisione del procedimento ex art. 173, l. fall., le società del Gruppo Marte versavano l’importo residuo.

A tergo di ciò, con decreto del 13 novembre 2013, il Tribunale dichiarava il non luogo a provvedere sulla revoca, ritenendo che il deposito delle somme necessarie per la procedura fosse comunque avvenuto in tempo utile.

Con decreto del 18 aprile 2014 il Tribunale, dopo aver rigettato, tra le altre, l’opposizione spiegata da Campobasso s.r.l., omologava la domanda di concordato. In particolare, e per quanto qui rileva, nel giudizio di opposizione la Campobasso s.r.l. aveva eccepito preliminarmente l’inosservanza del termine assegnato dal Tribunale ex art. 163, comma 2, n. 4, l. fall., sostenendone il carattere perentorio.

Il Tribunale ha ritenuto però che il termine in esame non ha carattere perentorio e la sua inosservanza deve essere valutata secondo le circostanze del caso concreto. Ha rilevato poi, sotto altro profilo, che la opponente avrebbe dovuto proporre la relativa eccezione in sede di reclamo al decreto di non luogo a provvedere pronunciato all’esito del procedimento ex art. 173, l. fall., e che, non avendolo fatto, ogni ulteriore esame della specifica questione era da ritenersi ormai precluso.

Il decreto di omologazione della domanda di concordato veniva impugnato dalla Campobasso s.r.l. ex art. 183, l. fall. Ad avviso della reclamante, il Giudice di prime cure aveva violato l’art. 163, comma 2, n. 4, l. fall., poiché la natura perentoria del termine ivi previsto avrebbe imposto di rifiutare l’omologazione del concordato stante la pacifica inosservanza di esso da parte delle società del Gruppo Marte. Sosteneva, inoltre, che tale esito non poteva trovare ostacolo nella circostanza che non è stato reclamato il decreto con il quale il Tribunale, dopo aver aperto per la suddetta ragione il procedimento ex art. 173, l. fall., lo ha archiviato, poiché un simile rimedio non è previsto dalla legge e il provvedimento di archiviazione non incide su diritti soggettivi né è idoneo a spiegare effetti costitutivi. Campobasso s.r.l. si doleva infine del rigetto delle eccezioni sollevate in ordine alla inadeguatezza del piano e all’omesso deposito degli accordi tra Fornaci Ioniche s.r.l., BNP Paribas e BNL.

Con il provvedimento in commento la Corte di Appello di Bari ha rigettato integralmente il reclamo.

2. Ciò premesso, si può ora esaminare il primo principio di diritto enucleato dalla motivazione del provvedimento in epigrafe.

Secondo la Corte di Appello di Bari il decreto di archiviazione emesso dal Tribunale all’esito del procedimento ex art. 173, l. fall., non è reclamabile siccome non implica alcuna decisione in ordine alla omologazione del concordato, e quindi non assume carattere decisorio. A sostegno di tale assunto il Collegio ha richiamato il precedente di Cass., 8 maggio 2014, n. 9998 ([1]).

La tesi non convince. Si osservi.

2.1. Avverso il provvedimento di non luogo a provvedere sulla revoca i creditori, che sono parti necessarie del relativo procedimento ex art. 173, l. fall. (e devono esserne notiziati ai sensi della medesima disposizione), possono senz’altro reagire, senza che alla loro iniziativa in tal senso sia di ostacolo la mancanza di espressa previsione della impugnabilità di esso. Infatti, la circostanza che la legge non preveda espressamente un mezzo di impugnazione ad hoc non implica affatto che la reazione sia preclusa e/o che ne manchi disciplina. Significa esclusivamente che la materia è governata dalle norme generali.

Al riguardo, va anzitutto rilevato che quando il procedimento ex art. 173, l. fall., è seguito dalla dichiarazione di fallimento, la reazione contro la sentenza può assorbire anche le ragioni di doglianza relative alla revoca dell’ammissione alla procedura minore, dato il carattere non autonomo e strumentale del decreto di revoca nell’ipotesi in esame, inscindibilmente e funzionalmente collegato alla successiva sentenza dichiarativa di fallimento. Non a caso la disciplina corrisponde a quella che nel vigore dell’originaria legge fallimentare caratterizzava il decreto di inammissibilità secondo la ricostruzione generalmente sostenuta da dottrina e giurisprudenza. La connessione, tuttavia, sebbene rilevante, è solo eventuale, potendo verificarsi, come noto, l’ipotesi in cui alla revoca dell’ammissione non segua la dichiarazione di fallimento.

Sarebbe dunque fuori centro, oltre che palesemente arbitrario, ogni tentativo di assimilare le due ipotesi e di trarre dalla giurisprudenza formatasi sulla prima ([2]) argomenti a sostegno della tesi secondo la quale in assenza della dichiarazione di fallimento non sarebbe consentito ad alcuno reagire avverso il provvedimento, di qualsivoglia contenuto, conclusivo del procedimento ex art. 173, l. fall.

È vero piuttosto che ove connessione vi sia, essa spiega i suoi effetti nel senso appena detto. Qualora, invece, il subprocedimento si esaurisca senza che alla sua conclusione segua la dichiarazione di fallimento, si pone il problema ben diverso della ammissibilità della reazione avverso il provvedimento conclusivo, evidentemente autonomo in quanto non strumentale e non connesso ad altro. Tale problema può presentarsi in due differenti configurazioni, a seconda che il subprocedimento esiti (i) nella revoca del concordato ovvero (ii) nella dichiarazione di non luogo a provvedere sulla stessa, con conseguente archiviazione degli atti.

Come è sin troppo evidente, le due fattispecie sono profondamente diverse fra loro e vanno tenute ben distinte, posto che solo nella prima la procedura si interrompe, mentre nella seconda essa prosegue.

È solo in relazione alla prima ipotesi – quella sub (i) – che la Corte di cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 9998 del 8 maggio 2014, espressamente richiamata dalla Corte di Appello di Bari, che però non ha affrontato la diversa questione della definitività del provvedimento con il quale il subprocedimento di cui all’art. 173, l. fall., si conclude senza interrompere la procedura di concordato.

Ciò risulta inequivocabilmente dalla – peraltro brevissima – motivazione del citato arresto, esplicitamente riferita al “decreto di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, non ancora seguito dalla dichiarazione di fallimento”. D’altra parte, la questione sulla quale la suprema Corte era stata chiamata a pronunciarsi riguardava esclusivamente l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso un decreto di revoca ex art. 173, l. fall., al quale non aveva fatto seguito la dichiarazione di fallimento.

Nel decidere nel senso della inammissibilità la Cassazione ha riconosciuto al provvedimento il carattere della definitività, dando atto della prevalenza in dottrina dell’opinione favorevole alla reclamabilità del decreto di revoca ma ritenendo dirimente in senso contrario l’assenza di esplicita previsione del mezzo per il “caso in cui il procedimento si interrompa al suo inizio o nel suo corso”.

La Corte ha osservato in proposito che ne risulta un sistema nel quale, in assenza della dichiarazione di fallimento, il reclamo è consentito solo se la procedura si interrompe in fase di omologazione, quando il suo stato di avanzamento suggerisce l’opportunità del riesame della decisione da parte del Giudice superiore. Vi si sottende ad avviso della Suprema Corte la tutela del tempo, delle risorse e dei costi sino ad allora impegnati, che sarebbero necessariamente, immediatamente e irreversibilmente vanificati con l’avvio di un nuovo iter a fronte di una nuova domanda per l’ammissione a una nuova procedura.

Per contro, prosegue il supremo Collegio, quando l’interruzione si verifica nella fase iniziale, come avviene – a dire dei Giudici di legittimità “normalmente” – in esito a un subprocedimento ex art. 173, l. fall., tale ratio giustificatrice non sussiste e non si vede, dunque, per quale ragione debba consentirsi il reclamo in una situazione nella quale la riproposizione della domanda è possibile senza vulnus per le esigenze di “celerità ed economia processuali”.

L’accento logico dell’argomentazione che si sottende al principio di diritto enunciato cade, dunque, sulla interruzione della procedura minore, onde la conclusione raggiunta dalla sentenza sinteticamente illustrata non si presta certo a essere trasposta, men che meno automaticamente, alla fattispecie, del tutto inversa, sottoposta al vaglio della Corte di Appello di Bari, nella quale, come si è visto, a conclusione del subprocedimento ex art. 173, l. fall., la procedura stessa, anziché arrestarsi, è proseguita a seguito della dichiarazione di non luogo a provvedere sulla revoca e della conseguente archiviazione degli atti.

È allora del tutto evidente che il Collegio giudicante ha sussunto in modo improprio il caso de quo nell’ambito governato da quel principio, essendo stato un simile approdo espressamente escluso dalla stessa Corte di Cassazione. E tra l’altro, proprio con riferimento alla fattispecie concreta, in cui il subprocedimento ex art. 173, l. fall, è stato aperto e si è chiuso nelle prime battute della procedura di concordato, non pare inutile osservare che ammettere il creditore dissenziente a riproporre la questione in sede di omologazione equivarrebbe inevitabilmente a disperdere tutte le importantissime risorse impegnate, non solo private ma anche pubbliche, vale a dire a determinare né più né meno quell’esito che secondo la Cassazione il legislatore ha inteso scongiurare.

Ne sarebbe vulnerato anche il principio di ragionevole durata del processo, oltre tutto con effetti dirompenti, e di valore e significato proporzionali alla magnitudine degli interessi economici coinvolti nella procedura; onde anche per questa via si conferma l’esigenza di un approccio differenziato alla questione laddove all’esito del subprocedimento ex art. 173, l. fall., la procedura non subisca interruzioni, ma anzi riceva impulso fino alla naturale conclusione. Difatti, non appare in alcun modo giustificabile consentire al creditore che (essendovi legittimato per legge) ha avuto modo di partecipare al subprocedimento ex art. 173, l. fall., e ha omesso di farvi valere le proprie lagnanze, anche eventualmente insorgendo subito contro l’esito e opponendosi alla prosecuzione della procedura, di riproporre a distanza di molto tempo quelle stesse lagnanze che in precedenza aveva trascurato di formulare e/o coltivare, rimanendo in tal modo arbitro delle sorti del concordato sino alla fase terminale del relativo procedimento.

Ne consegue che, in mancanza di espressa previsione di irreclamabilità del decreto dichiarativo del non luogo a provvedere ex art. 173, l. fall., non sussistendo la ratio che ad avviso della suprema Corte giustifica la esclusione di reazione immediata – ratio consistente, come sopra osservato, nell’arresto della procedura in una fase normalmente vicina all’esordio – deve trovare applicazione la disciplina generale, ai sensi della quale avverso tale provvedimento, al pari degli altri resi in camera di consiglio, è permesso insorgere mediante reclamo.

Né può essere sottaciuto che la conclusione cui è pervenuta la Cassazione nella sentenza n. 9998/2014 si pone in aperto contrasto con l’orientamento prevalente in dottrina e più diffuso nella giurisprudenza di merito, cosicché appare più che fondato il dubbio che esso possa non essere confermato in futuro.

Infatti, la maggioranza degli interpreti ritiene possibile insorgere mediante reclamo immediato contro il provvedimento conclusivo del procedimento ex art. 173, l. fall., non accompagnato dalla dichiarazione di fallimento ([3]). Le opinioni divergono sul punto relativo al termine entro il quale il reclamo deve essere proposto, ma si tratta di un aspetto sul quale non occorre soffermarsi, essendo stato risolto dalla giurisprudenza in maniera esplicita e questa volta persuasiva.

Si allude al principio di diritto che sorregge due recenti sentenze della suprema Corte ([4]) rese a proposito del termine per insorgere avverso il decreto di omologazione, che come noto non è espressamente enunciato dall’art. 183, l. fall. Secondo la Corte – ed è ciò che rileva ai fini del presente commento – anche nei casi in cui non sia pronunciato il fallimento dell’imprenditore la reazione deve avvenire nel termine di cui all’art. 18, l. fall., “non potendo, uno stesso termine di impugnazione, mutare a seconda del contenuto del provvedimento impugnato e della eventualità che contestualmente al diniego di omologazione possa o non possa (ad esempio perché non vi sono istanze di creditori) essere pronunciata la ‘separata’ ma ‘contestuale’ sentenza di fallimento, impugnabile ‘con lo stesso reclamo’” ([5]).

Lo stesso termine trova evidentemente applicazione anche quando la procedura si arresti in conseguenza non del diniego di omologazione ma della revoca ex art. 173, l. fall. Di conseguenza, non potendo giustificarsi, alla luce dell’insegnamento della suprema Corte or ora ricordato, termini differenti per reclamare a seconda del contenuto del provvedimento, è inevitabile affermare che non solo la revoca contestuale alla dichiarazione di fallimento, ma ogni altro provvedimento emesso a conclusione del subprocedimento di cui all’art. 173, l. fall., incluso il decreto con il quale si dichiara il non luogo a provvedere e si dispone l’archiviazione degli atti, sono impugnabili con reclamo da proporsi nel termine di trenta giorni o in quello c.d. lungo di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c., desumibile dal combinato disposto del comma 2 dello stesso art. 173, l. fall., e dell’art. 18, l. fall.

2.2. Ma il tema in esame sollecita ulteriori riflessioni poiché una volta stabilito, come si confida, che il creditore è legittimato ad agire immediatamente avverso il provvedimento di archiviazione degli atti relativi al subprocedimento ex art. 173, l. fall., occorre interrogarsi sulle conseguenze di una sua eventuale inerzia. In particolare, occorre domandarsi se, essendo mancata l’impugnazione di detto provvedimento entro il termine prescritto, i suoi vizi possano essere successivamente dedotti a sostegno della opposizione avverso il decreto di omologazione.

L’indagine non è priva di risvolti pratici, giacché nel caso di specie il subprocedimento ex art. 173, l. fall., si è chiuso ben prima dell’apertura della fase di omologazione. Sarebbe, dunque, senz’altro fuorviante ed errato esaminare la questione alla luce degli arresti della giurisprudenza riferiti a vicende nelle quali il procedimento vòlto alla revoca dell’ammissione al concordato si è innestato, invece, nel giudizio di omologazione ([6]).

La risposta al quesito non può che essere negativa, in quanto per regola generale la consumazione del termine per reclamare comporta la decadenza della parte dal potere di provocare una pronuncia sostitutiva della precedente – nel nostro caso quella di non luogo a provvedere e archiviazione degli atti del subprocedimento ex art. 173, l. fall. – assumendola affetta da vizi di legittimità o di merito. Pertanto, la reclamante non avrebbe potuto dedurre a fondamento della opposizione all’omologazione un fatto – la violazione del termine di cui all’art. 163, comma 2, n. 4, l. fall. – sul quale il Tribunale si era già pronunciato in sede di subprocedimento ex art. 173, l. fall., negandone la rilevanza ai fini della revoca dell’ammissione alla procedura con provvedimento non tempestivamente reclamato.

La succinta motivazione resa sul punto dalla Corte di Appello di Bari è perciò illogica e contraddittoria, e il Collegio avrebbe dovuto dichiarare la inammissibilità del motivo di impugnazione ([7]).

3. Fermo ed impregiudicato quanto precede, è però del tutto condivisibile il principio enunciato dalla Corte di Appello barese nella seconda parte della motivazione del decreto in commento, in base al quale il termine ex art. 163, comma 2, n. 4, l. fall., ha carattere ordinatorio e non perentorio.

D’altra parte, gli argomenti sulla base dei quali si è affermata, con riferimento alla disciplina anteriore al c.d. decreto correttivo del 2007, la natura perentoria del predetto termine ([8]) appaiono meritevoli di essere riesaminati alla luce dell’attuale cornice ordinamentale. Da tale compito l’interprete non può considerarsi sollevato dall’arresto di Cass., 22 novembre 2012, n. 20667 ([9]) (e dal precedente in esso richiamato, Cass., 10 luglio 1993, n. 7598 ([10])), il quale, come correttamente osservato dalla Corte di Appello di Bari, sebbene successivo alla predetta fonte normativa, è riferito a una fattispecie regolata dalla disciplina anteriormente vigente.

Nel testo originario l’art. 163, l. fall., rinviando sul punto al comma 2 dell’art. 162, l. fall., contemplava la dichiarazione di fallimento come conseguenza necessaria della inosservanza del termine per il deposito della somma stabilita. Ciò deponeva indubbiamente a favore del carattere perentorio del termine assegnato dal Tribunale a tal fine, ma la ineluttabilità del fallimento è ormai esclusa dal rinvio al comma 1 dell’art. 173, l. fall., da parte dell’art. 163, comma 3, l. fall., nel testo introdotto dal d. lgs. n. 169 del 2007.

Pertanto, la sanzione non può più dirsi coerente con la natura perentoria del termine, se non altro perché, pur potendo essere assai rigorosa – si allude alla revoca dell’ammissione alla procedura – non è in alcun modo automatica, né necessitata.

Venuta dunque meno la possibilità di qualificare “perentorio” il termine alla luce della sanzione posta per la sua inosservanza, non può che prendersi atto della mancanza della “espressa dichiarazione” a tal fine richiesta dall’art. 152, comma 2, c.p.c., che enuncia la regola generale in materia. Onde l’assenza di un elemento indispensabile della fattispecie astratta – “termine perentorio” – alla quale si ritiene comunemente doversi ricondurre la previsione dell’art. 163, comma 2, n. 4, l. fall.

Anche la disciplina appare diversa da quella dettata per i termini perentori, che per regola generale (v. art. 153, comma 2, c.p.c.) consentono comunque alla parte interessata di superare la decadenza prodottasi a suo carico allegando e dimostrando la non imputabilità a sé della causa che ne ha impedito il rispetto ([11]). L’effetto salvifico della assenza di responsabilità è dunque rimesso alla iniziativa della parte, che può esservi ma anche non esservi.

Per contro, nel concordato preventivo l’inosservanza del termine per il deposito della somma stabilita dal Tribunale comporta in ogni caso l’apertura del subprocedimento previsto dall’art. 173, l. fall., al quale numerosi soggetti sono legittimati a partecipare e ammessi a svolgere le rispettive allegazioni, istanze e difese.

Gli è, allora, che se il termine fosse effettivamente perentorio l’attivazione di tale articolato procedimento non sarebbe in alcun modo necessaria. Esso, infatti, giustificandosi evidentemente solo con l’esigenza di permettere al Tribunale di valutare le circostanze dell’inosservanza del termine, e dunque in vista di una conclusione salvifica (per la conclusione opposta, di revoca dell’ammissione alla procedura, non servirebbero alcuna istruttoria né alcun apprezzamento), potrebbe e dovrebbe essere subordinato – giusta la richiamata regola generale – alla istanza dell’imprenditore interessato a rimuovere la decadenza nella quale fosse incorso.

Si noti, del resto, che in relazione allo stato di crisi a monte della domanda di ammissione al concordato preventivo, la prova della non imputabilità a sé della causa del ritardo non sarebbe particolarmente gravosa per il richiedente, ragion per cui l’omissione della iniziativa per la rimessione in termini potrebbe considerarsi (almeno nella maggior parte dei casi) sintomatica della mancanza di suo effettivo interesse per la prosecuzione della procedura minore.

A fronte di ciò, la peculiarità delle conseguenze della violazione del termine ex art. 163, comma 2, n. 4, l. fall., non può non prendere risalto come confermativa della impossibilità di continuare a qualificare il termine stesso come perentorio, e della conseguente necessità di abbandonare l’approdo sul quale si era attestato in passato il formante giurisprudenziale in quanto non più sorretto da idonea giustificazione.

Accertato il carattere ordinatorio del suddetto termine, si deve ritenere altresì che esso possa essere prorogato dal giudice (ai sensi dell’art. 154, c.p.c.) a fronte di una tempestiva istanza di parte. In tal senso, peraltro, si è già pronunciata la più accorta giurisprudenza di merito ([12]).

Alla luce delle considerazioni che precedono, si comprende perché la Corte di Appello di Bari, nel rigettare il reclamo, ha affermato che, al fine di una migliore tutela degli interessi del ceto creditorio, deve essere il Tribunale a valutare caso per caso se il ritardo nel versamento della anticipazione ex art. 163, comma 2, n. 4, l. fall., abbia reso o meno impossibile la prosecuzione della procedura. Giova infatti osservare che, nel caso di specie, le società ammesse al concordato preventivo di gruppo avevano versato in ritardo, ma comunque prima della celebrazione dell’udienza fissata dal Tribunale ai sensi dell’art. 173, comma 1, l. fall., la (peraltro cospicua) somma di € 1.350.000,00, pari al 35% delle spese presumibili dell’intera procedura, senza che ciò abbia arrecato alcun pregiudizio ai creditori o frapposto ingiustificato ostacolo alla prosecuzione della procedura.

(Aldo Tetti)



(*) Avvocato dell’Ordine Forense di Velletri.

([1]) Consultabile nella banca dati on-line pluris-cedam.utetgiuridica.it.

([2]) V. tra le più recenti: Cass., 30 maggio 2014, n. 12185, consultabile nella banca dati on-line pluris-cedam.utetgiuridica.it; Cass., 23 giugno 2011, n. 13817, in Dir. Fall., 2011, II, 615, con nota di Bertacchini, e in Fallimento, 2011, 933, con nota di Ambrosini.

([3]) In dottrina si veda: Penta, La revoca dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo e la risoluzione del concordato, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Ghia, Piccininni e Severini, Milano, 2011, vol. IV, 581 e ss., e nt. 127; Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, 2007, 78 e ss. Nella giurisprudenza di merito si segnalano App. Napoli, 11 giugno 2010, consultabile all’URL www.osservatorio-oci.org, e Trib. Ancona, 14 ottobre 2013, consultabile all’URL www.unijuris.it. Contra: App. Venezia, 30 agosto 2011, consultabile all’URL www.ilcaso.it, secondo cui, qualora in Tribunale provveda alla revoca del concordato preventivo senza contestualmente dichiarare il fallimento, il decreto non sarà autonomamente reclamabile ma impugnabile mediante ricorso per cassazione ex art. 111, Cost.

([4]) Cass., 19 marzo 2012, n. 4304, in Fallimento, 2013, 123, e Cass., 20 settembre 2013, n. 21606, ivi, 2014, p. 596.

([5]) Così Cass., 19 marzo 2012, n. 4304, cit.

([6]) V. App. Napoli, 11 giugno 2010, cit.; App. Salerno, 19 ottobre 2010, in Fallimento, 2011, 338, con nota di Montanari.

([7]) Per converso, il decreto reclamato emesso dal giudice di prime cure si è conformato all’orientamento dominante in dottrina e giurisprudenza (v. § 1).

([8]) Cass., 10 luglio 1993, n. 7598, in Fallimento, 1993, 1250, e in Giust. Civ., 1993, I, 2935, con nota di Lo Cascio; cfr. Cass., 5 aprile 2001, n. 5054, in Dir. Fall., 2002, II, 34. Nella giurisprudenza di merito si vedano, tra le altre: Trib. Siena, 14 gennaio 1992, in Dir. Fall., 1992, II, 830, con nota di Di Gravio; Trib. Genova, 3 febbraio 1987, in Fallimento, 1987, 1183, secondo cui occorre distinguere se, nonostante il ritardo nel versamento delle somme necessarie per la procedura, sia ancora possibile o meno il rispetto delle successive scadenze, con la conseguenza che solo nel primo caso il fallimento non può essere dichiarato; Trib. Treviso, 27 marzo 1986, ivi, 1987, 330; cfr. Trib. Catania, 9 gennaio 1984, in Giur. Comm., 1984, II, 797; cfr. Trib. Foggia, 11 luglio 1980, in Dir. Fall., II, 453, il quale ammette l’integrazione del termine; App. Roma, 23 giugno 1962, ivi, 1962, II, 569.

([9]) In Fallimento, 2013, 999.

([10]) Cit.

([11]) Sull’ambito di applicazione dell’istituto della rimessione in termini e sui relativi presupposti si veda Passanante, Sub. art. 153 c.p.c., in Commentario del Codice di Procedura Civile (diretto da Comoglio, Consolo, Sassani e Vaccarella), Milano, 2012, vol. II, 1025 e ss., ove ultt. riff. di dottrina e giurisprudenza.

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