ilcaso.it
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23187 - pubb. 11/01/2019.

Decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell'attività e mancato compimento di operazioni


Cassazione civile, sez. I, 13 Dicembre 2000, n. 15716. Pres. Senofonte. Est. Losavio.

Fallimento - Imprenditore ritirato - Termine annuale ex art. 10 della legge fall. - Decorrenza - Presupposti - Cessazione dell'attività d'impresa - Rilevanza - Limiti - Portata


La cessazione dell'impresa, ai fini della decorrenza del termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore individuale (art. 10 legge fall.), coincide con il "completo e assoluto" ritiro dell'imprenditore, che non può dirsi realizzato se nella fase della liquidazione siano state da lui compiute operazioni tali da rivelarsi come manifestazioni di un'attività economica, sia pure svolta esclusivamente in funzione della disgregazione dell'azienda. (massima ufficiale)

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Pellegrino SENOFONTE - Presidente -

Dott. Giovanni LOSAVIO - rel. consigliere -

Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI - Consigliere -

Dott. Antonio GISOTTI - Consigliere -

Dott. Francesco Maria FIORETTI - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

 

S E N T E N Z A


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d'appello di Cagliari con la sentenza pubblicata il 9 maggio 1998 rigettava l'appello proposto da Caterina M. contro la sentenza del Tribunale di Cagliari che aveva rigettato l'opposizione proposta dalla M. contro la sentenza - 29 giugno 1995 - dichiarativa del suo fallimento. Giudicava la Corte infondato l'unico motivo dell'impugnazione con il quale la M. aveva riproposto l'assunto secondo cui il fallimento era stato dichiarato oltre l'anno dalla cessazione dell'impresa, giacché l'ultimo atto da lei compiuto nell'esercizio dell'impresa doveva identificarsi nell'alienazione della residua villetta del complessivo insediamento turistico realizzato, conclusa con l'atto pubblico 27 giugno 1994 (essendo stato il fallimento dichiarato il 29 giugno dell'anno successivo). Richiamata in premessa la giurisprudenza di legittimità - cui il Tribunale si era attenuto - in tema di riferibilità all'esercizio dell'impresa anche delle operazioni compiute in funzione della liquidazione quando riflettono l'attività propria dell'impresa, la Corte di merito condivideva il giudizio dei primi giudici secondo cui dalla documentazione contabile prodotta dal curatore era risultato che fino al 30 giugno 1994 erano state compiute operazioni per certo qualificabili "come esplicazione di attività di impresa". Era infatti documentato che proprio il 30 giugno 1994 la M. aveva proceduto alla demolizione di un box metallico e alla vendita di un'autovettura Fiat y 10, beni compresi nell'inventario aziendale tra quelli definiti come "costruzioni leggere" ed "automezzi". In quello stesso 30 giugno per altro era registrato un movimento contabile di lire 115.434.017, circostanza - questa - "estremamente significativa" perché rivelava la disponibilità di un consistente "fattore produttivo utilizzabile al fine dello svolgimento dell'attività di impresa".

A ciò doveva aggiungersi, infine, che era stata proprio la M. a dichiarare agli ufficiali del nucleo regionale di polizia tributaria, all'ufficio I.V.A. e alla Camera di commercio di Cagliari che la cessazione della sua impresa risaliva al 30 giugno 1994 e se a tali dichiarazioni non poteva attribuirsi che il significato di semplici presunzioni, la concordanza di esse (rese in giorni e ad uffici diversi) aveva trovato riscontro nelle annotazioni contabili, sicché doveva ritenersi raggiunta la prova che l'esercizio dell'impresa fosse in effetti cessato non prima di quel 30 giugno. Quanto all'assunto prospettato in appello dalla M. (l'autovettura indicata nel libro giornale e nelle schede contabili come dismessa il 30 giugno 1994 doveva identificarsi nella Fiat Uno venduta con scrittura autenticata il 25 maggio 1994; il box metallico era stato demolito fin dal precedente gennaio; il commercialista aveva registrato quelle operazioni il 30 giugno, benché esse risalissero a tempi precedenti) la Corte di merito giudicava ininfluente il prodotto documento relativo alla vendita dell'autovettura Fiat Uno, non compresa nel compendio aziendale, mentre schede contabili e libro giornale registrano il diverso veicolo Fiat Y 10; e inammissibile la prova per testimoni dedotta dall'appellante poiché priva dei requisiti di "novità" e "indispensabilità" a norma dell'art. 345, comma 3, C.P.C. (non potendo considerarsi nuova la prova che, benché non dedotta in precedenza, "concerna tuttavia circostanze di fatto che già appartengono alla materia del contendere e hanno già formato oggetto di indagine": a fronte della documentazione contabile prodotta dal curatore in primo grado sarebbe spettato all'opponente contrastarne le risultanze con deduzioni probatorie e la preclusione verificatasi al riguardo ex art. 184 c.p.c. pure in appello). Contro questa sentenza Caterina M. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi di impugnazione. Il curatore del fallimento e la Banca di Roma S.p.A. resistono con controricorso. Tutte le parti hanno presentato memoria ex art. 378 C.P.C.


MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia "violazione e falsa applicazione" dell'art. 10 legge fallimentare, nonché motivazione insufficiente e contraddittoria e critica la decisione per avere la Corte di merito disatteso il principio - affermato così in dottrina come in giurisprudenza - secondo cui l'impresa deve considerarsi cessata dal momento in cui la liquidazione non sia più apprezzabile come manifestazione di un'attività economica, per essersi l'azienda come beni funzionalmente organizzati - ormai dissolta, pur se ancora residuino taluni beni gi... ad es appartenenti. E così come non può dirsi acquisita la qualità di imprenditore se non con l'organizzazione dell'azienda, con la disgregazione dell'azienda necessariamente cessa l'esercizio dell'impresa e dunque nella specie la "demolizione di un box metallico" come la "vendita di un'autovettura non da cantiere", operazioni per certo non tipiche di un'impresa di tipo edilizio, non potevano essere considerate espressione di attività economica pur se finalizzata alla liquidazione dell'azienda.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce "violazione e falsa applicazione" degli artt. 112, 167, 183, 184, 184 bis, 345 c.p.c. e 2697 c.c.; "conseguente nullità della sentenza e del procedimento";

nonché "insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e rilevabile d'ufficio" e rileva che, a fronte della allegazione di generiche operazioni astrattamente riconducibili all'attività d'impresa nei giorni dal 26 al 30 giugno 1994 - contenuta nella comparsa di risposta del curatore del fallimento - il Tribunale aveva enucleato d'ufficio le due operazioni dismissione patrimoniale (e su di esse fondato la decisione), violando il principio del contraddittorio e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: rimasta indeterminata la difesa di parte convenuta, nessun onere di replica e contestazione poteva ipotizzarsi a carico dell'attrice ne', conseguentemente, di deduzione di prova contraria in ordine all'esistenza e alle modalità di fatti mai allegati. Sicché non poteva dirsi intervenuta decadenza alcuna a carico dell'opponente in ordine ad istanze probatorie la cui esigenza si era verificata soltanto a seguito della decisione di primo grado - e la prova per testimoni doveva perciò essere ammessa -.

Con il terzo motivo la ricorrente prospetta e falsa applicazione" degli artt. 2729 c.c. e 345 c.p.c., nullità della sentenza e del procedimento, nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia e lamenta che la Corte di merito non abbia rilevato che l'appellante aveva dedotto la falsità (ideologica) dei documenti sui quali si era fondata la decisione e il fondamento revocatorio della deduzione doveva indurre a superare i limiti di ammissibilità della prova posti dall'art. 345, comma 3, c.p.c., Critica per altro la ricorrente la valutazione negativa in ordine al carattere indispensabile della dedotta prova. a fronte dell'asserita sufficienza delle altre risultanze probatorie, diverse cioè da quelle rimesse in discussione con il nuovo mezzo di indagine: con una tale proposizione la Corte contraddice il nucleo essenziale della motivazione di merito, secondo la quale le due operazioni di dismissione di cespiti mobili costituivano - come documentate nelle scritture contabili - gli indici rivelatori della persistente attività economica mentre agli altri elementi (come il movimento contabile di oltre 115 milioni di lire e le dichiarazioni rese dalla M. circa il tempo di cessazione dell'impresa) era stato riconosciuto un ruolo sussidiario di mero riscontro e non già quello di autonoma e sufficiente fonte di prova.

2. Nella memoria ex art. 378 c.p.c. la ricorrente ha eccepito l'inammissibilità del controricorso della Banca di Roma S.p.A., perché redatto e sottoscritto da un difensore munito di procura generale alle liti (richiamata nell'intestazione dell'atto e prodotta in copia all'atto del deposito del controricorso). L'eccezione è fondata: al controricorso, infatti, per l'espresso disposto dell'art.370, comma 2, c.p.c., si applica la regola dettata per il ricorso dall'art. 365 c.p.c., sicché anche il controricorso deve essere "sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell'apposito albo, munito di procura speciale". Il controricorso della Banca di Roma è dunque inammissibile.

3. Il primo motivo del ricorso è infondato.

Benché la censura denunci pure la violazione dell'art. 10 legge fallimentare, essa in realtà è diretta all'apprezzamento di merito compiuto dalla Corte d'appello che ha fondato il convincimento in ordine al momento conclusivo dell'impresa gestita dalla M. sulla considerazione non soltanto delle due operazioni registrate in contabilità nel giorno 30 giugno 1994 (come demolizione di un box metallico e vendita di una autovettura, beni compresi nell'inventario aziendale tra quelli definiti - rispettivamente - quali "costruzioni leggere" e "automezzi"), ma del quadro complessivo dei molteplici e pur indiretti elementi di conoscenza, convergenti nel senso che la stessa M. aveva inteso cessare e in effetti cessato l'esercizio della sua attività economica il 30 giugno del 1994 - appunto -, avendo fino a quel giorno regolarmente documentato nella contabilità ogni operazione riferibile all'impresa.

Il precedente 27 giugno - innanzitutto - la contabilità aveva registrato la vendita di una "villetta" compresa nell'insediamento edilizio - turistico dalla M. realizzato in Geremeas (località costiera nei pressi di Cagliari) che aveva costituito l'oggetto della sua impresa, mentre il "movimento contabile" annotato il consecutivo 30 giugno attestava una disponibilità di oltre 115 milioni di lire che la Corte di merito ha considerato come "sicuro indice di persistenza in capo alla [M.] di un fattore produttivo utilizzabile al fine dello svolgimento dell'attività d'impresa". E se è vero - come non ha mancato di rilevare la stessa Corte che alla dichiarazione della M. all'ufficio "dell'anagrafe ditte" presso la Camera di commercio di Cagliari (nel senso che la sua impresa era cessata il 30 giugno) non può attribuirsi valore confessorio - di prova legale -, il significato presuntivo di una tale informazione era rimasto avvalorato dalle coincidenti denunce di cessazione presentate ad altri uffici pubblici (Ufficio I.V.A. e Nucleo regionale di polizia tributaria) e in tempi diversi. Ebbene il primo motivo del ricorso svolge argomenti critici che prescindono dal complessivo quadro probatorio (considerato nella sentenza e posto a fondamento della decisione), essendo stato da esso espunto ed isolato l'elemento costituito dalla registrazione contabile delle due operazioni di dismissione aziendale (la demolizione del box metallico, la vendita dell'autovettura), delle quali la ricorrente contesta il valore sintomatico di persistente attività economica, conclusa - a suo dire - invece con la vendita dell'ultima "villetta" avvenuta il 27 giugno 1994 (sicché il fallimento sarebbe stato dichiarato - il 29 giugno 1995 - oltre l'anno dalla cessazione dell'impresa).

Richiama la ricorrente la giurisprudenza di legittimità (e in particolare Cass. 4599/1989) secondo cui per l'imprenditore individuale "il termine di un anno dalla cessazione dell'impresa - entro il quale può essere dichiarato il fallimento decorre dalla chiusura della liquidazione quando in tale fase siano state compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere nell'esercizio dell'impresa" e afferma che dunque nella specie l'ultima operazione di tale natura non può riconoscersi che nella vendita del 27 giugno 1994 e che con quella alienazione (dell'ultimo bene prodotto dall'impresa) è necessariamente cessato l'esercizio dell'impresa. Ma il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte - si deve subito rilevare - è più articolato nel senso che la cessazione dell'impresa, coincidendo con il "completo e assoluto" ritiro dell'imprenditore, non può dirsi perciò realizzato se nella fase della liquidazione siano state compiute operazioni "tali da rivelarsi come manifestazione di una attività economica, sia pure svolta esclusivamente in funzione della disgregazione dell'azienda" (Cass. 165/1962, 1455/1964, 1682/1965, 150/1966, 2580/1967, 59/1969, 3656/1971, 1173/1975, 1113/1978, 1328/1980, 2676/1983, 1918/1984, 4599/1989). E a quel principio la sentenza impugnata si è attenuta e della sua valutazione in concreto (che coglie il nesso tra le molteplici manifestazioni dell'imprenditore) ha dato ragione con motivazione adeguata, logicamente ineccepibile - perciò sottratta al sindacato di legittimità -, cui la ricorrente oppone la considerazione frammentaria dei singoli elementi di giudizio.

4. Anche il secondo motivo è infondato.

Con piena ragione la Corte di merito ha infatti negato ingresso alla prova testimoniale diretta a contrastare il dato registrato nella contabilità di impresa in ordine al tempo in cui erano state effettivamente compiute le due operazioni di liquidazione (aventi ad oggetto la dismissione di beni compresi nell'inventario aziendale tra quelli definiti come "costruzioni leggere" ed avendo anche da quel dato il Tribunale - dapprima - e la Corte d'appello - poi - tratto la conferma dell'indicazione risultante dalle dichiarazioni della stessa M., non solo alla Camera di commercio ma anche all'Ufficio I.V.A. e al Nucleo regionale di polizia tributaria, circa il giorno in cui era cessata la sua attività di impresa (il 30 giugno 1994). Afferma la ricorrente che l'esigenza difensiva rispetto alla quale era strumentale l'istanza istruttoria (di ammissione della nuova prova per testimoni) si era manifestata con la sentenza del Tribunale che, a fronte della "generica" deduzione del curatore secondo cui "l'esame della documentazione contabile dei 14 giorni che vanno dal 27 al 30 giugno 1994 evidenzia la presenza di numerose operazioni le quali non possono non imputarsi all'attività di impresa", aveva "d'ufficio" enucleato i due fatti di liquidazione, conferendo specificità alla "indeterminata allegazione" della parte convenuta:

con l'asserita conseguenza che così come "nessun onere di replica e di puntuale contestazione [...] poteva ipotizzarsi in capo all'attrice", in nessuna decadenza essa era incorsa nel giudizio di primo grado in ordine a deduzioni istruttorie sul punto e non doveva perciò operare nei suoi confronti - in appello - la preclusione del terzo comma dell'art. 345 c.p.c. Ma un tale ordine di considerazioni - osserva il collegio - non resiste al rilievo che a fronte della prospettazione difensiva del curatore (e non integrante una eccezione), secondo cui l'elemento presuntivo ricavabile dalle dichiarazioni della stessa M. agli uffici pubblici - e segnatamente alla Camera di commercio - aveva trovato conferma nelle operazioni integranti attività di impresa registrate nella contabilità aziendale nei giorni dal 27 al 30 giugno 1984 (con diretti riscontri nelle produzioni documentali del curatore), la fallita era onerata di opporre le proprie deduzioni istruttorie idonee a contrastare le risultanze contabili, con riguardo - in ipotesi - all'erroneo riferimento temporale di talune annotazioni. Il Tribunale si è attenuto alla prospettazione difensiva del curatore e ne ha verificato in concreto il fondamento, sicché non può dirsi che l'esigenza difensiva sul punto si sia posta soltanto nel giudizio di appello, a contestazione di un rilievo in ipotesi operato d'ufficio (non precluso per altro al giudice dell'opposizione alla dichiarazione di fallimento, cui si riconosce attitudine inquisitoria) dai giudici di primo grado.

E dunque a ragione la Corte di merito ha negato carattere di novità alla prova per testimoni che sarebbe ben potuta - e dovuta:

art. 184 c.p.c. - essere dedotta in primo grado a fondamento dell'eccezione (ma in realtà sollevata per la prima volta in appello) secondo cui in contrasto con le annotazioni documentate nella contabilità di impresa (regolarmente tenuta fino al 30 giugno 1994, con numerose registrazioni, nel libro giornale e nelle "schede", proprio nei tre giorni conclusivi - come ammette la ricorrente -, talune operazioni tra quelle indicate dal fallimento come proprie dell'attività di impresa erano state invece per errore registrate il 30 giugno 1994 (ma erano state effettivamente eseguite alcuni mesi prima).

5. E infondato, infine, è il connesso ultimo motivo.

Afferma innanzitutto la ricorrente che l'istanza istruttoria non accolta dal giudice d'appello era in realtà formulata (con la prospettazione della falsità ideologica della documentazione contabile su cui era fondata la decisione del Tribunale) a sostegno di una deduzione revocatoria "diretta a conseguire il risultato di eliminazione del documento falso prima di percorrere la via della formale impugnazione della sentenza ai sensi dell'art. 395, n. 2, c.p.c." e sotto questo riguardo la prova doveva essere in ogni caso ammessa. È agevole sul punto opporre che la prospettata ipotesi di vizio revocatorio per certo non ricorre nella fattispecie dove la M. ha contestato in appello la veridicità di una risultanza documentale (del libro giornale e delle schede contabili, prodotti dal curatore in primo grado) e ha formulato l'istanza istruttoria a sostegno appunto della nuova prospettazione difensiva. Quanto poi al criticato apprezzamento negativo in ordine alla rilevanza in concreto della dedotta prova (poiché la decisione nel merito rimarrebbe tuttavia ferma sugli altri elementi di giudizio, pur se risultasse - cioè - che le due considerate operazioni di liquidazione furono in realtà compiute nei mesi precedenti), basti da ultimo osservare che l'argomento sul punto è sviluppato dalla Corte d'appello in linea esplicitamente subordinata a quello dirimente secondo cui alla prova si deve negare l'essenziale requisito della novità, per essere l'attrice opponente incorsa in primo grado nella decadenza al riguardo.

L'indispensabilità richiesta dall'art. 345, comma 3, c.p.c. non può significare, infatti, la mero rilevanza dei fatti dedotti a prova (che ovviamente è condizione dell'ammissibilità di ogni mezzo istruttorio), ma postula la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l'onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale. Come già nel processo del lavoro (art. 437, comma 2, c.p.c.), il potere istruttorio attribuito al giudice d'appello dal comma 3 dell'art. 345 c.p.c., benché abbia carattere ampiamente discrezionale, non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado (essendo tale limite superabile - secondo la nuova formulazione dell'art. 345 c.p.c. - nella sola ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto proporre il mezzo istruttorio nel giudizio di primo grado "per causa ad essa non imputabile").

6. Infondati essendo i tre motivi dell'impugnazione, il ricorso deve essere rigettato, con condanna della M. al rimborso delle spese di questa fase del giudizio a favore del fallimento resistente.

 

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio, a favore del fallimento resistente, liquidate in complessive lire 6.082.900, delle quali lire 5.500.000 per onorari di avvocato.

Così deciso in Roma, il 21 marzo 2000.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2000