Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6624 - pubb. 01/08/2010

Assoggettabilità al fallimento di una società apparente

Cassazione civile, sez. I, 14 Febbraio 2001, n. 2095. Est. Cappuccio.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Società e consorzi - Società con soci a responsabilità illimitata - Fallimento della società e dei soci - Società apparente - Dichiarazione di fallimento - Condizioni - Prova del rapporto sociale - Portata - Fattispecie.



Ai fini della assoggettabilità al fallimento di una società apparente, il comportamento atto ad ingenerare il convincimento incolpevole, nei terzi, della sussistenza di un vincolo sociale è sufficiente ad affermare l'esistenza di una società di persone, senza necessità di accertare se, in concreto, ricorrano anche gli ulteriori elementi della comunione dei conferimenti e della condivisione dell'alea (nella specie, sulla base di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di fallimento che aveva ravvisato l'esteriorizzazione del vincolo nelle fideiussioni prestate dalla moglie e dal figlio a favore dell'imprenditore, escludendo che fossero giustificabili come espressione di solidarietà familiare data la loro continuità e sistematicità). (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



Massimario, art. 149 l. fall.


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Giovanni OLLA - Presidente -

Dott. Giammarco CAPPUCCIO - Cons. Relatore -

Dott. Francesco Maria FIORETTI - Consigliere -

Dott. Francesco FELICETTI - Consigliere -

Dott. Luigi MACIOCE - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

                              SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L. F. C., in proprio e quale rappresentante  legale  della

C.  M.  &  C.  s.n.c.,  nonché  V.  S.,  tutti elettivamente domiciliati in Roma, via S. Godendo 59,  presso  l'avv. Giuseppe Aiello, rappresentati e  difesi  dall'avv.  Giovanni  Grande giusta delega in atti;

- ricorrenti -

contro

Fallimenti C. L., S. A., C. M. e C. M. & C. s.n.c.

- intimati -

avverso la sentenza della Corte d'appello di Caltanissetta n.  8  del 21.1-16.2.98.

Udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del 06-10-2000 dal Relatore Cons. G. Cappuccio;

Udito il P.M., in persona del Sostituto  Procuratore  Generale  Dott. Marco Pivetti, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

Con sentenza 19.10.93 il tribunale di Caltanissetta, ravvisando una società di fatto tra C. M., già dichiarato fallito quale imprenditore individuale, la moglie V. A. S. ed il figlio F. L. C., estendeva a costoro il fallimento, quali soci di fatto di C. M. e dichiarava altresì il fallimento della C. M. & C. s.n.c., di cui i tre predetti costituivano la compagine sociale.

L'opposizione proposta da L. F. C., in proprio e quale legale rappresentante della società e da V. A. S. in proprio veniva rigettata con sentenza 12-13.10.95, che L. F. C., nella richiamata duplice veste, e V. A. S. in proprio appellavano per vari motivi, che la C.d.A. di Caltanissetta respingeva, confermando la estensione del fallimento e condannando gli appellanti alle spese in favore della curatela ed a carico della massa attiva fallimentare, con sentenza 21.01-16.02.98.

La sentenza d'appello rilevava che la violazione dell'art. 15 L.F., denunciata col primo motivo di gravame, per non esser stato il C. convocato per l'audizione in camera di consiglio anche come legale rappresentante della s.n.c.. oltre che in proprio, non aveva comportato alcuna violazione dei diritti della difesa, perché il C. si era difeso nel merito ed aveva altresì, tramite il proprio difensore, depositato note difensive volte ad evitare il fallimento della s.n.c.. Sussisteva, inoltre, lo stato di insolvenza della s.n.c.. La società era priva di beni mobili o immobili e di qualsiasi risorsa finanziaria, era priva della attrezzatura necessaria per l'esecuzione dei lavori, edili o stradali, non aveva, secondo la G.d.F., realizzato alcun volume d'affari e non aveva i mezzi per soddisfare il debito tributario di 77 milioni insinuato al passivo dall'esattoria. In realtà, l'unica attività svolta dalla società era stata di copertura e strumentale, finalizzata a procacciare i capitali necessari alla impresa individuale di M. C., alla cui attività era quindi cointeressata.

Era esatto che tra la convocazione e l'audizione in camera di consiglio di S. e L. C. erano intercorse solo 24 ore, ma il termine, data la speditezza della procedura fallimentare, non poteva considerarsi incongruo e del resto era stato concesso, ed utilizzato mediante il deposito di note difensive, ulteriore termine a difesa. Nè l'art. 15 L.F poteva considerarsi violato se l'audizione era avvenuta ad opera del giudice delegato, anziché del collegio. Il carattere sistematico e continuativo delle fideiussioni prestate, per importi ingenti, da C. L. e da S. V. a favore di C. M. e non giustificate da imposizioni degli istituti bancari, il groviglio di interessi economici tra di loro esistenti trascendevano 'espressione della solidarietà familiare e manifestavano l'impegno di costante sostegno dell'attività imprenditoriale di M. C..

Contro tale sentenza, non notificata, proponevano ricorso per cassazione V. A. S. in proprio e L. F. C. nelle richiamate vesti, avanzando, con atto notificato il 10.02.99, due motivi di censura, variamente articolati.

La curatela intimata non si è costituita.

 

Motivi della decisione

Col primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 15 e 147 L.F., degli artt. 158, 161 e 276 cpc, degli artt. 1414 e 2697 cc nonché omessa e contraddittoria motivazione su punti decisivi.

Assumono anzitutto i ricorrenti che la convocazione ed audizione ad opera del giudice delegato costituisce palese violazione del carattere collegiale della procedura e si risolve in un vizio di costituzione del giudice, causa di nullità insanabile della sentenza estensiva del fallimento. In secondo luogo, ribadiscono che la brevità del termine di convocazione, la mancata convocazione di L. C. quale legale rappresentante della s.n.c. costituiscono lesioni del diritto di difesa, non sanate dalla audizione del C. anche come rappresentante della s.n.c. e dalla concessione di termine a difesa, perché non realizzano quella conoscenza ex ante, necessaria ad una valida difesa. Infine, l'affermazione dello stato di decozione della s.n.c. si basava su una -implicita ed apodittica - ritenuta simulazione della società, su mere affermazioni di principio e sull'errata imputazione alla s.n.c. di un debito fiscale di M. C..

Le censure sono infondate. Per quanto attiene alle censure procedurali, occorre prender le mosse dal rilievo delle particolari esigenze di celerità e di libertà di forme della procedura prefallimentare, per escludere che, in assenza di specifiche norme, possa essere richiesta la collegialità nella raccolta di quegli elementi che il tribunale, in sede collegiale, sarà poi chiamato a valutare: l'utilizzazione, per l'istruttoria, del giudice delegato, del tutto privo di poteri decisionali, risponde alle già richiamate esigenze proprie della fase di raccolta, come questa Corte ha ripetutamente affermato (da ultimo, Cass. 6505-96). Nè incide sul diritto di difesa della società la mancata convocazione di L. C. come legale rappresentante, oltre che in proprio (Cass. 1721-94) dal momento che la libertà di forme della fase prefallimentare esclude preclusioni formali e comporta una valutazione sostanziale e dialettica del diritto di difesa, privando di concreta rilevanza quella distinzione tra conoscenza ex ante e conoscenza ex post che i ricorrenti prospettano.

Quanto alla sussistenza, nei confronti della società, del requisito della insolvenza, occorre richiamare le ragioni che la sentenza impugnata ha espresso: assenza di patrimonio, assenza dei beni strumentali necessari allo scopo sociale, carenza di mezzi atti a soddisfare il debito tributario insinuato al passivo. L'assunto del ricorrente C. che il debito tributario riguardava M. C. e non la società, costituisce mera affermazione non suffragata da alcuna argomentazione e quindi non valutabile in sede di legittimità, ove vanno evidenziati errori di diritto o carenze ragionative della sentenza impugnata e non avanzate richieste, attraverso enunciazioni in contrasto, di nuove valutazioni di merito.

L'assunto che, nel considerare la società in nome collettivo come strumento della attività imprenditoriale di M. C., la sentenza impugnata implicitamente verrebbe ad affermare la simulazione del contratto sociale, è inconferente, dal momento che i ricorrenti non censurano le ragioni che hanno portato alla estensione a tale società del fallimento di M. C. ed è altresì ingiustificata, dal momento che la strumentalizzazione della società, affermata dalla sentenza impugnata, non comporta la negazione della sua sussistenza.

Col secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2251 cc, dell'art. 147 L.F., l'insufficiente ed errata valutazione delle prove e l'omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi.

I ricorrenti insistono nel dedurre il carattere necessitato dalle fideiussioni, ne negano la sistematicità e continuità, escludono che possa affermarsi un vincolo sociale in assenza di prove di un fondo comune, della alea comune, della affectio societatis.

La censura è infondata.

La sentenza impugnata si è basata sull'istituto, di creazione dottrinaria e giurisprudenziale, della società apparente, ed ha quindi ritenuto che il comportamento atto ad ingenerare il convincimento incolpevole, nei terzi, della sussistenza di un vincolo sociale sia sufficiente ad affermare l'esistenza della società (Cass. 8168-96; 2985-94) senza necessità di accertare se, in concreto, ricorrano anche gli ulteriori elementi della comunione dei conferimenti e della condivisione dell'alea. Ha ravvisato l'esteriorizzazione del vincolo nelle fideiussioni prestate dalla S. a favore del marito M. - a garanzia delle obbligazioni da questi contratte con il Banco di Sicilia per lire 1.118.000.000; con la Cassa rurale ed artigiana S. M. per lire 140.000.000; con la Banca del Sud per ulteriori importi - e dal figlio L. F. a favore del padre M., escludendo che tali prestazioni di garanzia fossero giustificabili come espressione di solidarietà familiare, data la loro continuità e sistematicità, o fossero - per quanto specificatamente riguarda la S. - imposte dagli istituti bancari come condizione per erogare i finanziamenti. Infatti, in esito ad istruttoria testimoniale, era risultato che la fideiussione del coniuge veniva richiesta solo in presenza di una comunione dei beni, mentre tra M. C. e la moglie vigeva il regime di separazione.

La stessa argomentazione dei ricorrenti volta a negare la sistematicità delle fideiussioni - articolandosi nel diniego che eventuali ratifiche e che comunque le fideiussioni del coniuge, in quanto necessitate, possano essere calcolate - ne conferma la molteplicità, dal momento che le valide ragioni espresse dal giudice a quo per escluderne il carattere necessitato non vengono contrastate, mentre la reiterazione a ratifica, non dedotta in precedenza e priva di riferimento al concreto, risulta una mera ipotesi astratta, come tale irrilevante.

La sistematicità, peraltro, costituisce comportamento atto ad ingenerare, nei terzi estranei, la convinzione che le garanzie siano giustificate dal perseguimento di uno scopo comune, poiché la solidarietà familiare può spiegare occasionali prestazioni di garanzia, ma non il regolare coinvolgimento nelle operazioni volte a procacciar fondi all'impresa del congiunto: sussiste, in tal caso, l'affidamento incolpevole del terzo estraneo che l'ordinamento tutela in vari contesti e, per quanto qui interessa, nella disciplina fallimentare applicata.

 

p.q.m.

Rigetta il ricorso.

Sentenza n. 2095 del 14/02/2001