Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23943 - pubb. 11/01/2020

Distinzione tra piccolo imprenditore ed imprenditore commerciale

Cassazione civile, sez. I, 04 Marzo 2005, n. 4784. Pres. De Musis. Est. Di Palma.


Fallimento - Qualità di imprenditore commerciale - Sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 1989 - Requisiti necessari per l'acquisto della qualità - Accertamento del giudice del merito - Censurabilità in sede di legittimità - Limiti - Fattispecie



In tema di fallimento, la distinzione tra piccolo imprenditore ed imprenditore commerciale va effettuata, ai sensi dell'art. 1, legge fall., nel testo vigente a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 570 del 1989, avendo riguardo all'attività svolta, all'organizzazione dei mezzi impiegati, all'entità dell'impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale; l'accertamento di siffatti requisiti è riservato all'apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da una motivazione completa, coerente e logicamente congruente (Nella specie, la Corte Cass. ha ritenuto incensurabile la sentenza di merito, secondo la quale la compravendita di pubblicazioni editoriali effettuata presso locali condotti in locazione con un contratto nel quale si dava atto della loro destinazione all'esercizio dell'impresa, il ricorso al credito bancario per rilevanti importi in riferimento a detta attività, l'esistenza di un magazzino contenente merci di significativo valore e la stessa iscrizione alla camera di commercio dimostravano il possesso da parte del fallito della qualità di imprenditore commerciale). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Fatto

1.1 A seguito di distinti ricorsi, proposti dalla Cassa di Risparmio di Pescara e Loreto Aprutino e dalla Editrice Europea di Cultura S.r.l., il Tribunale di Pescara, con sentenza del 15 luglio 1975, dichiarò il fallimento di S.D..

Il D. propose opposizione alla dichiarazione di fallimento dinanzi al Tribunale di Pescara, deducendo, tra l'altro, la insussistenza della sua qualità di imprenditore, il difetto dello stato di insolvenza e la cessazione della sua attività da oltre un anno dalla dichiarazione di fallimento.

In contraddittorio con il Fallimento e la Cassa di Risparmio di Pescara ed in contumacia della Società Editrice Europea di Cultura, il Tribunale adito, con sentenza del 17 dicembre 1976, rigettò l'opposizione.

1.2 A seguito di appello del D. in contraddittorio con le due parti costituite in primo grado ed in contumacia della predetta Società Editrice, la Corte di Appello di L'Aquila, con sentenza n.15 del 17 gennaio 1978, rigettò il gravame.

In particolare, la Corte abruzzese ha così motivato la decisione: A)- Relativamente al primo motivo di appello - con cui si criticava la sentenza di primo grado, per avere ritenuto il D. imprenditore commerciale, "pur difettando la prova sulla organizzazione del lavoro altrui", i Giudici a quibus hanno affermato: - che, "per aversi....attività imprenditoriale, non è necessario l'intervento del lavoro altrui, essendo sufficiente che l'attività svolta abbia uno sbocco economico e che il reddito tassabile sia superiore al minimo imponibile, ovvero che il capitale investito sia superiore a lire 900.000"; - che l'entrata in vigore della riforma fiscale e, in particolare, del d.P.R. n.597 del 1973 non ha determinato l'abrogazione dell'art.1 della legge fallimentare, in quanto l'art.51 del detto decreto "ha un ambito di applicazione limitato al campo fiscale senza interferire sui presupposti idonei a rendere l'imprenditore soggetto alla dichiarazione di fallimento"; che "nella specie de qua non è contestato che il D. aveva investito nella sua attività un capitale di gran lunga superiore alle lire 900.000"; e che "vale all'uopo ricordare quanto risulta dal fascicolo fallimentare e dalla documentazione prodotta dalla curatela: il D. esercitava attività commerciale acquistando e rivendendo in proprio pubblicazioni editoriali...., aveva investito in detta attività notevoli capitali, facendo ricorso anche al credito bancario, aveva posto in essere un volume di operazioni di centinaia di milioni". B)- Relativamente alla dedotta carenza del requisito della professionalità dell'attività imprenditoriale, i Giudici d'appello - dopo aver sottolineato che "la professionalità significa abitualità, stabilità, continuità e sistematicità nello svolgimento dell'attività imprenditoriale"; e che, tuttavia, "tali termini vanno intesi in senso relativo e non assoluto, non richiedendosi innanzitutto l'esercizio della attività economica con il carattere della esclusività e che abitualità e continuità non costituiscono sinonimi di perennità, sol se si considera che....la qualifica di imprenditore può determinarsi anche da un solo affare in considerazione della sua rilevanza economica e delle operazioni che il suo svolgimento comporta" - hanno affermato che, nella specie, "in relazione all'attività svolta, il D. ha posto in essere una serie di atti di commercio, come la richiesta di fidi presso istituti di credito, stipula di contratti di locazione per l'esercizio di impresa, acquisto di macchinari e di mobili diretti esclusivamente alla concreta attività di compravendita di libri, stipulazione con D.C. di Milano di un contratto di commissione, in base al quale, come emerge dal ricorso per sequestro conservativo al Tribunale di Pescara, egli era titolare del diritto di distribuzione in esclusiva per l'Italia dell'opera libraria 'La mia guida' .... Basterebbe solo quanto risulta dal procedimento cautelare in corso, intentato dal D. nei confronti del C. per ritenere .... un esercizio di attività imprenditoriale con il carattere della professionalità".

Quanto, poi, alla dedotta mancanza del requisito della organizzazione aziendale, la Corte abruzzese - dopo aver precisato che "tale tipico requisito non consiste necessariamente in un apparato esteriore aziendale, ma è rappresentato dalla direzione specifica impressa, con mezzi anche rudimentali, alla propria attività e dalla attuazione dei mezzi stessi convogliati al fine, nel caso, di attività commerciale, della circolazione dei beni" - ha osservato: - che, nella specie, il D. "conduceva in locazione un appartamento dove svolgeva la sua attività e nulla rileva che uno degli ambienti fosse adibito a camera da letto, nonché un magazzino ove furono rinvenuti libri per 10 milioni...."; - che "l'appellante, ....nel chiedere la iscrizione alla camera di commercio, qualificava la sua attività come 'di produzione con mezzi propri e con annesse....a stabilimenti grafici e tipografici di pubblicazioni in genere, periodiche e non, iniziata in data 16 febbraio 1972"; - che "lo stesso D., nel sollecitare un credito dalla Cassa di Risparmio, così si esprime nella sua istanza: 'il sottoscritto....svolgente attività in campo editoriale ed industriale....con movimento mensile bancario di circa 7 milioni....fa presente che solo nel magazzino possiede 200.000.000 di merce quasi totalmente pagata con attrezzature e macchine d'ufficio', e al giudice delegato così si esprime: '....io personalmente svolgo attività di imprenditore editoriale....'". C) - Relativamente ai rapporti intercorsi tra il D. e D.C. di Milano, i Giudici d'appello hanno affermato: "Osserva la Corte che il rapporto con D.C. era un rapporto di commissione anomalo, se è vero che il D. era obbligato al pagamento in proprio delle opere acquistate da lui, indipendentemente dal buon fine degli effetti rilasciati dai propri clienti.

Nessun prezzo prefissato era stabilito per la rivendita in modo che il rischio della operazione e il lucro dello scambio restavano ad esclusivo carico e beneficio del D....Ammette....il D. che egli acquistava in Italia e vendeva in Canada opere librarie del C. Deve allora ritenersi che trattavasi di un rapporto di commissione anomalo o meglio di un negozio di compravendita, se è vero che il D. mirava a lucrare la differenza tra il prezzo d'acquisto e il prezzo di rivendita ai grossisti". D)- Per quanto riguarda lo stato d'insolvenza, la Corte di L'Aquila - affermato che questo "costituisce un requisito obiettivo attinente ad una situazione di impotenza economica che si realizza quando l'imprenditore non è in grado di adempiere regolarmente con mezzi normali le proprie obbligazioni alle scadenze pattuite, essendo venute meno le condizioni di liquidità e di credito nelle quali deve trovarsi una impresa commerciale, mentre è del tutto irrilevante la circostanza che l'attivo sia superiore al passivo quando si siano già concretamente verificati inadempimenti, da parte dell'imprenditore, alle obbligazioni assunte" - ha osservato che "ciò che importa, per valutare lo stato d'insolvenza, è che il D. ha subito esecuzioni per somme modeste non essendo capace di soddisfare piccoli crediti, come risulta dal pignoramento di una autovettura 'FIAT 500' del valore di Lire 80.000, per un credito di Lire 210.000....e dal pignoramento di una addizionatrice Everest e di una macchina da scrivere Olivetti per un credito di Lire 12.000". E)- "Nella memoria al Collegio il D. deduce che in ogni modo non sarebbe stata raggiunta la prova di avere esercitato attività commerciale nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento.

Osserva la Corte che, a prescindere dal fatto che il rilievo sarebbe inammissibile perché non ha formato oggetto dei motivi d'appello, esso appare del tutto infondato, avendo il D. svolto nell'anno antecedente il fallimento attività di compravendita in Italia e all'estero di pubblicazioni della ditta C. di Milano come più sopra esposto".

1.3 Avverso tale sentenza S.D. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 7-22 aprile 1978, deducendo cinque motivi di censura.

Resiste, con controricorso, la Cassa di Risparmio di Pescara e Loreto Aprutino.

Il Fallimento di D.S. e la Editrice Europea di Cultura S.r.l., benché ritualmente intimati, non si sono costituiti, né hanno svolto attività difensiva. Il curatore del Fallimento ha soltanto depositato in cancelleria procura speciale ad litem.

1.4 Questa Corte, con ordinanza del 15 gennaio-2 febbraio 1980 - rilevato che il D. aveva impugnato per revocazione la stessa sentenza oggetto del ricorso per cassazione - ai sensi dell'art.398 comma u.c. cod. proc. civ., "sospende il procedimento a causa dell'avvenuta proposizione dell'istanza di revocazione della sentenza denunciata, fino alla comunicazione della sentenza che pronuncerà sulla revocazione".

Dopo numerosi solleciti della Cancelleria di questa Corte alla Cancelleria della Corte d'Appello di L'Aquila, al fine conoscere lo stato del predetto procedimento di revocazione e dopo una formale ordinanza del 4 aprile 1995, con cui questa Corte ha disposto che, "permanendo la sospensione del presente procedimento, lo rinvia a nuovo ruolo" ed ha disposto, altresì, che, "a cura della Cancelleria, venga richiesto al Presidente della Corte d'Appello di L'Aquila di informare questa Corte sullo stato della procedura ivi pendente, e, in futuro, della formale definizione del procedimento di revocazione", il Cancelliere della Corte d'Appello dell'Abruzzo, con nota del 3 dicembre 2003, ha comunicato, allegando copia autentica dei verbali d'udienza e del provvedimento adottato, che la Corte abruzzese, con ordinanza dell'11-18 marzo 2003, ha dichiarato l'estinzione del procedimento di revocazione ai sensi dell'art.310 comma 2 cod. proc. civ.

 

Diritto

2.1 Con il primo (con cui deduce: "Violazione degli artt.2082, 2083, 2086 e 2238 c.c., 1 R.d. 16/3/1942 n.267, 5 d.P.R. 29/11/1973 n.597, in relazione ai nn.3 e 5 dell'art.360 c.p.c.") ed il secondo motivo (con cui deduce: "Violazione degli artt.2082 e 2083 c.c., 1 R.d. 16/3/1942 n.267, 114 e 115 c.p.c., in relazione ai nn.3 e 5 dell'art.360 c.p.c., sotto ulteriori profili") - che possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione - il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, n.1.2 lett. A e B), anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo: a)- che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte abruzzese, la qualità di imprenditore presupporrebbe, come requisito minimo, l'organizzazione e l'utilizzazione di lavoro altrui; b)- che il secondo comma dell'art.1 della legge fallimentare non sarebbe (più) applicabile al fine di determinare la qualità di imprenditore assoggettabile alla disciplina del fallimento, in quanto tale disposizione sarebbe stata implicitamente abrogata dalla normativa contenuta nel Titolo V del d.P.R. n.597 del 1973, la quale "non distingue la forma di tassazione in ragione della dimensione dell'impresa e/o della maggiore partecipazione personale e familiare alla produzione del reddito"; e che "l'effetto abrogativo in parola travolge in toto la norma in questione, compresa la parte in cui essa, quale criterio sussidiario a quello fiscale, fa riferimento all'investimento del capitale in misura non superiore a €.900.000"; c)- che - siccome il requisito della professionalità dell'attività economica svolta "ricorre solo nelle ipotesi in cui l'attività medesima sia continuativa e cioè si risolva in una serie di atti tra di loro concatenati e connessi in funzione di una finalità economica" - i Giudici d'appello avrebbero fondato l'affermazione della ricorrenza del predetto requisito su atti non significativi (richiesta di fido, stipula di un contratto di affitto), omettendo di prendere in considerazione elementi probatori conducenti ad escludere il carattere professionale dell'attività, come, ad es., la circostanza che il passivo fallimentare sarebbe connotato da pretese creditorie di natura privata; d)- che i Giudici a quibus avrebbero completamente omesso di accertare la sussistenza del requisito della organizzazione aziendale: indagine, che, se correttamente compiuta, avrebbe condotto alla conclusione "che i beni di cui il D. disponeva (consistenti in un modesto studio personale di due stanzette di cui una adibita a camera da letto) non costituivano un complesso organizzato autonomo fornito ex se di una rilevanza economica o prescindevano dalla persona del titolare".

Con il terzo motivo (con cui deduce: "Ancora violazione e falsa applicazione degli artt.2082 e 2083 c.c., 1 R.d. 16/3/1942 n.267, 114 e 115 c.p.c., in riferimento agli artt.1731 e 1736 c.c. ed in relazione ai nn.3 e 5 dell'art.360 c.p.c."), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, n.1.2 lett. C), anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo, contrariamente a quanto affermato dalla Corte abruzzese, che i rapporti intercorsi tra lo stesso e D.C. di Milano sarebbero correttamente qualificabili siccome vero e proprio contratto di commissione; che "in conseguenza del denunziato errore i Giudici di merito hanno omesso l'esame del punto decisivo relativo alla prevalenza o meno, nell'attuazione del contratto di commissione, del lavoro personale dell'attuale ricorrente, indipendentemente dal volume di affari eventualmente realizzato"; e che, "se tale doverosa indagine fosse stata svolta non si sarebbe potuto che pervenire alla conclusione che il D. fu, nei confronti del C., semplice lavoratore autonomo, al più piccolo imprenditore".

Con il quarto motivo (con cui deduce: "Violazione dell'art.5 R.d. 16/3/1942 n.267, 114 e 115 c.p.c., in relazione ai nn.3 e 5 dell'art.360 c.p.c."), il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, n.1.2 lett. D), anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo che i Giudici d'appello avrebbero desunto la sussistenza dello stato di insolvenza da una sola procedura esecutiva mobiliare, avente ad oggetto un debito di modestissima entità, praticamente non apprezzabile, non riconducibile a quella crisi generale dell'impresa, in cui consiste lo stato di insolvenza, e, tutt'al più, integrante una temporanea difficoltà dell'imprenditore ad adempiere le proprie obbligazioni.

Infine, con il quinto motivo (con cui deduce: "Violazione dell'art.10 R.d. 16/3/1942 n.267, 114 e 115 c.p.c., in relazione ai nn.3 e 5 dell'art.360 c.p.c."), il ricorrente ripropone la tesi, secondo cui egli aveva, in ogni caso, cessato l'attività di impresa in data anteriore al 14 luglio 1974, come emergerebbe dalle informative dei Carabinieri esistenti negli atti del procedimento fallimentare.

2.2 I primi due motivi devono essere respinti, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell'art.384 comma 2 cod. proc. civ., essendo il suo dispositivo conforme al diritto.

Come già nei precedenti gradi di giudizio, anche alla base delle censure in esame stanno le tesi difensive del ricorrente, secondo le quali lo stesso, all'epoca della dichiarazione di fallimento, non sarebbe stato qualificabile siccome imprenditore commerciale, ovvero, a tutto concedere, sarebbe stato qualificabile siccome piccolo imprenditore e, come tale, non assoggettabile alla procedura concorsuale ai sensi dell'art.1 comma 2 della legge fallimentare.

E' noto che, dopo la sentenza della Corte costituzionale n.570 del 1989 - che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art.3 Cost., l'art.1 comma 2 della legge fallimentare, nella parte in cui prevede(va) che "quando è mancato l'accertamento ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un'attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila" - ai fini della distinzione tra piccolo, medio e grande imprenditore e della applicazione della legge fallimentare, è necessario tener conto dell'attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa e delle ripercussioni che il dissesto determina nell'economia generale (cfr., in tal senso, e pluribus, Cass. sentt. nn.744 del 1990, 11039 del 1994, 3690 del 2000).

Orbene, la sentenza impugnata - pur essendo stata pubblicata in data anteriore (17 gennaio 1978) alla surrichiamata pronuncia di illegittimità costituzionale; e pur avendo applicato l'art. 1 comma 2 della legge fallimentare nel testo allora vigente - è basata, tuttavia, su una serie di accertamenti di fatto rilevanti e coerenti rispetto ai principi di diritto ora ricordati, che in questa sede sono ribaditi, e tali da far escludere che il ricorrente fosse annoverabile, alla data della dichiarazione di fallimento (15 luglio 1975), tra i "piccoli imprenditori" non assoggettabili a fallimento.

In proposito, è sufficiente sottolineare i passi della sentenza impugnata, laddove viene affermato, in relazione all'accertamento della sussistenza dei requisiti della professionalità e dell'organizzazione aziendale, che "vale all'uopo ricordare quanto risulta dal fascicolo fallimentare e dalla documentazione prodotta dalla curatela: il D. esercitava attività commerciale acquistando e rivendendo in proprio pubblicazioni editoriali...., aveva investito in detta attività notevoli capitali, facendo ricorso anche al credito bancario, aveva posto in essere un volume di operazioni di centinaia di milioni"; che "in relazione all'attività svolta, il D. ha posto in essere una serie di atti di commercio, come la richiesta di fidi presso istituti di credito, stipula di contratti di locazione per l'esercizio di impresa, acquisto di macchinari e di mobili diretti esclusivamente alla concreta attività di compravendita di libri, stipulazione con D.C. di Milano di un contratto di commissione, in base al quale, come emerge dal ricorso per sequestro conservativo al Tribunale di Pescara, egli era titolare del diritto di distribuzione in esclusiva per l'Italia dell'opera libraria 'La mia guida'...."; che, nella specie, il D. "conduceva in locazione un appartamento dove svolgeva la sua attività e nulla rileva che uno degli ambienti fosse adibito a camera da letto, nonché un magazzino ove furono rinvenuti libri per 10 milioni...."; che "l'appellante,....nel chiedere la iscrizione alla camera di commercio, qualificava la sua attività come 'di produzione con mezzi propri e con annesse....a stabilimenti grafici e tipografici di pubblicazioni in genere, periodiche e non, iniziata in data 16 febbraio 1972"; e che "lo stesso D., nel sollecitare un credito dalla Cassa di Risparmio, così si esprime nella sua istanza: 'il sottoscritto....svolgente attività in campo editoriale ed industriale....con movimento mensile bancario di circa 7 milioni....fa presente che solo nel magazzino possiede 200.000.000 di merce quasi totalmente pagata con attrezzature e macchine d'ufficio', e al giudice delegato così si esprime: '....io personalmente svolgo attività di imprenditore editoriale....'" (cfr., supra, n.1.2 lett. A e B).

Ed all'uopo, vale, per un verso, ribadire che l'accertamento dei requisiti necessari per poter qualificare un determinato soggetto imprenditore commerciale, ai fini della sua assoggettabilità al fallimento, rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito, con la conseguenza che il risultato dell'indagine sfugge al sindacato di legittimità, mentre è censurabile in cassazione soltanto la motivazione adottata per giustificare la conclusione adottata, sia sotto il profilo dell'adeguatezza e della coerenza logica, sia sotto il profilo della conformità ai principi di diritto (cfr. Cass. n.2107 del 1995); e, per l'altro, osservare che la motivazione della Corte abruzzese, per le ragioni già evidenziate, è congrua, coerente ed immune da vizi logico giuridici.

Gli altri tre motivi del ricorso debbono esser dichiarati inammissibili.

Il terzo, perché - se si tiene presente che i Giudici d'appello hanno affermato che "il rapporto con D.C. era un rapporto di commissione anomalo, se è vero che il D. era obbligato al pagamento in proprio delle opere acquistate da lui, indipendentemente dal buon fine degli effetti rilasciati dai propri clienti. Nessun prezzo prefissato era stabilito per la rivendita in modo che il rischio della operazione e il lucro dello scambio restavano ad esclusivo carico e beneficio del D..Ammette....il D. che egli acquistava in Italia e vendeva in Canada opere librarie del C. Deve allora ritenersi che trattatavasi di un rapporto di commissione anomalo o meglio di un negozio di compravendita, se è vero che il D. mirava a lucrare la differenza tra il prezzo d'acquisto e il prezzo di rivendita ai grossisti" (cfr., supra, n.1.2 lett.C) - la censura si risolve nella mera riproposizione della tesi difensiva, secondo cui il rapporto D. - C. avrebbe dovuto essere qualificato, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte abruzzese, siccome di commissione, senza che la tesi stessa sia accompagnata dalla deduzione di censure specifiche rivolte alla motivazione in fatto ed in diritto svolta dalla Corte territoriale.

Il quarto, in quanto - posto che, secondo il costante orientamento di questa Corte (cfr., e pluribus e tra le ultime, sentt. nn.115 del 2001, a s.u. , e 1997 del 2003), integralmente condiviso dal Collegio, secondo cui lo stato di insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione di impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività, mentre resta in proposito irrilevante ogni indagine sull'imputabilità o meno all'imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all'impresa, così come sull'effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valere nei suoi confronti; e che i Giudici a quibus, applicando correttamente tali principi, hanno valorizzato la circostanza, secondo cui "ciò che importa, per valutare lo stato d'insolvenza, è che il D. ha subito esecuzioni per somme modeste non essendo capace di soddisfare piccoli crediti, come risulta dal pignoramento di una autovettura 'FIAT 500' del valore di Lire 80.000, per un credito di Lire 210.000....e dal pignoramento di una addizionatrice Everest e di una macchina da scrivere Olivetti per un credito di Lire 12.000" (cfr., supra, n.1.2 lett.D) - a ben vedere, la critica formulata nel motivo in esame si risolve, inammissibilmente appunto, nella prospettazione di una diversa valutazione degli accertamenti di fatto compiuti dai Giudici del merito, operata, peraltro, su una parte soltanto degli accertamenti stessi.

Infine, il quinto: in primo luogo, perché il ricorrente non ha censurato l'autonoma ratio decidendi della sentenza impugnata (cfr., supra, n.1.2 lett.E), secondo cui la critica alla sentenza di primo grado, fondata sulla assunta violazione dell'art.10 della legge fallimentare, non era ammissibile, in quanto non aveva formato oggetto dei motivi d'appello; in secondo luogo, e comunque, perché il motivo in esame invoca, in sostanza, un accertamento di fatto precluso in questa sede (l'informativa dei Carabinieri presente in atti), senza, peraltro, criticare specificamente la motivazione, sul punto, svolta dai Giudici d'appello.

2.3 La peculiarità della vicenda processuale evidenziata sub n.1.4 integra giusto motivo per dichiarare compensate per intero, tra le parti, le spese della presente fase del giudizio.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 28 aprile 2004.

Depositata in cancelleria IL 4 MAR. 2005.