Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23186 - pubb. 11/01/2019

Decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell'attività e mancato compimento di operazioni

Cassazione civile, sez. I, 28 Marzo 2001, n. 4455. Pres. Senofonte. Est. Vincenzo Ferro.


Fallimento - Imprenditore ritirato - Cessazione dell'attività di impresa - "Dies a quo" - Accertamento da parte del giudice del merito - Incensurabilità in Cassazione - Limiti - Fattispecie



Ai fini della decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell'attività, entro il quale, ai sensi dell'art. 10 legge fall., può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore, il principio della effettività, alla cui stregua l'acquisizione della qualità di imprenditore commerciale è indissolubilmente collegata, al di là di ogni elemento nominalistico e formale, al concreto esercizio dell'attività di impresa, anche la dismissione di tale qualità - per quanto attiene all'imprenditore individuale, diversi criteri essendo accolti per le società - deve intendersi correlata al mancato compimento, nel periodo di riferimento, di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle poste normalmente in essere nell'esercizio dell'impresa, ed il relativo apprezzamento compiuto dal giudice del merito, se sorretto da sufficiente e congrua motivazione, si sottrae al sindacato in sede di legittimità.(Nella specie, alla stregua del principio di cui alla massima, la S.C. ha ritenuto viziata la decisione della Corte territoriale - che aveva respinto l'appello avverso la decisione di rigetto della opposizione alla dichiarazione di fallimento - nella parte in cui aveva desunto gli unici elementi significativi della continuazione dell'attività imprenditoriale oltre il termine di cui all'art. 10 legge fall. dal compimento degli adempimenti amministrativi relativi e conseguenti alla cancellazione dall'albo, negando apoditticamente rilevanza al dato oggettivo dell'assenza di registrazione fiscale di operazioni imponibili ai fini IVA nel periodo considerato.) (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PELLEGRINO SENOFONTE - Presidente -

Dott. VINCENZO FERRO - rel. Consigliere -

Dott. UGO VITRONE - Consigliere -

Dott. FRANCESCO MARIA FIORETTI - Consigliere -

Dott. LUIGI MACIOCE - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

 

S E N T E N Z A


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 6 marzo 1995 il Tribunale di Catania ha dichiarato, su istanza della Bitum Service s.r.l., il fallimento di L. Alfio, imprenditore esercente attività di movimento terra e lavori edili e stradali.

Con citazione notificata in data 31 marzo/1^ aprile 1995 L. Alfio ha proposto opposizione alla dichiarazione del fallimento, deducendo la nullità della sentenza dichiarativa per difetto assoluto di motivazione nonché l'insussistenza dei presupposti per il suo assoggettamento alla procedura fallimentare. L'opposizione è stata rigettata dal Tribunale di Catania con sentenza 9/25 maggio 1996 n. 13. Ha proposto appello L. Alfio chiedendo "riformare la sentenza del Tribunale di Catania, revocando per l'effetto il fallimento di L. Alfio e più precisamente: 1) dichiarare la nullità per omessa o insufficiente motivazione; 2) dichiarare in subordine la nullità o comunque l'illegittimità della sentenza per violazione dell'art. 10 della legge fallimentare; 3) dichiarare, in via gradatamente subordinata, la nullità o illegittimità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del debitore; 4) dichiarare, in via ulteriormente subordinata, la nullità o l'illegittimità della sentenza per carenza del presupposto soggettivo, essendo il L. artigiano o piccolo imprenditore; 5) dichiarare in ulteriore subordine la nullità o illegittimità della sentenza per carenza del presupposto oggettivo non essendo il L. insolvente al momento della dichiarazione del fallimento". Nella contumacia della curatela del fallimento e della società creditrice istante, la Corte di appello di Catania con sentenza 17 luglio 1998/30 gennaio 1999 n. 36 ha rigettato l'appello. La sentenza della Corte di Catania, non notificata, viene impugnata da L. Alfio col presente ricorso per cassazione, notificato al Curatore del fallimento nonché alla Bitum Service s.r.l. in data 14/16 giugno 1999, con deduzione di cinque motivi. Nessuna delle parti intimate si è costituita nella presente sede di giudizio.


MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo dedotto a sostegno del presente ricorso L. Alfio denuncia la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia, nonché la violazione dell'art. 277 c.p.c., per non avere la Corte di merito emesso alcuna statuizione in ordine alla denuncia, formulata dall'appellante, della illegittimità della dichiarazione di fallimento per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del debitore, al quale l'avviso di convocazione era stato notificato soltanto il giorno antecedente a quello dell'udienza all'uopo fissata. Sebbene nel contesto motivazionale della sentenza della Corte di appello non si rinvenga alcuna risposta a quello che - alla luce del tenore delle conclusioni riportate nell'epigrafe della sentenza stessa - risultava essere il terzo profilo di critica formulato dall'appellante contro la sentenza di primo grado, la censura non può trovare accoglimento. Invero, l'odierno ricorrente dà atto, nell'ulteriore sviluppo dell'atto introduttivo del presente giudizio di legittimità, e specificamente nel contesto del secondo motivo, che la deliberazione della dichiarazione del fallimento è stata preceduta da una complessa, ancorché veloce, istruttoria prefallimentare costituita dall'assunzione di prove testimoniali, da produzione di numerosi documenti e conclusa con discussione prima innanzi al giudice istruttore delegato e poi, durante lo stesso giorno, davanti al Collegio". Lo stesso ricorrente, quindi, riconosce che, indipendentemente dalla brevità del termine disponibile, è stato rispettato il suo diritto alla difesa, che in via generale deve intendersi soddisfatto ogniqualvolta l'imprenditore sia stato sentito, gli siano state contestate le circostanze rilevanti ai fini della dichiarazione del fallimento acquisite d'ufficio o emergenti dagli elementi forniti dai creditori istanti, ed egli sia stato posto in condizione di svolgere le proprie controdeduzioni (v. da ultimo in proposito Cass. 8 ottobre 1999 n. 11288). Si perviene quindi a rilevare che la questione specifica sulla quale la Corte di appello ha omesso di espressamente pronunziarsi (la brevità del termine) non riveste il carattere di decisività necessario affinché la stessa possa risultare deducibile ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 360 primo comma n. 5 c.p.c., potendosi con certezza escludere che tale esame potesse condurre il giudice del merito a conclusioni diverse; e che non ricorre alcuna apprezzabile violazione del dovere del giudice del merito di decidere in ordine a "tutte le eccezioni" di cui all'art. 277 c.p.c. invocato dal ricorrente. 2. Nel secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con specifico riferimento all'art. 16 della legge fallimentare, nonché omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ricordando che già in sede di opposizione davanti al tribunale era stata prospettata quale motivo di impugnazione la nullità della sentenza dichiarativa del fallimento per carenza assoluta di motivazione, la quale risultava redatta mediante riempimento, con l'indicazione delle sole generalità dell'imprenditore, di un modello in ogni altra parte prestampato e compilato in termini del tutto generici. Anche questa ulteriore censura di carattere processuale deve essere disattesa. Premesso che la sentenza dichiarativa del fallimento, in quanto costituente provvedimento giurisdizionale come tale soggetto ai principi di cui all'art. 111 Cost., esige il requisito strutturale della motivazione, il quale, pur nella considerazione del suo carattere di sommarietà, non può ritenersi soddisfatto da un mero generico riferimento alle fonti di cognizione utilizzate (quali le istanze dei creditori e i documenti ad esse allegati) ma postula una pur sintetica espressione dell'avvenuto esame dei fatti considerati e valorizzati come dimostrativi dell'esistenza di tutti i presupposti del fallimento, osservasi quanto segue. Per quanto riguarda la prospettata carenza di motivazione della sentenza dichiarativa del fallimento (denunciata in sede di opposizione), la costante giurisprudenza riconosce che la motivazione della sentenza dichiarativa possa essere integrata da quella della sentenza resa in esito all'opposizione; per quanto riguarda, poi, la carenza di motivazione della sentenza pronunciata sull'opposizione (fatta valere quale vizio di questa davanti alla Corte di appello), doveva trovare, e deve trovare ex post in sede di riesame di legittimità, applicazione il principio generale vigente in tema di impugnazioni di merito, per cui la denuncia della nullità della sentenza non può essere fine a se stessa, quasi si trattasse di una autonoma e autosufficiente querela nullitatis, ma risulta ammissibile e rilevante solo se ed in quanto correlata alla prospettazione della ingiustizia della sentenza mediante la deduzione di censure specifiche relative al contenuto decisionale della medesima. Non può quindi parlarsi, in ordine alla sentenza di appello (che sola costituisce termine di riferimento del giudizio di cassazione), di difetto di motivazione nel senso indicato dal ricorrente:

l'adeguatezza della motivazione della conferma del rigetto dell'opposizione esige invece di essere verificata in relazione ai singoli aspetti problematici inerenti al merito, devoluti al riesame del giudice di appello, nei limiti dei motivi di impugnazione proposti.

3. L'ordine logico delle condizioni soggettive ed oggettive della dichiarazione del fallimento impone di esaminare a questo punto il quarto motivo, che ha ad oggetto denuncia di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, indicate specificamente nell'art. 1 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 e nell'art. 2083 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione alla reiezione, da parte della Corte di merito, di quello che era il quarto motivo di appello nel quale si assumeva che il L. non poteva essere legittimamente dichiarato fallito rivestendo egli la qualità di artigiano e piccolo imprenditore. La Corte etnea ha affermato al riguardo: che "il dato formale dell'iscrizione all'albo delle imprese artigiane appare sostanzialmente smentito dalle concrete risultanze afferenti alle dimensioni economiche dell'attività esercitata dal L., il quale era un imprenditore edile che si occupava di movimento terra e di lavori edili e stradali, occupando sia pure saltuariamente dipendenti, operando con mezzi propri che in ragione della natura dell'attività esercitata presuppongono un rilevante investimento di capitali, e dichiarando un volume di affari di circa lire 150.000.000 annui" e che quindi egli "per le dimensioni e l'organizzazione dell'attività e per il carattere di profitto assunto dal suo guadagno deve essere considerato imprenditore commerciale non piccolo, come tale soggetto al fallimento". La ratio decidendi della Corte di merito risulta, nella sua impostazione metodologica, conforme ai principi recepiti nella giurisprudenza di legittimità. Sulla scorta di tali principi, devesi riaffermare anzitutto che, in tema di impresa artigiana, la comparazione e il coordinamento tra la disciplina codicistica e quella contenuta nella legislazione speciale (L. 8 agosto 1985 n. 443, L. 20 maggio 1997 n. 133) conducono a riconoscere che, alla luce delle rispettive normative, un'impresa può avere i requisiti previsti dalla legge n. 443 del 1985 e non essere pur tuttavia conforme al modello delineato nell'art. 2083 C.C.), e quindi a ritenere che i criteri dell'art. 2083 C.C. e in

genere quelli del codice civile valgano per la identificazione dell'impresa artigiana nei rapporti privatistici, e in particolare ai fini della verifica dell'assoggettabilità o meno a procedura concorsuale e ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all'art. 2751 bis n. 5 C.C., senza che ad essi possa sovrapporsi l'influenza di quelli posti dalla legge speciale, che esplicano la loro rilevanza agli effetti della fruizione delle provvidenze previste dalla legislazione regionale di sostegno: con la conseguenza che l'iscrizione all'albo di un'impresa artigiana, legittimamente effettuata ai sensi dell'art. 5 della ricordata legge n. 443 del 1985, pur avendo natura costitutiva nel senso e nei limiti suindicati, non assume significato determinante ex se in altre sedi per la soluzione di altri problemi quali quelli insorgenti in materia fallimentare (V. in tal senso: Cass. 27 luglio 1998 n. 7366; Cass. 29 maggio 2000 n. 7065). E va ricordato inoltre, sempre con il conforto dei precedenti di questa Corte regolatrice, che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 1989, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell'art. 1 comma secondo della legge fallimentare, come modificato dall'art. 1 della L. 20 ottobre 1952 n. 1375, ai fini della distinzione tra piccolo, medio e grande imprenditore, occorre tener conto dell'attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa (v. Cass. 28 marzo 2000 n. 3690). La considerazione specifica e complessiva dell'insieme dei suindicati elementi significativi risulta essere stata compiuta dalla Corte etnea, che ne ha reso conto con una coerente motivazione nella quale risulta implicito anche il raffronto, imposto dall'art. 2083 C.C., tra la valenza dell'attività lavorativa direttamente prestata dal l'imprenditore e quella degli altri fattori della produzione. E, nel suo contenuto di apprezzamento valutativo, la decisione del giudice di merito si sottrae a sindacato nella presente sede. 4. Del pari infondato si palesa il quinto motivo - al cui esame ora si accede sempre nel rispetto dell'ordine logico delle questioni - col quale il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 5 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 e, ancora, l'insufficienza e la contraddittorietà della motivazione della sentenza di appello, in relazione alla sussistenza - contestata dal L. e ritenuta dalla Corte di merito - degli estremi dello stato di insolvenza costituente indefettibile presupposto oggettivo dell'apertura della procedura concorsuale. Contro l'affermazione della Corte di merito secondo cui "oltre al credito di lire 40.000.000 vantato dalla Bitum Service s.r.l. istante per il fallimento, al passivo risultano insinuate ben tredici istanze di vari creditori con pretese creditorie ascendenti nel complesso a circa mezzo miliardo di lire", il ricorrente assume che il rapporto con la Bitum Service era stato oggetto di regolazione cambiaria e che l'avvenuta presentazione di altre dichiarazioni di credito potrebbe ritenersi dimostrativa, al più, dell'esistenza di debiti del l'imprenditore, ma non anche dello stato di insolvenza, in ordine alla cui esistenza la sentenza della Corte di appello risulterebbe carente di motivazione. Invero, legittimamente lo stato di insolvenza, da intendersi come situazione (in prognosi) irreversibile e non meramente temporanea di impossibilità di regolare adempimento di tutte le obbligazioni dell'imprenditore, può essere desunto dalla molteplicità e dall'entità complessiva delle obbligazioni che non hanno ricevuto adempimento alle rispettive scadenze con mezzi normali di pagamento, quando l'imprenditore non alleghi alcuna ragione idonea a dimostrare la mera accidentalità di tale situazione rispetto al normale fisiologico andamento dell'impresa. E, ancora una volta, la valutazione in concreto della sussistenza o meno degli estremi dell'insolvenza come sopra configurata è rimessa al giudice del merito ed è in se stessa insindacabile, alla consueta condizione di assenza di vizi logici e di errori giuridici, dei quali nella fattispecie in esame non si ravvisa la ricorrenza.

5. Resta da esaminare il terzo motivo il quale, con denuncia di violazione e falsa applicazione di norme di diritto - con riferimento alla previsione ostativa alla dichiarazione del fallimento di cui all'art. 10 della legge fallimentare - ripropone il contenuto di quello che era il secondo motivo di appello, nel quale si sosteneva che, non avendo il L. effettuato alcuna operazione commerciale nel corso dell'intero anno 1994, ed avendo egli richiesto in data 16 marzo 1994 la cancellazione dall'albo delle imprese artigiane e comunicato in data 7 marzo 1994 (erroneamente indicata come 7 marzo 1995) la cessazione ai competenti uffici amministrativi, il Tribunale non poteva legittimamente dichiarare il suo fallimento il 6 marzo 1995, ostandovi il disposto dell'art. 10 R.D. 16 marzo 1942 n. 267. La censura investe la motivazione della Corte etnea nella parte in cui si afferma che "così come già evidenziato dal giudice di primo grado, dagli atti emerge che l'attività dl L. prosegui fino ad epoca prossima a quella della sentenza, come è reso manifesto dal fatto che l'odierno fallito presentò richiesta di cancellazione dall'albo presso la Commissione provinciale dell'artigianato solo in data 16 marzo 1994 e che le comunicazioni di cessazione dell'attività ai competenti uffici vennero effettuate solo in data 7 marzo 1995, come dichiarato allo stesso fallito: ne' in senso contrario assume significato univoco e determinante il fatto che non siano state registrate a fini IVA operazioni imponibili nell'anno 1994, trattandosi di circostanza ascrivibile alle più diverse ragioni, non necessariamente incompatibili con la prosecuzione dell'attività". Va ricordato che, in coerenza con il principio della effettività per cui l'acquisizione della qualità di imprenditore commerciale è indissolubilmente collegato, al di là di ogni elemento nominalistico e formale, al concreto esercizio dell'attività di impresa, anche la dismissione di tale qualità (almeno per quanto attiene all'imprenditore individuale, diversi criteri essendo accolti, come è noto, per le società) deve intendersi correlato al mancato compimento, nel periodo di riferimento, di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle poste in essere normalmente nell'esercizio dell'impresa (v. Cass. 4 settembre 1998 n. 8781, con la consueta precisazione che il relativo apprezzamento compiuto dal giudice di merito, se sorretto da sufficiente e congrua motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità). Tale principio sembra correttamente assunto a fondamento della riferita proposizione motivazionale, la quale risulta invece viziata nel successivo sviluppo nel quale i soli elementi significativi della continuazione dell'attività imprenditoriale del L. sono desunti dal compimento degli adempimenti amministrativi relativi e conseguenti alla cancellazione dall'albo, mentre viene apoditticamente negata rilevanza al dato oggettivo dell'assenza di registrazione fiscale di operazioni che sarebbero risultate imponibili ai fini dell'IVA nel periodo considerato: non si può al riguardo non rilevare che la mera considerazione della astratta possibilità (che è inerente ad ogni impresa) della difformità tra la realtà delle operazioni compiute e l'apparenza delle registrazioni fiscali non può essere assunta quale presunzione di una situazione di fatto relativa alla specificità dell'impresa della cui cessazione si ricerca la collocazione temporale. Sotto questo profilo, la doglianza del ricorrente espressa nel motivo in esame risulta fondata e meritevole di accoglimento. Riceve quindi cassazione, in questa parte la sentenza impugnata, e a questo fine sembra necessario il rinvio al giudice del merito. 6. Il giudice del rinvio viene designato nella limitrofa Corte di appello di Messina. Allo stesso giudice viene demandata la regolamentazione dell'onere delle spese del giudizio di legittimità.

 

P. Q. M.

la Corte

rigetta il primo, il secondo, il quarto e il quinto motivo di cui al ricorso;

accoglie il terzo motivo;

cassa, in relazione alla censura accolta, la sentenza impugnata, e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Messina, alla stessa riservando i provvedimenti relativi alle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2000.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2001