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Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23180 - pubb. 11/01/2019.

Decorrenza del termine annuale per il fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile


Cassazione civile, sez. I, 26 Novembre 2004. Pres. Olla. Est. Proto.

Socio occulto receduto - Dichiarazione di fallimento - Termine annuale - Decorrenza - Dalla data in cui il recesso sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei


La decorrenza del termine annuale entro cui può dichiararsi il fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile di società di persone non può, per il principio di certezza delle situazioni giuridiche, farsi risalire alla data del suo recesso, nè, tantomeno, a quella della dichiarazione di fallimento della società (dato che l'evento fallimentare non scioglie il vincolo societario), ma deve essere ricondotta alla data in cui lo scioglimento del rapporto societario sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLLA Giovanni - Presidente -

Dott. CAPPUCCIO Giammarco - Consigliere -

Dott. PROTO Vincenzo - rel. Consigliere -

Dott. RORDORF Renato - Consigliere -

Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 17 luglio 1996 il Tribunale di Prato dichiarò Dino Franco M. socio occulto dell'impresa individuale Bertilla Me., già dichiarata fallita con sentenza 9 maggio 1988. Con atto notificato il 5 agosto 1996 il M. propose opposizione, convenendo in giudizio il curatore, e chiese la revoca della dichiarazione di fallimento. Preliminarmente eccepì (fra l'altro) la prescrizione dei diritti societari, ai sensi dell'art. 2949 c.c. e il giudicato negativo sullo stato di insolvenza, determinato dal rigetto di una precedente istanza di fallimento presentata nei suoi confronti. Nel merito contestò l'esistenza (dello stato di insolvenza) della società di fatto. Il curatore si costituì, resistendo all'opposizione.

Con sentenza 18 novembre 1999 il Tribunale rigettò la domanda. La Corte territoriale, adita in sede di impugnazione dal soccombente, confermò la decisione di primo grado, osservando:

- che l'indagine (del curatore) diretta ad accertare i cespiti della massa attiva e la posizione di coloro che risultano avere partecipato alle sorti dell'impresa non è subordinata a limiti temporali, quali quelli inerenti alla prescrizione, e che l'unico limite temporale alla dichiarazione di fallimento è costituito dall'art. 10 l.fall., non applicabile, alla stregua della sentenza n. 66 del 1990 del giudice delle leggi, nei confronti dell'imprenditore occulto;

- che la pronuncia giudiziale di rigetto, già intervenuta sull'istanza di estensione di fallimento avanzata dal curatore, non produce gli effetti di un giudicato, in quanto il relativo decreto non ha contenuto decisorio e, comunque, nella specie la istanza di estensione presentata successivamente dal curatore aveva un contenuto innovativo;

- che una serie di circostanze (il finanziamento esterno all'impresa, il rilascio di fideiussioni, la sottoscrizione di cambiali, gli avalli e le operazioni di sconto) era valutabile come sicuro indice del coinvolgimento del M. nelle vicende dell'impresa apparentemente gestita dalla sola Me..

Avverso questa decisione il M. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di quattro motivi, cui la curatela fallimentare ha resistito con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memorie.


MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo del ricorso si denunciano violazione ed erronea applicazione dell'art. 2949 c.c., dell'art. 132 n. 4 c.p.c. e dei diritti della procedura concorsuale. Il ricorrente lamenta che la Corte di merito - ritenendo inapplicabile alla fattispecie l'art. 2949 - non abbia considerato che la domanda di estensione del fallimento implica l'esercizio di diritti derivanti da rapporti sociali e che nessuna norma dispone la liberazione del curatore fallimentare dai vincoli prescrizionali stabiliti dal diritto sostanziale.

Il motivo non ha fondamento.

La norma invocata a sostegno della censura è, infatti, inapplicabile alla fattispecie, sia perché postula che la società sia iscritta nel registro delle imprese - ipotesi che non può configurasi laddove si verta in tema di socio occulto -; sia perché con la domanda di estensione del fallimento non si fanno valere diritti che si istituiscono tra i soggetti dell'organizzazione societaria, ma si tende ad accertare lo status di socio (che, come tale, non è soggetto a prescrizione), per conseguire l'adempimento delle obbligazioni, rimaste insoddisfatte, contratte dalla società nei confronti di terzi, estranei ai rapporti sociali.

2. Col secondo motivo il ricorrente, denunciando erronea interpretazione e falsa applicazione dell'art. 22 l.fall. e dell'art. 2909 c.c., nonché dei principi relativi alla qualificazione dei provvedimenti giudiziari, lamenta che la sentenza impugnata non abbia considerato che si era determinata una preclusione al riesame di una situazione di fatto, analoga a quella già esaminata dal Tribunale di Prato nel decreto (di rigetto dell'istanza di estensione) emesso nel 1993 - relativa, non tanto alla (in)sussistenza dello stato di insolvenza, quanto alla (in)sussistenza di una società di fatto tra il M. e la Me. Bertilla - che non poteva essere rimessa in discussione da una successiva pronuncia.

Il motivo è inammissibile.

La Corte d'appello ha basato il proprio decisum su una duplice argomentazione, ciascuna autonoma ed indipendente: da un lato, ha affermato che il decreto di reiezione delle istanze di estensione di fallimento, sia sotto il profilo formale che sostanziale, non ha contenuto decisorio, ed è quindi insuscettibile di costituire gli effetti propri di un giudicato; dall'altro, ha rilevato che nella specie il problema del giudicato non aveva ragione di porsi, in quanto con la seconda istanza il curatore aveva sottoposto al Tribunale fatti ed elementi di cui egli era venuto a conoscenza soltanto in un momento successivo, comportanti un nuovo e più complesso esame delle emergenze processuali, sicché la valutazione del Tribunale non poteva essere in alcun modo pregiudicata dal provvedimento precedente.

Alla stregua dell'orientamento risalente e consolidato di questa Corte, quando la sentenza si fonda su più ragioni, tra loro autonome, ciascuna delle quali sia logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione adottata, l'omessa contestazione di una di esse determina l'inammissibilità per difetto di interesse della relativa censura, in quanto la sua eventuale fondatezza non inciderebbe sulle ragioni non censurate e sulla loro idoneità a costituire valido fondamento della sentenza impugnata (Cass. 18 luglio 2000, n. 9449 e Cass. 19 marzo 2002, n. 3965, ex pluribus). Nella fattispecie, poiché le censure svolte nel ricorso non investono in alcun modo le argomentazioni che sorreggono la seconda (autonoma e distinta) ratio decidendi, relativa alla diversità della situazione fattuale esaminata in ordine successivo nei due provvedimenti giudiziari, il motivo risulta inammissibile per difetto di interesse.

3. Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 11 e 147 l.fall., nel testo dichiarato costituzionalmente illegittimo dalle sentenze 66/99 e 319/2000, sopravvenute nelle more del giudizio di merito, nella parte in cui l'art. 147 l.fall. non prevedeva l'impossibilità di assoggettare a fallimento il soggetto cessato nel rapporto societario da oltre un anno. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata - ritenendo inapplicabili al socio occulto receduto i principi enunciati dal giudice delle leggi - avrebbe trascurato che, secondo le predette dichiarazioni di incostituzionalità, non sussisterebbe più alcuna limitazione temporale alla perdita della qualità di socio, in quanto la certezza delle situazioni giuridicità impedirebbe comunque la dichiarazione di fallimento dopo un anno dalla perdita, per qualsiasi causa, della responsabilità illimitata.

Il motivo non ha fondamento.

La Corte costituzionale ha dichiarato (ord. 5 luglio 2002, n. 321) manifestamente infondata la questione relativa al fallimento in estensione dell'imprenditore occulto, ritenendo non raffrontabili, ai fini dell'applicabilità del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile di una società personale, due situazioni del tutto diverse - quella del socio (receduto) di una società regolarmente costituita e registrata, e quella del socio occulto di una società irregolare perché non iscritta nel registro delle imprese o addirittura occulta -, ed ha chiarito che le sentenze n. 66 del 1999 e n. 319 del 2000 (richiamate anche dal ricorrente) avevano considerato esclusivamente le ipotesi nelle quali la società fosse stata regolarmente cancellata dal registro delle imprese o in cui fosse stata regolarmente pubblicizzata la perdita dalla qualità di socio, secondo il giudice delle leggi, infatti, "è proprio la necessità di dare certezza alle situazioni giuridiche che consente al legislatore di dare una diversa disciplina per le società ed i soci in regola con le disposizioni sulla pubblicità, e per le società e i soci irregolari, se non occulti (...)".

In questa linea interpretativa si è poi ritenuto (Cass. 28 maggio 2004, n. 10268) - proprio alla stregua del principio di certezza delle situazioni giuridiche -che la decorrenza del termine annuale per il socio occulto non può farsi risalire alla data del suo recesso, ne', tanto meno, a quella della dichiarazione di fallimento della società, dato che l'evento fallimentare non scioglie il vincolo societario) ma deve essere ricondotta a quella in cui lo scioglimento del rapporto sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Tali principi sono stati ribaditi anche di recente (Cass. 17 ottobre 2004, n. 11304), con l'affermazione che la cessazione non pubblicizzata non è idonea ad escludere l'estensione del fallimento, e che è irrilevante il recesso avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, essendo il rapporto societario per quanto concerne i terzi a quel momento ancora in atto.

In questo quadro di riferimento nessun rilievo assumono, dunque, le argomentazioni del ricorrente, tanto più considerando che esse muovono da un presupposto di fatto - il recesso del socio occulto - neanche ipotizzato nella fattispecie.

4. Col quarto motivo si denunciano violazione e falsa applicazione dei principi qualificanti la società di fatto (artt. 2251, 3258 2263 c.c.), travisamento dei fatti e carenza motivazionale. Il ricorrente contesta la valutazione delle risultarne processuali compiuta dalla Corte di merito, e sostiene che - diversa essendo la motivazione che presiedeva al comportamento del M. nei confronti dell'impresa Me. - ingiustamente le circostanze esami nate sono state qualificate come elementi indizianti della ritenuta società di fatto, elementi che sarebbero comunque insufficienti a configurare un rapporto societario.

Anche questa censura non ha fondamento.

La Corte d'appello, confermando la valutazione già espressa dal primo giudice, ha evidenziato la circostanze, emerse nel corso del giudizio, considerate quali sicuro indice del coinvolgimento del M. nelle vicende dell'impresa apparentemente gestita dalla sola Me. - la prestazione di una fideiussione personale per l'importo di lire 250.000.000 per debiti contratti da quest'ultima le modalità di pagamento delle lavorazioni effettuate dalla Me. attraverso cessioni di assegni bancari o titoli cambiari sempre a firma del M.; la costante interposizione di questi nei finanziamento dell'impresa Me. - ed ha ritenuto che, essendo prive di una plausibile spiegazione, esse erano tutte ed ognuna riconducibili all'esistenza di un accordo tra tutti i soggetti interessati alla gestione in comune dell'impresa, nell'ambito del quale il M. aveva conferito un cospicuo apporto finanziario e prestato una significativa opera personale nella scelta degli indirizzi commerciali. Ha, quindi, concluso che la sistematicità e complessità delle operazioni di finanziamento effettuate dal M., le sue esposizioni per rilevanti importi, l'affidamento ingenerato negli istituti di credito e nei fornitori nella messa a disposizione del proprio patrimonio personale per garantire le obbligazioni dell'impresa, erano indici rilevatori della sua costante opera di sostegno all'attività apparentemente riferibile alla sola Me..

In questo contesto motivazionale, coerente con il quadro normativo ed in linea con la elaborazione giurisprudenziale sul tema, i rilievi del ricorrente si rivelano privi di consistenza, posto che essi tendono palesemente ad una nuova e diversa valutazione, in questa sede, dell'appressamento di fatto compiutamente espresso, nell'ambito della sua esclusiva attribuzione istituzionale, dal giudice del merito.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in euro 4.100.00, di cui 4.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 22 ottobre 2004. Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2004