Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23192 - pubb. 11/01/2019

Cessazione dell'attività d'impresa e operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste normalmente in essere nell'esercizio dell'impresa

Cassazione civile, sez. I, 04 Settembre 1998, n. 8781. Pres. Cantillo. Est. Finocchiaro.


Cessazione dell'attività d'impresa - "Dies a quo" - Accertamento da parte del giudice di merito - Insindacabilità in cassazione - Fattispecie



Ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore (art. 10 legge fall.), la "cessazione dell'attività d'impresa" presuppone che, in tale periodo, non siano compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste normalmente in essere nell'esercizio dell'impresa, ed il relativo apprezzamento compiuto dal giudice di merito, se sorretto da sufficiente e congrua motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità della S.C. (Nella specie, il giudice di merito, dopo avere individuato quale ultima operazione imprenditoriale quella registrata sotto una certa data, aveva, poi, negato rilevanza alla circostanza per cui l'imprenditore aveva richiesto solo in data successiva la cancellazione della partita IVA. Nel confermare la sentenza impugnata, la S.C. ha espresso il principio di diritto di cui in massima). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Michele CANTILLO - Presidente -

Dott. Alfio FINOCCHIARO - Rel. Consigliere -

Dott. Mario Rosario MORELLI - Consigliere -

Dott. Francesco Maria FIORETTI - Consigliere -

Dott. Giuseppe SALMÈ - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

 

S E N T E N Z A


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 20 giugno 1992, Filippo T. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Vasto, Luigi D'Alessandro, la s.r.l. Finanziaria S. Spirito ed il curatore del fallimento T., proponendo opposizione avverso la sentenza con la quale lo stesso tribunale, con sentenza 5 giugno 1992, aveva dichiarato il fallimento di esso opponente.

Deduceva il ricorrente: a) il decorso del termine di cui all'art. 10 l. fall.; b) il difetto del requisito di cui all'art. 1 della stessa legge, trattandosi di piccolo imprenditore; c) l'inesistenza dello stato d'insolvenza.

Al termine dell'istruttoria e con l'opposizione dei convenuti, il giudice adito revocava la sentenza di fallimento, condannando questi ultimi al risarcimento dei danni liquidati in Lit. 10.000.000 e al rimborso delle spese della procedura concorsuale e del compenso al curatore.

Questa sentenza, appellata dalla Finanziaria s.r.l e dal D'Alessandro, era confermata dalla Corte d'appello de L'Aquila, che, a sostegno della decisione, osservava:

- che era esatta la pronuncia del tribunale la quale aveva preso in considerazione, come ultima data di svolgimento dell'attività, quella del 2 gennaio 1991, quando era stata effettuata l'ultima scritturazione nel registro dei corrispettivi, mentre era irrilevante la avvenuta o non avvenuta cancellazione dai registri della camera di commercio, dal momento che quest'ultima si limita a ricevere le dichiarazioni degli interessati senza eseguire alcuna verifica sulla veridicità delle stesse;

- che, del pari esattamente, il tribunale aveva ravvisato la qualità di piccolo imprenditore del T., risultando dalla relazione del curatore che il fallito esercitava da solo, senza impiego di manodopera, l'attività di molitura delle olive, in locali condotti in affitto, con macchinari non di sua proprietà, ma presi in affitto e con un reddito annuo che non aveva mai superato l'importo di Lit. 21.000.000;

- che correttamente il tribunale - sulla base delle prove dedotte dal T. (fotocopie di denunce - querele sporte alla locale Procura della Repubblica) , non contestate, ne' contrastate - aveva ritenuto che i debiti per i quali era stata ottenuta la dichiarazione di fallimento erano contestati ed oggetto di accertamento penale per i reati di usura ed estorsione, senza che gli appellanti abbiano mai provato o tentato di provare la calunniosità delle denunce e delle querele dell'opponente;

- che la responsabilità degli appellanti doveva affermarsi per non avere gli stessi desistito dalla richiesta di fallimento, malgrado la contestazione dei crediti vantati e la modestia delle dimensioni dell'impresa.

Avverso questa sentenza la Finanziaria Santo Spirito a r.l. ha proposto ricorso per cassazione articolato su tre motivi. Non ha svolta attività difensiva in questa sede il T..


MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 10 l. fall.; violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.; omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa il dedotto decorso del termine annuale, per avere la Corte di appello ritenuto privo di valenza, ai fini del decorso del termine annuale, il certificato della camera di commercio, sollevando, inoltre, l'opponente dall'onere probatorio, sullo stesso incombente, di acclarare fatti ostativi alla emessa pronuncia di fallimento.

La società ricorrente, poi, lamenta un vizio di omessa motivazione per non avere la Corte motivato:

- sulla comunicazione di cessazione dell'attività all'Ufficio IVA, dal momento che, fino alla cancellazione della partita IVA, l'imprenditore può ancora operare;

- sulle testimonianze rese che avevano introdotto elementi di dubbio rispetto alla tesi del T. circa la data di cessazione dell'attività;

- sui movimenti di somme operati dal T. sui conti correnti, tenuto presente che "dalla copiosa documentazione prodotta dall'attuale ricorrente risulta che il T. ha effettuato movimenti sul proprio c/c anche in epoca successiva al 2 gennaio 1991 e cioè anche nei mesi di aprile maggio e giugno 1991 e che il conto venne chiuso l'8 luglio 1991 a seguito della dichiarazione di fallimento".

Il motivo di ricorso è in parte infondato ed in parte inammissibile. È infondato nella parte in cui deduce la violazione di legge, mentre è inammissibile nella parte in cui, per il tramite strumentale dell'art. 360 n. 5 c.p.c., finisce per chiedere a questa Corte un nuovo giudizio di merito.

Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità, ex art. 360 n. 5 c.p.c., sussiste solo se, nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce a questa Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e sceglie, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 21 ottobre 1994 n. 8653; Cass. 22 ottobre 1993 n. 10503). La cessazione dell'attività di impresa, ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore (art. 10 l. fall.), presuppone che nel detto periodo non vengano compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere nell'esercizio dell'impresa. Il relativo apprezzamento del giudice del merito, se sufficientemente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. 3 novembre 1989 n. 4599). Nel caso di specie la Corte d'appello ha ravvisato quale ultima operazione imprenditoriale quella registrata sotto la data del 2 gennaio 1991 e tale scelta ha ampiamente motivato, indicando le ragioni per le quali non poteva darsi rilievo alla data, successiva, in cui il T. aveva richiesto la cancellazione della partita IVA e tale accertamento non si pone in contrasto con Cass. 21 ottobre 1967 n. 2580, relativa ad una diversa fattispecie. Quanto precede è sufficiente per il rigetto del motivo di ricorso.

2. - Il rigetto del primo motivo comporta l'assorbimento del secondo con il quale si deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1 l. fall.; violazione e/o falsa applicazione dell'art.2697 c.c.;omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione sul punto del carattere di "piccolo imprenditore" della ditta fallita. L'eventuale fondatezza delle censure proposte non sarebbe sufficiente per la cassazione della decisione impugnata, la quale resterebbe comunque intangibile per essere stata la dichiarazione di fallimento pronunciata dopo il decorso dell'anno dalla cessazione dell'attività.

3. Con il terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli art. 2043 e 2697 c.c.; omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione sul punto della condanna al risarcimento dei danni, per avere la Corte pronunciato la condanna della ricorrente ai danni, senza preoccuparsi di ricercare la condotta antigiuridica assertivamente fonte di danno e senza acquisire la prova del danno in concreto patito, dal momento che in tanto può procedersi alla liquidazione equitativa del danno, in quanto il danno risulti provato nella sua esistenza.

Secondo la ricorrente, poi, la Corte è incorsa in vizio di motivazione per non avere indicato alcuna ragione per la quale è equa la condanna ad una somma di Lit. 10.000.000, che, stando alla relazione del curatore, il T. non avrebbe incassato neppure in tre anni di attività lavorativa.

Il motivo di ricorso è infondato.

Per l'identità funzionale che caratterizza la procedura fallimentare e la comune procedura esecutiva la responsabilità del creditore che ha proposto l'istanza di fallimento per i danni derivati al debitore da tale dichiarazione, in caso di revoca di questa, costituisce una particolare applicazione al processo fallimentare della responsabilità processuale aggravata disciplinata dall'art. 96 c.p.c. (Cass. 23 ottobre 1993 n. 10556), che ha carattere speciale rispetto a quella generale di cui all'art. 2043 c.c. concernente la responsabilità per fatto illecito. Per tanto, come in tema di responsabilità processuale aggravata per le procedure esecutive individuali deve operarsi una distinzione tra quelle ingiustamente iniziate (inesistenza del diritto sostanziale del credito) e quelle illegittimamente promosse (violazione delle norme concernenti i presupposti e le condizioni di forma e di sostanza della procedura), così in tema di responsabilità per danni del creditore istante del fallimento, poi revocato, è necessario tenere distinta l'ipotesi in cui la revoca sia conseguente all'accertamento dell'inesistenza del credito vantato dall'istante dall'ipotesi in cui detta revoca sia pronunciata per mancanza dei presupposti per farsi luogo alla dichiarazione predetta; con la conseguenza che nel primo caso è sufficiente, per accertare la responsabilità del creditore istante, che questi abbia agito senza normale prudenza, e nel secondo caso, che la sua condotta sia stata dolosa o colposa o gravemente colposa, secondo le diverse previsioni contenute nel comma 1 e 2 dell'art. 96 c.p.c. (Cass. 14 febbraio 1979 n. 971; Cass. 27 febbraio 1988 n. 2071; Cass. 20 marzo 1987 n. 2767; Cass. 7 marzo 1991 n. 2419). L'espressa previsione, da parte dell'art. 96 c.p.c., del potere del giudice di liquidare il danno da responsabilità processuale aggravata si basa sulla considerazione che tale danno non può di norma essere provato nel suo esatto ammontare e quindi deve poter essere liquidato equitativamente dal giudice (Cass. 10 ottobre 1996 n. 8857) Il criterio adottato dal giudice di merito per la liquidazione equitativa del danno non è censurabile in cassazione, quando il relativo potere di scelta è stato esercitato in maniera logica (Cass. 5 giugno 1996 n. 5265) . Nel caso di specie il fallimento è stato revocato per insussistenza delle condizioni soggettive ed oggettive previste dalla norma con la conseguente prova della sussistenza dell' an della relativa richiesta, mentre il riferimento alle ragioni per le quali l'ammontare del risarcimento è stato determinato nella somma ora contestata (mancata desistenza dal fallimento malgrado la contestazione dei crediti e dimensioni dell'impresa del T.) non è censurabile in sede di legittimità.

Ciò giustifica il rigetto del motivo.

4. Conclusivamente, vanno rigettati il primo ed il terzo motivo e va dichiarato assorbito il secondo.

Nulla per le spese per non avere l'intimato svolto attività difensiva in questa sede;

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il terzo motivo e dichiara assorbito il secondo. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I sezione civile della Corte di cassazione il 8 maggio 1998. Depositato in Cancelleria il 4 settembre 1998