Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23990 - pubb. 11/01/2020

Società personale, collaterale tra i soci di una società di capitali con personalità giuridica

Cassazione civile, sez. I, 10 Agosto 1990, n. 8154. Pres. Scanzano. Est. Carbone.


Persone fisiche - Società personale tra i soci di una società di capitali con personalità giuridica - Configurabilità - Effetti



Tra i soci di una società di capitali con personalità giuridica, è configurabile una società personale, collaterale, con attività autonoma, la quale - pur quando esistano coincidenze di aree operative o sfruttamento di situazioni favorevoli di mercato realizzate dalla società, persona giuridica, o a quest'ultima la detta impresa presti, o da essa riceva, il supporto di indispensabili elementi - non cessa di essere un centro di imputazioni di Atti e di attività distinto dalla società di capitali, con distinti elementi di rischio e distinte eventualità di dissesto, con la conseguenza che questo, ove si verifichi, può determinare il fallimento della società collaterale, in quanto dipenda dalla propria autonoma attività e dal passivo che ad essa si ricollega, senza che la collateralità sia da sola sufficiente a determinare una sovrapposizione, o una confusione, di imprese, od un'osmosi di situazioni passive, salvo la possibilità di responsabilità cumulative riguardo a particolari obbligazioni derivanti da affari specifici assunti in comune o da specifiche prestazioni di garanzie. ( Conf 6151/81, mass n 416932). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Svolgimento del processo

G. B. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Messina, con atto del 20.9.1983 il curatore del fallimento della S.r.l. Casalking e della società di fatto tra i B. (G., G., G. e P.), B. G., M. D. e degli stessi individualmente, nonché la Cassa di Risparmio di Messina e la S.p.A. I.S.I., proponendo opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dallo stesso tribunale in data 6.9.1983. Sostenne l'opponente di non aver mai svolto attività commerciale in Messina, perché residente dal 1971 in Pescara, chiedendo la nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, emessa senza che fosse stata convocata e posta in grado di difendersi.

Proposero opposizione negli stessi sensi P. B., M. e B., nonché G. B. quale liquidatore della S.r.l. Casalking, assumendo l'inesistenza dei presupposti per il fallimento della società. Intervennero infine nel processo G. e G. B. chiedendo che la nullità fosse dichiarata anche nei loro confronti.

L'adito tribunale, con sentenza del 9.12.1985, accolse la domanda di nullità della sentenza dichiarativa di fallimento nei confronti di P. e G. B., G. B. e D. M. perché emessa senza che costoro fossero stati convocati e posti in grado di difendersi, mentre respinse quella di risarcimento danni perché non provata; inoltre dichiarò inammissibile la domanda di fallimento divenuta oramai definitiva nei loro confronti e rigettò l'opposizione proposta dalla S.r.l. Casalking.

Proposero appello i soccombenti e la Corte di Messina con sentenza del 23.11.1987, accolse l'impugnazione proposta dalla S.r.l. Casalking in liquidazione, revocando il fallimento della società, in quanto, a prescindere dall'inconcepibilità di una società di fatto tra persone fisiche ed una società di capitali, non esisteva alcuna prova concreta dell'esistenza della predetta società si fatto; inoltre, non sussisteva alcun elemento per la dichiarazione di insolvenza della predetta società a resp. limitata e per una sua autonoma dichiarazione di fallimento. Accolse l'impugnazione incidentale di P. e G. B., ritenendo sussistere, nonostante la dichiarazione di nullità della sentenza di fallimento nei loro confronti, l'interesse all'accertamento che gli stessi non furono soci di fatto con gli altri B.; nel merito accolse la domanda perché non sussisteva alcun elemento di prova circa la loro partecipazione alla società di fatto. Accolse, inoltre, l'impugnazione degli stessi relativa alla condanna del creditore istante e cioè della Cassa di Risparmio al risarcimento dei danni da liquidarsi in separate sede, così come originariamente richiesto, bastando per la condanna generica il rilievo che la dichiarazione di fallimento per chi subisce è normalmente causa di danni, da provare nel separato giudizio.

Conseguentemente condannò la Cassa di Risparmio al pagamento delle spese di primo grado nei loro confronti.

Infine, in relazione all'appello proposto dalla creditrice Cassa di risparmio, accolse il motivo relativo alle spese per cui essendo stati G. e G. B. soccombenti, la Cassa di Risparmio aveva diritto alla rifusione delle stesse. Confermò nel resto l'impugnata sentenza rigettando, da un lato, l'appello di G. e G. B., confermando l'inammissibilità dell'intervento tardivo, scaduto il termine di cui all'art. 18 l. f. e respingendo, dall'altro, l'impugnativa della Cassa di Risparmio perchè esattamente era stata dichiarata nulla sentenza dichiarativa di fallimento di persone non convocate, non rilevando la circostanza dedotta da parte dell'istituto bancario della momentanea difficoltà di accertarne il recapito.

Avverso questa decisione notificata il 12.12.1987 ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi la Cassa di risparmio per le Provincie Siciliane con atti notificati il 5 e 6.2.1988. Resistono con controricorso la S.r.l. Casalking, B. G. quale procuratore di M. D., B. G.; B. P., B. G..

La ricorrente ha depositato memoria.

Avverso la stessa decisione hanno proposti autonomi ricorsi notificati il 18.10.1988 G. e G. B., non iscritti a ruolo come da certificato negativa della cancelleria. Resiste con controricorso la cassa di Risparmio Siciliana, nonché la curatela fallimentare.

 

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti tutti i ricorsi ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del proposto ricorso la Cassa di Risparmio censura l'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 147 l.f., motivazione erronea ed insufficiente, nonchè omesso esame di fatto decisivo, perché la Corte di Appello avrebbe dovuto verificare preliminarmente la fondatezza della dichiarazione di fallimento della Casalking S.r.l. e successivamente vagliare l'esistenza di un collegamento con i B. e gli altri, l'esistenza cioè di una società collaterale degli stessi, all'ombra della società di capitali dichiarata fallita; invece ha preliminarmente verificato se la società di capitali possa costituire una società di fatto con persone fisiche, ed esclusa tale possibilità, ha solo successivamente esaminato il problema della legittimità e fondatezza della dichiarazione di fallimento della S.r.l. Casalking.

L'assunto è infondato, La decisione infatti si basa su due autonome ratio decidendi. Da un lato, accoglie l'opposizione da parte della società, perché non esiste alcuna prova della pretesa società di fatto tra la stessa e gli altri falliti; non esiste cioè, in concreto, un collegamento di attività, grazie allo schermo costituito dalla S.r.l., non esiste quell'impresa collaterale adombrata dalla ricorrente, richiamando solo a riprova dell'inesistenza accertata in concreta, l'inconcepibilità di una società di fatto tra persone fisiche ed una società di capitali. Dall'altro, tenendo presente che nella specie erano state emesse autonome pronuncie di fallimento, uno per la società di capitali ed uno per la società di fatto, oltre che per i componenti di quest'ultima, accerta con una motivazione congrua ed adeguata che nel caso di specie non ricorrono gli estremi per la pronuncia autonoma di fallimento della S.r.l. Casalking, in quanto la società in questione, come risulta dalla relazione contabile, non aveva passività e debiti, ma cespiti attivi, come la rimanenza di merci, prelevate da parte dei soci, nella fase di liquidazione; la buona salute della società è confermata dalla circostanza che non vi sono creditori insinuati al passivo della società. Di fronte a questa complessa ed approfondita motivazione si spuntano le censure della ricorrente che non sono in grado di contestare gli specifici argomenti addotti. In realtà, la decisione impugnata si è attenuata alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui la personalità giuridica acquistata dalla società di capitali, con l'iscrizione di cui all'art. 2330 c.c e la perfetta autonomia patrimoniale che vi inerisce comportano l'esclusiva imputabilità alla società degli atti compiuti e dell'attività svolta in suo nome e delle relative conseguenze patrimoniali passive.

Al di fuori del caso tassativamente previsto dall'art. 2362 c.c. (responsabilità illimitata dell'unico azionista), la violazione delle regole del diritto societario che si traduce in danno per la società, o per i creditori, o per i soci o per i terzi, ha come sanzione la responsabilità civile degli amministratori ed eventualmente anche dei sindaci, ma non comporta la possibilità che la titolarità della relativa impresa dalla società possa attribuirsi o prorogarsi ai soci che dietro lo schermo della società svolgano come propria e personale, l'attività formalmente imputabile alla prima. Ed infatti, tra i soci di una società di capitali con personalità giuridica, è configurabile una società personale, collaterale, con attività autonoma la quale - pur quando esistono coincidenze di aree operative o sfruttamento di situazioni favorevoli di mercato realizzate dalla società, persona giuridica, o pur quando a quest'ultima la detta impresa presti o da essa riceva il supporto di indispensabili elementi - non cessa di essere un centro di imputazioni di atti e di attività distinto dalla società di capitali, con distinti elementi di rischio e distinte eventualità di dissesto, con la conseguenza che questo, ove si verifichi, può determinare il fallimento della società collaterale, in quanto dipenda dalla propria autonoma attività e dal passivo che ad essa si ricollega; ma la collateralità non è da solo sufficiente a determinare una sovrapposizione o una confusione di imprese, od un osmosi di situazioni passive, salvo soltanto la possibilità di responsabilità cumulative riguardo a particolari obbligazioni derivanti da affari specifici assunti in comune o da specifiche prestazioni di garanzie (Cass. 18.11.1981 n. 6151).

Nel caso in esame, il giudice di merito ha escluso sia la collateralità che da sola non è sufficiente salvo specifiche situazioni, mai dedotte nella fattispecie, sulla base di elementi significativi, sia l'astratta configurabilità di una società di capitali, socia di una società di persone (da ultimo Cass. Sez. un. 17.10.1988 n. 5636), sia, infine, l'autonoma situazione di insolvenza della società di capitali, perché nella specie non sussistevano le condizioni per la dichiarazione di fallimento della S.r.l. Casalking, in quanto la stessa non aveva debiti o passività, non era cioè insolvente: ed è ciò che - una volta esclusa la comunicabilità a tale società del passivo del soci - specificamente rileva contro la tesi della ricorrente, alla quale pertanto non giova il riferimento, peraltro generici, alle irregolarità che sarebbero state accertate dal consulente tecnico.

Con il secondo motivo del proposto ricorso la Cassa di Risparmio censura l'impugnata decisione per violazione degli artt. 1, 5 e 147 l. f., in relazione alla pronuncia di fallimento di G. e P. B., nonché per omesso esame di un fatto decisivo, perché la Corte territoriale ha negato che lo sconto delle cambiali effettuate da P. e le fideiussioni prestate da P. e G. in favore del padre G. B. non fosse sufficiente a configurare i predetti come soci di fatto del padre. La censura (che è ammissibile, perchè tende ad evitare il giudicato sostanziale sulla questione) non è fondata. La Corte, infatti, dopo aver indicato e valutato espressamente questi specifici elementi rileva come essi non siano sufficienti, neanche sul piano dell'apparenza, a far ritenere che i figli fossero in società con il padre, mancando la prova di una gestione esterna di tutto ciò, non essendo sufficiente l'esercizio di attività commerciali di oggetti simili o le prestazioni di garanzie personali, che non rendano comuni le distinte aziende, o le diverse attività. In altri termini, come rileva il giudice di merito, manca la prova del vincolo sociale, vincolo che può dirsi sussistente per consolidata giurisprudenza quando si abbiano un fondo comune, alea comune nei guadagni e nelle perdite ed affectio societatis (cfr. Cass. 20.1.1982 n. 381; 14.3.1983 n. 1885; 12.11.1984 n. 5691). In particolare proprio in relazione alle fideiussioni prestate, occorre ribadire che le fideiussioni di per sè, non sono sufficienti a costituire la prova dell'esistenza di un rapporto sociale, perché fideiussioni o finanziamenti in favore dell'imprenditore non sono idonei ad evidenziare il rapporto sociale fra quest'ultimo ed il garante, ma possono soltanto costituire indici rivelatori del rapporto stesso, allorquando per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività dell'impresa, qualificabile come una collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali, collaborazione non provata, ma neppure affermata nel caso di specie (Cass. 23.12.1982 n. 7119). In conclusione, l'indagine del giudice di merito sull'inesistenza (anche dell'apparenza) di una società di fatto di P. e G. B. con il padre G. e con gli altri soci, risolvendosi in un apprezzamento di fatto sorretta da una motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici non è censurabile in sede di legittimità.

Con il terzo motivo del proposto ricorso la Cassa di Risparmio si duole dell'erronea insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata sulla posizione di P. e G. B., nel senso che i giudici del merito, da un lato, avrebbe affermato l'irrilevanza di ogni altra argomentazione da parte del Tribunale sull'esistenza o meno della società di fatto, dopo l'accertamento della nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, dall'altro, invece, avrebbero accolto la riconvenzionale dei predetti P. e G. con cui si chiede l'accertamento negativo della loro partecipazione alla società di fatto.

Anche questa censura non è fondata. Ad una attente lettura della decisione impugnata si evince che la Corte territoriale si è dato carico del problema non cadendo in alcuna contraddizione. Ed infatti si afferma che la domanda espressamente proposta sin dall'atto di opposizione alla sentenza di fallimento con cui si chiede l'accertamento negativo della società di fatto è cosa ben diversa dall'ulteriore esame compiuto dal tribunale dopo la dichiarazione di nullità della sentenza dichiarativa di fallimento. In realtà, da un lato, si sottolinea che il Tribunale, accertata la nullità della sentenza dichiarativa del fallimento, non doveva compiere ulteriori esami o dilungarsi in considerazioni assorbite dalla precedente pronuncia, dall'altro si ribadisce che è cosa ben diversa l'accertamento negativo richiesto in via riconvenzionale da P. e G. B.; in tal caso, infatti, non si tratta di domanda non esaminabile perché assorbita, ma di ulteriore accertamento espressamente richiesto dalla parte ed avente altro oggetto pur dipendente dal titolo dedotto in giudizio, una apposita domanda ritualmente proposta, corrisponde ad uno specifico interesse degli opponenti non esaminata dal Tribunale ma dei giudici di secondo grado, che non poteva dirsi assorbita dalla già intervenuta pronuncia di nullità. Ed è chiaro l'interesse che spinge P. e G. B. al predetto accertamento, non assorbito dall'intervenuta dichiarazione di nullità; quest'ultima, dovuta ad un vizio di natura processuale, e cioè alla mancata convocazione del debitore esaurisce la sua funzione nel rapporto processuale in cui è emessa, e quindi, ancorché definitiva è inidonea ad assumere autorità di giudicato in senso sostanziale, mentre, invece, il passaggio in giudicato sull'accertamento negativo dell'insistenza della società di fatto dei due figli con il padre osta all'emissione di una nuova pronuncia dichiarativa del fallimento dello stesso soggetto sulla base di una rivalutazione degli stessi elementi di fatto.

Con il quarto ed ultimo motivo del proposto ricorso la ricorrente Cassa di risparmio censura l'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 96 c.p.c., per avere la Corte d'Appello, a differenza del tribunale, accolto la richiesta di condanna generica e ritenuto che ad integrare la responsabilità della Cassa fosse sufficiente l'aver insistito colposamente nella richiesta del fallimento e nel comportamento successivo quando la Cassa era ormai a conoscenza sia che G. non esercitava attività commerciale sia che P. non aveva alcun debito con l'istituto.

La censura di per sè non coglie il bersaglio, ma rimette in discussione quella parte della decisione impugnata che, incentrata sulla prova del danno, trascura di prendere in esame la decisiva circostanza che sin dall'inizio gli istanti hanno chiesto affermarsi la responsabilità processuale della Banca con una pronuncia di condanna generica in contrasto con la disposizione del codice di rito. In realtà la disposizione applicabile non è l'invocato art. 96 del codice di rito, ma l'espressa previsione dell'art. 21 l.f. che si applica al caso di specie, sussistendo nel micro-sistema fallimentare una norma ad hoc. Questa tuttavia èapplicativa degli stessi principi di carattere generale del codice di procedura civile: una responsabilità del creditore procedente può aversi a seguito della revoca della dichiarazione di fallimento. Ma anche questa responsabilità, come quella prevista dall'art. 96 ha natura processuale. Proprio la riconosciuta natura processuale comporta che la competenza a pronunciare sulla domanda di risarcimento sia sull'an che sul quantum spetti inderogabilmente allo stesso Giudice investito della decisione del merito della causa e quindi al Giudice che ha pronunciato la revoca del fallimento. In altri termini, da in lato, la competenza funzionale, esclusiva ed inderogabile della causa per danni è del tribunale adito con l'opposizione (Cass. 26.2.1987 n. 2033; 21.3.1968 n. 886; 15.11.1967 n. 2744), dall'altro è improponibile una richiesta di condanna generica, mentre è invece possibile una liquidazione d'ufficio, da parte del Giudice (Cass. 14.2.1979 n. 971). E la improponibilità di una domanda così concepita è rilevabile anche d'ufficio - salvo preclusioni, che però qui non sussistono - anche in questa sede.

Da queste considerazioni discende appunto che la liquidazione dei danni da responsabilità processuale, avendo carattere speciale rispetto all'ordinaria responsabilità aquiliana, dev'essere effettuata dallo stesso Giudice della causa dal cui esito si pretenda di dedurre la responsabilità con la liquidazione del danno in separata sede e l'eventuale pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno non può che essere cassata senza rinvio. In altri termini, se è vero che il giudizio sulla domanda di responsabilità aggravata ex art. 21 l.f., spetta sia per l'an che per il quantum al Giudice investito dell'investito, nell'ambito di una competenza funzionale che non consente la scissione di quei due momenti neanche su concorde richiesta delle parti, di conseguenza, è improponibile la domanda con la quale si chieda l'accertamento di detta responsabilità con condanna generica ed il risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede; nè può farsi, in contrario, riferimento al potere del Giudice di liquidare anche d'ufficio i danni di che trattasi, poiché l'esercizio di un siffatto potere presuppone pur sempre una domanda dell'interessato volta ad ottenere la liquidazione del danno nell'ambito dello stesso processo, mentre, come accertato dalla sentenza impugnata, con gli atti di opposizione era stata soltanto richiesta la condanna generica al risarcimento dei danni con liquidazione in separate sede.

Poiché la domanda non poteva essere proposta l'effettuata pronuncia di condanna generica va cassata senza rinvio ai sensi dell'ul. co. dell'art. 382 c.p.c. (Cass. 26.2.1987 n. 2033; 9.5.1985 n. 2987 in motivazione; 9.4.1984 n. 2266; 23.7.1981 n. 4733).

I primi tre motivi del ricorso vanno respinti; pronunciando sul quarto, la decisione va, invece, cassata senza rinvio nella statuizione di condanna generica della Cassa di Risparmio ai danni.

I ricorsi proposti da B. G. e G., depositati a norma dell'art. 369 c.p.c. e non iscritti a ruolo come da certificato negativo della cancelleria, vanno dichiarati improcedibili.

Quanto alle spese la Cassa di Risparmio di Messina è soccombente nei confronti di B. G., P., M. e B., nonché nei confronti della S.r.l. Casalking e va condannata alle spese relative, con i connessi onorari, con distrazione a favore del difensore della S.r.l. Caslking, M. e B..

B. G. e B. G., avendo ciascuno proposto un ricorso non iscritto a ruolo e quindi improcedibile vanno condannati al pagamento delle spese sia nei confronti della Cassa di Risparmio che della curatela fallimentare che si sono costituiti con controricorso.

 

p.q.m.

La Corte, riunisce i ricorsi e, pronunciando sul quarto motivo del ricorso della Cassa di Risparmio di Messina, cassa senza rinvio la statuizione di condanna generica al risarcimento dei danni; rigetta i primi tre motivi dello steso ricorso; dichiara improcedibili i ricorsi di Bernava Giovanni e BErnava Giorgio.

Condanna la Cassa di Risparmio di Messina al pagamento delle spese processuali in favore di B. P., che liquida in lire 58.400, oltre lire 2.000.000 di onorario difensivo, della S.r.l. Casalking, che liquida in lire 105.000, oltre lire 1.000.000 di onorario, di M. D., che liquida in lire 114.400, oltre lire 1.000.000 di onorario, di B. G. che liquida in lire 114.500, oltre lire 1.000.000 di onorari; ordina la distrazione delle spese relative alla S.r.l. Casalking, a M. e a B., in favore dell'Avv. G. C. che si è dichiarato antistatario.

Condanna, infine, G. e G. B., ciascuno al pagamento delle spese processuali sia in favore del curatore del fallimento che della Cassa di Risparmio; spese che liquida nei rapporti tra G. B. ed il curatore del fallimento in lire 54.000 oltre lire 1.000.000 per onorari e tra lo stesso e la Cassa di Risparmio in lire 99.600, oltre lire 1.500.000 per onorario difensivo; nei rapporti tra G. B. ed il curatore del fallimento in lire 47.100, oltre lire 1.000.000 per onorario difensivo e tra lo stesso e la Cassa di risparmio in lire 99.600, oltre lire 1.500.000 per onorario difensivo.

Così deciso in Roma addì 7.6.1989 nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile.

Sentenza n. 8154 del 10/08/1990