Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 7534 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 03 Maggio 2007, n. 10208. Est. Salvato.


Fallimento ed altre procedure concorsuali - Liquidazione coatta amministrativa - Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi - In genere - D.l. n. 26 del 1979, conv. in legge n. 95 del 1979 - Incompatibilità con la normativa comunitaria - Limiti - Revocatoria fallimentare - Aiuto di Stato - Configurabilità - Esclusione.



Il d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, conv., con modif., in legge 3 aprile 1979, n. 95, sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, è incompatibile con le norme comunitarie - in base alle sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea 1 dicembre 1998, C-200/97, e 17 giugno 1999, C-295/97, all'ordinanza della stessa Corte 24 luglio 2003, C-297/01 e alla decisione della Commissione 16 maggio 2001, n. 2001/212/CE - non nella sua totalità, ma esclusivamente in relazione a disposizioni che prevedano aiuti di Stato non consentiti ai sensi dell'art. 87 (già art. 92) del Trattato CE, tra i quali non può farsi rientrare la previsione dell'azione revocatoria, essendo priva del requisito della specificità, sotto i due profili della selettività e della discrezionalità, che, alla stregua delle decisioni della Corte di giustizia sopra richiamate, caratterizzano gli aiuti di Stato vietati. Né costituisce aiuto di Stato la stessa apertura della procedura di amministrazione straordinaria (senza la quale neppure è prospettabile l'esercizio dell'azione revocatoria), sotto il profilo che la continuazione dell'impresa, con sacrificio di creditori principalmente pubblici, ed altri vantaggi, con oneri supplementari a carico dello Stato o di enti pubblici, conseguano necessariamente all'ammissione alla procedura: infatti nell'amministrazione straordinaria disciplinata dalla legge n. 95, cit., la continuazione dell'impresa, seppure conseguenza normale, non è conseguenza necessaria dell'apertura della procedura, mentre gli altri vantaggi a carico di risorse pubbliche, individuati dalla sentenza della Corte di giustizia 17 giugno 1999, possono essere disapplicati senza incidere sulla possibilità di una gestione liquidatoria (solo in funzione della quale si giustifica l'azione revocatoria) della medesima procedura. (Nell'affermare il principio di cui alla massima, la S.C. ha precisato che la compatibilità con l'ordinamento comunitario è confermata anche con riguardo ai successivi sviluppi della disciplina dell'amministrazione straordinaria costituiti dall'art. 106 d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, che proroga la vigenza della legge n. 95 del 1979 per le amministrazioni straordinarie in corso, e dall'art. 7 della legge 12 dicembre 2002, n. 273, che prevede la sostituzione del commissario straordinario con un commissario liquidatore). (massima ufficiale)



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOSAVIO Giovanni - Presidente -
Dott. PLENTEDA Donato - Consigliere -
Dott. PANZANI Luciano - Consigliere -
Dott. DEL CORE Sergio - Consigliere -
Dott. SALVATO Luigi - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:


SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Capitalia s.p.a. (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., per intervenuta fusione per incorporazione con atto del Notaio Gennaro Mariconda di Roma del 18 giugno 2002, Rep. N. 41724, racc. n. 11058, in persona degli avv. Giusti Francesco Saverio e Palazzolo Francesco, che congiuntamente la rappresentano giusta delibera del Consiglio di amministrazione del 13 giugno 2002, depositata agli atti del notaio Gennaro Mariconda in data 1 luglio 2002, Rep. N. 41808, racc. n. 11092, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
e
Banco di Sicilia società per azioni, in qualità di successore a titolo particolare di Capitalia s.p.a., in quanto beneficiarla del conferimento dell'azienda bancaria già di pertinenza del cessato Banco di Sicilia s.p.a., in virtù di atto per notaio Gennaro Mariconda di Roma del 21 giugno 2002, Rep. N. 41753, racc. n. 11066, in persona dell'avv. Lais Gian Piero, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura conferita con atto per notaio Ugo Serio di Palermo del 16 dicembre 2003, Rep. N. 63524;
- ricorrente -
contro
Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona dei commissari straordinari avv. Carlo Bucolo e prof. Dr. Lacchini Marco, elettivamente domiciliata in ROMA, viale di Villa Grazioli n. 20, presso il prof. Avv. Brancadoro Gianluca, dal quale è rappresentata e difesa, in virtù di procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e
San Paolo Imi s.p.a.;
- intimata -
Capitalia s.p.a (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., in persona degli avv. Giusti Francesco Saverio e Palazzolo Francesco, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof, Leonini Fernando, in virtù di procura in calce al ricorso;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
e
Banco di Sicilia società per azioni, in qualità di successore a titolo particolare di Capitalia Società per azioni, in persona dell'avv. Gian Piero Lais, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura conferita con atto per notaio Ugo Serio di Palermo del 16 dicembre 2003, Rep. N. 6352 4;
- controricorrente e ricorrente incidentale-
E
R.G. n. 1510/04;
SANPAOLO Imi s.p.a. (ora spa Intesa Sanpaolo), in persona del Presidente dr. Rainer Masera e per esso del procuratore speciale avv. Emilio Balocco, in virtù di procura speciale per notaio Daniele Buzzoni di Torino del 10 ottobre 2001 - elettivamente domiciliata in Roma, piazza di Pietra, 26, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente dagli avv.ti. Magnifico Antonio e Magrone Giandomenico, in virtù di procura a margine del ricorso e di procura speciale con atto per notaio Carlo Boggio di Torino del 23 gennaio 2007, Rep. N. 113322, rilasciata dal dr Paolo Novelli, in forza di procura conferitagli dall'amministratore delegato della Sanpaolo Imi s.p.a., confermata nell'atto di fusione tra Banca Intesa S.p.a.- Sanpaolo Imi s.p.a., a rogito notaio Ettore Morone di Torino (Rep. N. 109563, racc. n. 17118), in ragione del quale si è costituita Intesa Sanpaolo s.p.a., incorporante il Sanpaolo Imi s.p.a.;
- ricorrente -
contro
Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria, in persona dei commissari straordinari avv. Bucolo Carlo e prof. dr. Lacchini Marco, elettivamente domiciliata in ROMA, viale Liegi n. 28, presso lo studio dell'avv. Pierallini Laura, dalla quale è rappresentata e difesa, in virtù di procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
e
Capitalia s.p.a (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., per intervenuta fusione per incorporazione con atto del Notaio Gennaro Mariconda di Roma del 18 giugno 2002, Rep. N. 41724, racc. n. 11058, in persona degli avv. Giusti Francesco Saverio e Palazzolo Francesco, che congiuntamente la rappresentano giusta delibera del Consiglio di amministrazione del 13 giugno 2002, depositata agli atti del notaio Gennaro Mariconda in data 1 luglio 2002, Rep. N. 41808, racc. n. 11092, elettivamente domiciliata in ROMA, via G. Rossini n. 9, presso l'avv. prof. Irti Natalino, dal quale è rappresentata e difesa disgiuntamente agli avv. Tristano Giuseppe, Leonini Antonio e prof. Leonini Fernando, in virtù di procura in calce al controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano depositata il 22 novembre 2002, n. 2797;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13 marzo 2007 dal Consigliere Dott. Luigi SALVATO;
uditi (ric. 782/04 e n. 4383/04)per la ricorrente Capitalia s.p.a. gli avv.ti G. Tristano e A. Leonini, i quali hanno chiesto l'accoglimento del ricorso ed il rigetto del ricorso incidentale della Micoperi s.p.a. in a.s.;
per la Micoperi s.p.a., controricorrente e ricorrente incidentale, l'avv. Giorgio Romano, su delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso e l'accoglimento del ricorso incidentale;
uditi (ric. n. 1510/04) per la ricorrente Sanpaolo Imi s.p.a. l'avv. G. Magrone che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
per la controricorrente Micoperi s.p.a. l'avv. L. Pierallini, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
per la controricorrente Capitalia s.p.a. gli avv.ti G. Tristano e A. Leonini che hanno chiesto l'accoglimento del primo motivo ed il rigetto del secondo, come da controricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi, principale e incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- La Micoperi s.p.a., in amministrazione straordinaria (infra, Commissario straordinario), con cinque atti di citazione notificati a far data dal 23 marzo 1995 (dei quali soltanto tre rilevano nel presente giudizio), conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Milano la Banca di Roma (anche quale successore della Cassa di risparmio di Roma e dsl Banco di Santo Spirito), l'Istituto S. Paolo di Torino (poi San Paolo-IMI) ed il Banco di Sicilia, chiedendo che fossero dichiarati inefficaci alcuni pagamenti effettuati dalla Micoperi s.p.a. nell'anno anteriore all'ammissione della società al concordato preventivo.
L'istante deduceva che la Micoperi s.p.a. aveva stipulato un contratto di finanziamento con la Banca di Roma, in pool con il Banco di Sicilia, S. Paolo di Torino, Banca commerciale italiana e Banca Nazionale del Lavoro, ricevendo la somma di L. 40 miliardi, non onorando l'obbligo del rimborso alla prima scadenza. La Banca di Roma aveva acquisito l'importo di L. 4.250.000.000 affluito sul conto della debitrice, quale pagamento effettuato da un debitore estero, distribuendo la somma, pro-quota, tra le banche creditrici, in ragione di L. 850 milioni ciascuna.
Il Commissario straordinario chiedeva che fossero revocati detti pagamenti, nonché le rimesse effettuate sul conto della Micoperi s.p.a. acceso presso il Banco di Santo Spirito - per l'importo di L. 1.515.448.507 e di L. 330.972.371 (somma quantificata in forza del criterio dei versamenti per saldo di valuta)- nonché sul conto aperto presso la Cassa di risparmio di Roma per L. 17.217.833. L'istante chiedeva, inoltre, la revoca del giroconto con il quale il Banco di Sicilia, dopo l'apertura della procedura di concordato preventivo, aveva acquisito la somma di L. 965.228.443, proveniente da terzi, a titolo di parziale compensazione con il credito derivante dal citato finanziamento.
La domanda nei confronti dell'Istituto Bancario S. Paolo di Torino era limitata alla somma di L. 850 milioni.
Nei giudizi si costituivano tutti i convenuti; la Banca di Roma interveniva volontariamente nei giudizi promossi contro il Banco di Sicilia e l'Istituto S. Paolo di Torino.
L'Istituto S. Paolo di Torino eccepiva: la carenza di legittimazione, in quanto il contratto di finanziamento in questione era stato stipulato dalla sola Banca di Roma; la compensazione ex art. 1853 c.c. ed opponeva l'inscientia decoctionis.
Il Banco di Sicilia eccepiva l'inammissibilità dell'azione revocatoria, sostenendo di avere operato legittime compensazioni e, comunque, contestava di avere avuto conoscenza dello stato di insolvenza della debitrice.
La Banca di Roma eccepiva la compensazione in riferimento all'operazione relativa al finanziamento concesso in pool con le altre banche; in relazione alle rimesse, osservava che erano state effettuate su conto non scoperto e che il computo avrebbe dovuto essere effettuato in forza del criterio dei saldi disponibili e, comunque, contestava la conoscenza dello stato di insolvenza. L'attrice, a seguito delle contestazioni sollevate dalla Banca di Roma, rettificava l'importo richiesto, riducendolo a seguito del riferimento al criterio del saldo disponibile.
Le tre cause che in questa sede interessano erano riunite ed il Tribunale, con sentenza del 25 marzo 1999, così provvedeva:
1) sulla domanda di revoca dei pagamenti dell'importo di L. 850 milioni in favore di ciascuna delle tre banche convenute, riteneva che la Banca di Roma aveva agito quale banca agente in rappresentanza delle altre che avevano concesso il finanziamento e, conseguentemente, reputava effettuato in favore di tutte, pro-quota, il pagamento di L. 4.250 milioni ed accoglieva l'eccezione di compensazione limitatamente alla Banca di Roma, alla quale la Micoperi s.p.a. aveva conferito un mandato irrevocabile all'incasso, escludendo tuttavia la revocabilità del versamento, poiché tra la prima e la seconda non sussisteva un rapporto di conto corrente;
riteneva, inoltre, che "la Banca di Sicilia non aveva provato di essere debitrice della somma a credito della Micoperi derivante da un bonifico effettuato dall'Ente Porto di Trieste, perché non vi era corrispondenza tra l'importo di L. 925.250.235 accreditato dall'Ente Porto di Trieste sul conto presso la filiale di Trieste ed il giroconto di L. 964.671.563 dal predetto conto a quello presso la filiale di Milano a decurtazione del maggior debito per finanziamento";
2) dichiarava infondata la domanda di revoca dei pagamenti di L. 1.515.448.507 e di L. 330.972.371 in favore del Banco di S. Spirito (incorporata dalla Banca di Roma);
3) dichiarava revocabili per l'importo di L. 15.730.993 i pagamenti in favore della Cassa di Risparmio di Roma (incorporata dalla Banca di Roma);
4) riteneva che dal bilancio della società sottoposta ad a.s. alla data del 31.12.1988 si ricavavano elementi a conforto della scientia decoctionis;
dunque il Tribunale accoglieva la domanda proposta contro la Banca di Sicilia quanto al pagamento di L. 850 milioni, nonché quella nei confronti del Banco di Sicilia, in relazione al versamento di L. 1.814.671.563.
2.- Il San Paolo-IMI ed il Banco di Sicilia spa proponevano distinti appelli; nel giudizio si costituivano gli appellati ed il Commissario straordinario proponeva appello incidentale nei confronti della Banca di Roma.
La Corte d'appello di Milano, con sentenza del 22 novembre 2002, riunite le cause, in riforma della impugnata sentenza, così provvedeva:
a) dichiarava inefficaci i tre pagamenti per l'importo di L. 850 milioni ciascuno effettuati in favore della Banca di Roma, del S. Paolo-IMI e del Banco di Sicilia, condannandoli a pagare le relative somme, oltre interessi legali dalla domanda al saldo;
b) dichiarava inefficace il pagamento di L. 964.671.563 in favore del Banco di Sicilia, condannandolo a pagare la relativa somma, oltre interessi legali dalla domanda al saldo;
c) dichiarava inefficace il pagamento di L. 139.082.234 in favore della Banca di Roma (quale incorporante del Banco di S. Spirito), condannandola a pagare la relativa somma, oltre interessi legali dalla domanda al saldo;
d) condannava il Banco di Sicilia, il S. Paolo-IMI e la Banca di Roma a pagare le spese processuali del primo grado, nonché quelle del secondo grado, limitatamente ad un terzo.
2.1.- Per quanto qui interessa, la sentenza della Corte territoriale:
A) dichiarava inammissibile, perché tardiva, in quanto sollevata in comparsa conclusionale, l'eccezione di incompatibilità delle norme della L. 3 aprile 1979, n. 95, con le norme comunitarie;
B) rigettava l'eccezione di inammissibilità dell'appello incidentale sollevata dalla Banca di Roma, nonché quella del S. Paolo-IMI, di difetto di legittimazione passiva, ritenendo sussistente un rapporto di mandato tra S. Paolo-IMI, Banco di Sicilia e Banca di Roma, essendo le prime due mandanti della terza e, in accoglimento dell'impugnazione incidentale, accoglieva la domanda di revocatoria dei pagamenti in favore delle tre banche, per l'importo di L. 850 milioni, escludendo l'applicabilità della compensazione anche in riferimento alla Banca di Roma;
C) rigettava l'appello del Banco di Sicilia in relazione al pagamento di L. 964.671.563, affermando che i documenti prodotti dimostravano il versamento da parte dell'Ente Porto di Trieste sul conto corrente della Micoperi acceso presso la filiale di Trieste, nonché il giroconto di maggior importo dal predetto conto a quello presso la filiale di Milano, "a decurtazione maggior debito per finanziamento in pool" e che, tuttavia, non operava la compensazione, "non trattandosi di riscossione di un mandato, ma di accredito di un bonifico ordinato da un terzo, che costituisce sempre pagamento revocabile del correntista alla banca;
D) in relazione al pagamento di L. 1.863.638.711 in favore del Banco di S.Spirito e della Cassa di Risparmio di Roma, premetteva che l'appellante incidentale aveva lamentato:
a) l'applicazione del criterio del saldo disponibile;
b) la ritenuta novità della domanda di revoca svolta in riferimento al criterio del saldo disponibile;
c) la considerazione, ai fini del saldo disponibile, del solo versamento di L. 2.154.681.688, ritenuto non solutorio, mentre per L. 33.593.786 comportava un rientro da scoperto, senza considerare il versamento di L. 500 milioni, comportante un rientro da scoperto di L. 139.082.234.
La sentenza riteneva l'appello infondato quanto al primo accredito e fondato quanto al secondo, osservando:
in ordine al punto a), che andava condiviso l'orientamento consolidatosi nella giurisprudenza sin dal 1994;
in relazione al punto b) che, allo scopo di accertare la novità della domanda, correttamente il Tribunale aveva avuto riguardo ai singoli versamenti e non all'importo complessivo, con la conseguenza che "quando, mutato il criterio (da saldo per valuta a saldo disponibile), la procedura, pur chiedendo un importo totale minore, fa valere un versamento nuovo non indicato nell'atto di citazione, la domanda di revoca di quel versamento è nuova e inammissibile in mancanza (come nella specie) di accettazione del contraddittorio";
in riferimento al punto e) riteneva solutoria la rimessa limitatamente all'importo di L. 139.082.234.
Relativamente alla scientia decoctionis, la pronuncia osservava che nel caso della azione revocatoria fallimentare ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, il curatore fallimentare deve provare, anche mediante presunzioni, la conoscenza effettiva dello stato di insolvenza.
Nella specie, il contratto di finanziamento prevedeva l'obbligo della Micoperi s.p.a. di inviare tempestivamente la copia del bilancio e, quindi, risultava comprovato l'interesse dei finanziatori, contrattualmente tutelato, ad averne conoscenza, che costituisce "circostanza grave e precisa che da sola induce logicamente a ritenere che le banche hanno ricevuto copia del bilancio". In riferimento al momento della conoscenza, la sentenza condivideva la valutazione prudenziale del Tribunale, che l'aveva fatta risalire al 1 ottobre 1989, mentre con riguardo alla valutazione dei dati di bilancio non occorreva certo l'attenzione e l'intelligenza proprie di tre grandi istituti di credito (...) per ritenere in stato di insolvenza la Micoperi, il cui bilancio presentava una perdita di esercizio di L. 23.522.939.767, escludendo la "violazione del divieto della praesumptio de praesumpto.
La Corte territoriale rigettava infine l'eccezione della Banca di Roma diretta a sostenere che i pagamenti erano stati effettuati prima della data di conoscenza dell'insolvenza - fissata al 1 ottobre 1989 - e cioè il 19 luglio 1989.
3.- Per la cassazione della citata sentenza hanno proposto ricorso, con un unico atto, Capitalia s.p.a (nuova denominazione assunta dalla Banca di Roma s.p.a.), anche quale successore a titolo universale del Banco di Sicilia s.p.a., per intervenuta fusione per incorporazione, nonché il Banco di Sicilia società per azioni, in qualità di successore a titolo particolare di Capitalia s.p.a., in quanto beneficiarla del conferimento dell'azienda bancaria già di pertinenza del cessato Banco di Sicilia s.p.a., affidato ad otto motivi; ha resistito con controricorso la Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria, che ha proposto ricorso incidentale articolato su di un motivo, al quale hanno resistito con controricorso le ricorrenti principali, proponendo con tale atto, in relazione al motivo proposto dalla Micoperi, ricorso incidentale condizionato; non ha svolto attività difensiva S. Paolo-Imi s.p.a. In prossimità dell'udienza fissata per il 24 ottobre 2006, hanno depositato memoria le ricorrenti e la Micoperi s.p.a. in a.s.. 3.1.- Per la cassazione della citata sentenza ha altresì proposto ricorso la SANPAOLOIMI s.p.a., affidato a due motivi; hanno resistito con controricorso la Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria e Capitalia s.p.a.
3.2.- All'udienza del 24 ottobre 2006, la Corte, disposta la riunione dei ricorsi, ha rinviato la causa a nuovo ruolo.
In prossimità dell'udienza del 13 marzo 2007 hanno depositato memorie Capitalia s.p.a., SANPAOLOIMI s.p.a. (ora spa Intesa Sanpaolo) e Micoperi s.p.a. in amministrazione straordinaria; la prima ha altresì depositato note di udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - I ricorsi, principale ed incidentale, nonché il ricorso proposto da SANPAOLO Imi s.p.a., come è stato dato atto nella narrativa, avendo ad oggetto la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.), sono stati già riuniti.
Il ricorso proposto dalla SANPAOLO IMI s.p.a. è stato peraltro irritualmente proposto in forma autonoma, in quanto, avendo Capitalia s.p.a. ed il Banco di Sicilia società per azioni impugnato la sentenza con ricorso notificato alla predetta il 31 dicembre 2003, quest'ultima, in virtù degli artt. 333 e 372 c.p.c. avrebbe dovuto proporre la propria impugnazione nella forma dell'impugnazione incidentale. Tuttavia, poiché detto ricorso è stato proposto entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione dell'impugnazione principale, sussistono i presupposti per ritenerlo convertito in impugnazione incidentale (Cass. n. 20593 del 2004; n. 9232 del 2002;
n. 8906 del 1999).
Peraltro, il ricorso è stato notificato soltanto a Capitalia non al Banco di Sicilia società per azioni che, in virtù delle indicazioni recate in epigrafe, è beneficiaria del conferimento dell'azienda bancaria già di pertinenza del cessato Banco di Sicilia s.p.a. Tuttavia, in riferimento a quest'ultima, vertendosi in tema di impugnazione relativa a cause scindibili, poiché detta parte deve ritenersi decaduta dalla facoltà di proporre impugnazione incidentale in riferimento a detto ricorso, per decorso del termine di cui all'art. 327 c.p.c., non deve essere ordinata l'integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'art. 332 c.p.c.. 2.- Le ricorrenti che hanno proposto il ricorso R.G. n. 782 del 2004, con il primo motivo, denunciano "violazione e falsa applicazione dell'art. 113 c.p.c., del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, della L. 3 aprile 1979, n. 95, del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 67 (art. 106), dei principi generali sulla prevalenza delle disposizioni comunitarie sulle norme interne, degli artt. 92 e 93 del Trattato CE (ora 87 e 88), della decisione 16.5.2000 della Commissione della Comunità Economica Europea, dell'art. 234 del Trattato CE, dell'art. 3 della Costituzione della Repubblica (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione sui prospettati punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5". Ad avviso delle istanti, la sentenza impugnata ha erroneamente configurato quale eccezione la deduzione diretta a far valere il contrasto della disposizione nazionale con il diritto comunitario che, secondo la giurisprudenza costituzionale, comporta il potere del giudice di disapplicare la prima (sent. n. 170 del 1984) all'esito di una verifica che, come ha affermato questa Corte, va svolta anche d'ufficio, in virtù di un'indagine ammissibile anche nel giudizio di legittimità, purché l'applicabilità del diritto interno sia ancora controversa, in quanto abbia costituito oggetto del dibattito introdotto con i motivi di ricorso (Cass. n. 17564 del 2002), non essendo detta verifica, in sede di legittimità, neppure condizionata dalla formulazione di uno specifico motivo (Cass. n. 7909 del 2000). Le decisioni e le direttive comunitarie, qualora contengano una statuizione chiara e precisa, non condizionata e perfetta, idonea a far sorgere in capo ai privati una situazione giuridica suscettibile di essere tutelata innanzi ai giudici nazionali, comportano il potere- dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna che contrasti con esse. La sentenza di questa Corte n. 17564 del 2002 - peraltro conformandosi alla Corte di giustizia delle comunità europee (sentenza 6 ottobre 1970, C. n. 9/70) - ha quindi affermato che le decisioni adottate dalla Commissione delle Comunità europee vincolano il giudice nazionale e quella in materia di aiuti di Stato ha efficacia diretta e prevalente rispetto ad una collidente norma di diritto interno, che deve essere disapplicata, e ciò anche nel vigore del testo dell'art. 117 Cost., comma 1, come novellato dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001.
Le ricorrenti deducono che la L. n. 95 del 1979 è stata giudicata in contrasto con l'art. 92 del Trattato CE, in quanto ha disposto "aiuti di Stato" e appunto per questo è stata abrogata dal D.Lgs. n. 270 del 1999.
La Commissione delle comunità europee ha statuito che "il regime di cui alla L. n. 95 del 1979, di conversione del D.L. n. 26 del 1979, è illegittimo ed incompatibile con il mercato comune", precisando, in motivazione, che detta incompatibilità discende "dal regime in sè ed in particolare dai suoi meccanismi, senza che sia necessario nè giustificato analizzare individualmente i singoli casi di applicazione per pronunciarsi su di esso".
Il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, non si sottrae a questa censura in quanto, attraverso il rinvio alle norme apparentemente abrogate, ha confermato la concessione di un aiuto di Stato, con la conseguenza che nessuna modificazione è stata introdotta, per le procedure in corso, rispetto alla normativa dettata dalla L. n. 95 del 1979, che resta incompatibile con le norme comunitarie, in virtù di un principio espressamente affermato dalla Corte europea nell'ordinanza 24 luglio 2003, C. n. 297/01.
Inoltre, "autonomamente, la coesistenza di due distinte procedure di amministrazione straordinaria interessanti la medesima categoria di soggetti economici sarebbe comunque costituzionalmente illegittima per violazione quanto meno del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.)".
In conclusione, erroneamente la sentenza impugnata non ha rilevato l'incompatibilità originaria della L. n. 95 del 1979 con gli artt. 92 e 93 (ora, artt. 87 ed 88) del Trattato CE ed il permanere di detta incompatibilità anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 270 del 1999, inesattamente ritenendola rilevabile soltanto su istanza di parte. Inoltre, con motivazione perplessa e contraddittoria ha ritenuto che incombeva alla parte l'onere di offrire la prova concreta dei c.d. "aiuti di Stato", non avvedendosi "che nessuna ulteriore prova occorreva, per essere gli aiuti di Stato chiaramente e ripetutamente enunciati negli articoli della legge e, quindi, per essere connaturali al sistema dell'amministrazione straordinaria, ma che era intervenuta una pronuncia definitiva della Commissione". In ordine al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106, la Corte d'appello non poteva pronunciarsi in difformità dalla sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee del 24 luglio 2003 e, se non fosse incorsa negli errori denunciati, avrebbe dovuto disapplicare la L. n. 95 del 1979, art. 3, comma 3, che ha legittimato il Commissario straordinario ad esercitare l'azione revocatoria fallimentare.
2-1.- La SANPAOLO Imi s.p.a., con il primo motivo del ricorso R.G. n. 1510 del 2004, denuncia "violazione e falsa applicazione dell'art. 113 c.p.c., degli artt. 87 e 88 (ex artt. 92 e 93) e dell'art. 234 del Trattato CE; della decisione 16 maggio 2000 della Commissione della Comunità Economica Europea, dei principi generali sulla prevalenza delle disposizioni comunitarie rispetto alle norme interne; del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, comma 2; della L. 3 aprile 1979, n. 95; del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 106, della L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7, in relazione al disposto dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5". L'istante sostiene di avere eccepito nel giudizio di secondo grado che la decisione della Commissione della CE del 16 maggio 2000 - la quale ha statuito l'illegittimità ed incompatibilità con il mercato comune del regime di cui alla L. n. 95 del 1979 - doveva considerarsi automaticamente estesa al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 poi "ribadito nella L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7".
La Corte territoriale ha invece erroneamente ritenuto che detta decisione non sia direttamente applicabile nel giudizio, in quanto obbligherebbe soltanto lo Stato destinatario, violando il principio enunciato dalla sentenza di questa Corte n. 17564 del 2000 e non considerando che, in virtù del principio enunciato da Corte cost. n. 170 del 1984, in virtù della prevalenza dell'ordinamento comunitario, la norma nazionale che con questo contrasto non può essere applicata nelle controversie innanzi al giudice italiano. Inoltre, la sentenza impugnata ha inesattamente qualificato la sua deduzione come eccezione inammissibile, senza considerare che, secondo l'orientamento di questa Corte, la compatibilità della norma nazionale con l'ordinamento comunitario deve essere verificata dal giudice anche di ufficio (Cass. n. 17564 del 2000; n. 7909 del 2000). Infine, ancora erroneamente, la Corte d'appello ha ritenuto applicabile la c.d. Legge-Prodi, in quanto essa istante non avrebbe provato che la Micoperi si sia avvalsa della facoltà consentita da detta legge di continuare l'attività d'impresa al di fuori delle regole previste dalla legge fallimentare, o comunque abbia beneficiato di uno o più vantaggi dei quali non avrebbe potuto beneficiare un'altra impresa insolvente nell'ambito delle regole applicabili in caso di fallimento.
La sentenza impugnata ha infatti malamente richiamato le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee del 1 dicembre 1998, C-200/97 e del 17 giugno 1999, C-295/97, dato che la seconda ha affermato che detta Corte è competente esclusivamente in ordine all'interpretazione dell'art. 92 (ora 87) del Trattato CE, al fine di determinare se determinate norme nazionali costituiscano "aiuti di Stato" (principio ribadito dall'ordinanza 24 luglio 2003), in quanto la valutazione della compatibilità degli stessi con il mercato comune spetta alla Commissione CE e, quindi, non può essere attuato prima di una decisione di quest'ultima che riconosca sussistere detta compatibilità.
L'illegittimità della L. n. 95 del 1979 è stata quindi dichiarata dalla Commissione CE con la decisione del 16 maggio 2000, che ha investito l'intero complesso delle norme dalla stessa recate, puntualizzando come neppure fosse necessario analizzare singolarmente i singoli casi e pronunciarsi in ordine ai singoli casi di applicazione.
2.2.- I motivi, da esaminare congiuntamente in quanto pongono la stessa questione, con argomentazioni in larga misura coincidenti, sono infondati e devono essere rigettati.
2.2.1.- In sintesi, le ricorrenti deducono che:
a) la questione della disapplicazione della norma nazionale che contrasta con una disposizione comunitaria vincolante non è condizionata dall'eccezione di parte ed è rilevabile d'ufficio, dovendo ritenersi disposizione comunitaria vincolante:
la norma contenuta in un regolamento, ovvero in una direttiva, quando rechi una statuizione sufficientemente chiara, precisa e non condizionata; le sentenze della Corte di Giustizia;
le decisioni della Commissione CE rese in materia di aiuti di Stato;
b) il D.L. n. 26 del 1979, convertito nella L. n. 95 del 1979 è stato ritenuto in contrasto con il divieto degli "aiuti di stato" stabilito dall'art. 92 del Trattato CE - perciò la legge è stata abrogata D.Lgs. n. 270 del 1999, dall'art. 1 - e, in particolare, la Commissione CE, con decisione del 16 maggio 2000, ha stabilito che il relativo regime è incompatibile con il mercato comune, discendendo detta incompatibilità dal "regime in sè ed in particolare dai suoi meccanismi, senza che sia necessario ne' giustificato analizzare individualmente i singoli casi di applicazione per pronunciarsi su di esso";
c) il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 non si sottrae alla non applicazione, avendo la Corte di giustizia affermato che il regime transitorio previsto da quest'ultima norma è immune dalla censura che aveva colpito il D.L. n. 26 del 1979, se non ritualmente notificato, come del resto è accaduto (ord. 24 luglio 2003, C- 297/2001), comportando peraltro la coesistenza di due procedure di amministrazione straordinaria concernenti la medesima categoria di soggetti una violazione dell'art. 3 Cost..
In definitiva, la sentenza impugnata è stata censurata nella parte in cui ha ritenuto che l'incompatibilità in esame fosse rilevabile soltanto su eccezione di parte (peraltro formulata) ed ha contraddittoriamente e con motivazione perplessa affermato che incombeva "alla parte di fornire la prova concreta dei c.d. aiuti di stato che costituivano la ragione di incompatibilità con le norme del Trattato CE, senza accorgersi non solo che nessuna ulteriore prova occorreva per essere gli aiuti di stato chiaramente enunciati negli articoli di legge e, quindi, per essere connaturali al sistema dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi", essendo anche intervenuta sul punto una decisione della Commissione CE.
2.2.2.- La questione posta in questi termini dalle istanti, nei suoi differenti profili, è stata più volte sottoposta all'esame di questa Corte ed è stata univocamente decisa, dando luogo ad un orientamento ormai consolidato al quale il Collegio reputa di dovere dare continuità, condividendo le argomentazioni che lo fondano (Cass. n. 26171 del 2006; n. 26935 del 2006; n. 18552 del 2006; n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006; n. 4206 del 2006; n. 21823 del 2005;
n. 21083 del 2005; n. 2534 del 2005; n. 18915 del 2004; n. 13165 del 2004).
2.2.3.- Relativamente al profilo sub a) (2.2.1.), va ribadito che la questione della compatibilità della L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento comunitario è rilevabile d'ufficio, in base al principio iura novit curia, come accade nel caso dello ius superveniens e della modifica normativa determinata dalla dichiarazione d'illegittimità costituzionale (Cass. n. 4206 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 18915 del 2004).
Tuttavia, occorre distinguere a seconda che l'incompatibilità comporti o meno accertamenti di fatto (Cass. n. 21083 del 2005; n. 2534 del 2005; n. 5561 del 2004; n. 5241 del 2003).
Nel caso in cui sia dedotta l'incompatibilità dell'intera disciplina della L. n. 95 del 1979, ovvero di una o più norme, prospettando che la prima, ovvero le seconde, costituiscano di per sè aiuti di Stato non occorre alcun accertamento di fatto e, quindi, nessun impedimento si frappone all'esame della questione d'ufficio, con la conseguenza che la questione può essere rilevata in ogni stato e grado. Nel caso in cui l'incompatibilità della citata disciplina sia dedotta in relazione alla applicazione concreta ed alla concreta fruizione di un aiuto di Stato, il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda.
2.2.4.- In ordine alla questione della incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con le norme che regolano il mercato comune, devono essere richiamate le argomentazioni già svolte da questa Corte, per escluderla.
Al riguardo, va ricordato che su detta questione la Corte di Giustizia della Comunità Europea è intervenuta con tre pronunce (sentenze 1 dicembre 1998, C-2000/97, Ecotrade; 17 giugno 1999, C- 295/97, Piaggio; ordinanza 24 luglio 2003, C-297/01, Sicilcassa); la Commissione Europea ha reso una decisione (decisione 16 maggio 2001, 2001/21/CE).
Si tratta di pronunce che si impongono al giudice nazionale, in quanto l'immediata efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento nazionale va riconosciuta anche alle pronunce interpretative rese dalla Corte di giustizia e ad ogni altra pronuncia del giudice comunitario che, nell'applicare od interpretare una norma dotata di effetti diretti, risulti comunque dichiarativa del diritto comunitario (Corte cost. n. 168 del 1991).
Secondo l'espressa affermazione della Corte europea, "nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art. 234 CE", ad essa non spetta "interpretare il diritto nazionale o statuire sulla compatibilità di un provvedimento nazionale con l'art. 92 ora, art. 87 del Trattato" (sentenza Piaggio, 39 e 50). In coerenza con questi limiti della competenza, quali individuati dallo stesso giudice europeo, questi non ha qualificato come aiuto di Stato l'intera L. n. 95 del 1979, ovvero sue singole norme, ma ha offerto
l'interpretazione della nozione di aiuto di Stato, anche se con riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, tant'è che ha riferito la pronunzia Piaggio non direttamente alla legge, ma ad "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979" (sent. cit., 33 e 50).
Le due sentenze in esame hanno preso in considerazione "un regime come quello istituito dalla L. n. 95 del 1979", ma non per questo si sono pronunciate su questa legge, "come è dimostrato dal fatto che in entrambe le sentenze le conclusioni della Corte sono espressamente subordinate ad una verifica da parte del giudice nazionale della portata della normativa nazionale" (sentenza Ecotrade, par. 37;
sentenza Piaggio par. 35 con formulazione identica) e sono contenute "prudenti affermazioni della salvezza dell'accertamento riservato al giudice nazionale (sentenza Ecotrade, par. 411 se fosse effettivamente dimostrato che lo Stato o enti pubblici figurano tra i principali creditori; par. 43: se fosse dimostrato che - non hanno effettivamente comportato un onere; par. 441 spetta al giudice nazionale verificare queste affermazioni Sentenza Piaggio, par. 401 come par. 41 sent. Ecotrade; par. 42: coma par. 43 sent. Ecotrade;
par. 491 qualora sia dimostrato che e idoneo di per sè a generare la concessione di aiuti di Stato)".
Identica è la formula con la quale le due sentenze hanno affermato che la concreta applicazione ad un'impresa di un regime come quello istituito dalla legge in esame da luogo alla concessione di un aiuto di Stato allorché è dimostrato che "questa impresa - è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento, - o ha beneficiato di uno o più vantaggi" (sentenza Ecotrade par. 45: sentenza Piaggio par. 50).
Peraltro, la seconda decisione, nell'esaminare la questione dell'attuazione di un regime di aiuti di Stato senza la previa notifica alla Commissione, ha concluso che, "qualora sia dimostrato che un regime quale quello istituito dalla L. n. 95 del 1979 è idoneo, di per sè, a generare la concessione di aiuti di Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1 del Trattato, il detto regime non può essere attuato se non è stato notificato alla Commissione e, in caso di notifica", prima di una decisione della Commissione ovvero prima che siano decorsi due mesi dalla notifica senza che sia stata presa una decisione (sentenza Piaggio: par. 49 e 50).
Orbene, come ha osservato questa Corte, benché "su tale considerazione dell'idoneità del regime di per sè taluno in dottrina ha costruito la tesi della declaratoria di incompatibilità dell'intera L. n. 95 del 1979 con l'ordinamento comunitario", la considerazione sopra svolta in ordine ai limiti della competenza della Corte di giustizia, impone di mantenere fermo che resta "rimesso al giudice nazionale lo stabilire se le caratteristiche che possono integrare gli estremi di aiuti di Stato siano connaturate a specifici aspetti della disciplina, per tale ragione di per sè idonei a generare aiuti di Stato, ovvero siano conseguenza necessaria dell'apertura della procedura cosicché la stessa procedura, in considerazione dei suoi effetti necessari, debba considerarsi di per sè un aiuto di Stato. Il fatto, quindi, che gli aiuti di Stato siano costituiti dalla concreta applicazione di una disciplina ovvero che una disciplina sia idonea di per sè a generare aiuti di stato non muta i termini del problema" (Cass. n. 21083 del 2005). La conclusione è che le sentenze sopra richiamate recano indicazioni interpretative, vincolanti per il giudice nazionale, sulla nozione di aiuti di Stato ed il riferimento alla L. n. 95 del 1979 ha la funzione di contestualizzare la pronunzia in relazione alla fattispecie all'esame del giudice nazionale, essendo stata esclusa l'incompatibilità con le norme comunitarie dell'intera L. n. 95 del 1979 ed essendo stata lasciata al giudice nazionale - come hanno precisato le pronunzie richiamate supra - la decisione di stabilire se l'applicazione concreta di una misura ovvero la stessa misura in sè integrino gli estremi di un aiuto di stato così come, con interpretazione vincolante, individuata dalla Corte di giustizia. 2.2.5.- La portata ed il contenuto della decisione della Commissione, presa ai sensi dell'art. 88 n. 2 del Trattato, ha invece ad oggetto direttamente la compatibilità della misura con l'ordinamento comunitario e la decisione, poiché è stata pronunciata nei confronti dello Stato italiano, è dotata di effetto diretto nei confronti dell'ordinamento nazionale (Corte di giustizia, 6 ottobre 1970, n. 9; 10 novembre 1992, n. 156; Cass. n. 4214 del 2006; n. 23269 del 2005; n. 21083 del 2005; n. 4760 del 2005; n. 17564 del 2002), sia pure limitatamente ai rapporti giuridici intercorrenti tra privati e pubblici poteri (c.d. efficacia verticale), non è suscettibile di essere sindacata dal giudice nazionale e, qualora si tratti di decisione negativa che non ha effetti diretti nei rapporti tra privati, il giudice nazionale, comunque, difficilmente può negare natura di aiuto di Stato ad una misura nazionale cosi qualificata dalla Commissione Europea con decisione divenuta inoppugnabile.
La decisione 16 maggio 2001, 2001/212/CE ha concluso nel senso che "il regime, di cui alla L. n. 95 del 1979 di conversione del D.L. n. 26 del 1979 è illegittimo e incompatibile con il mercato comune" e, tuttavia, nella motivazione, ha chiaramente riferito il dictum al regime introdotto da specifiche disposizioni. In tal senso, come ancora ha sottolineato questa Corte, è significativo che "la Commissione afferma, al par. 48, che occorre innanzitutto individuare, nell'ambito del regime giuridico dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, le misure che non rivestono carattere di misura generale e pronunciarsi sul fatto se ricadano le misure non l'intera legge o meno nell'art. 87, par. 1 del Trattato CE; al par. 50, che la L. n. 95 del 1979 rinvia per vari aspetti alla legge italiana sul fallimento e, laddove prevede l'applicazione in condizioni non derogatorie ai meccanismi di quest'ultima, tali meccanismi e procedure si configurano come misure generali prive di qualsiasi carattere selettivo.
Tale legge prevede invece applicazioni particolari, che comportano la concessione di taluni vantaggi specifici e che implicano risorse pubbliche, a favore di beneficiari individuabili; al par. 58, che i diversi vantaggi (n.d.r. che non esauriscono il contenuto della legge) derivanti dalla L. n. 95 del 1979 costituiscono un aiuto di Stato ai sensi dell'art. 87, par. 1 del Trattato CE";
infine, ai par. 74 b, nelle conclusioni, che la L. n. 95 del 1979 introduce un regime (n.d.r. senza assumere che in legge si esaurisca in tale regime) di aiuti di Stato illegittimamente posto in essere dall'Italia".
In ogni caso la Commissione ha deciso di non ingiungere all'Italia di procedere al recupero presso le imprese beneficiario degli aiuti concessi" (Cass. n. 21083 del 2005).
2.2.6.- Il contenuto delle citate sentenze e della decisione della Commissione CE comporta che il giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi su una azione revocatoria promossa da una procedura di amministrazione straordinaria apertasi nel vigore della L. n. 95 del 1979 deve accertare se la disciplina della L. Fall., art. 67, costituisca un aiuto di Stato, per come è chiamata ad operare nel contesto della procedura e, in caso di risposta negativa, deve chiedersi se la stessa apertura della procedura, senza la quale neppure è prospettabile l'esercizio dell'azione revocatoria, rappresenti un aiuto di Stato perché comporta necessariamente l'applicazione di norme che rappresentano aiuti di stato. Ad entrambi gli interrogativi, come sopra è stato ricordato, questa Corte ha dato risposta negativa, che va qui ribadita. La disciplina dell'azione revocatoria da parte di una procedura di amministrazione straordinaria non può essere qualificata come aiuto di Stato perché non ha il requisito di specificità, sotto i due profili della selettività e della discrezionalità, che, alla stregua delle decisioni della Corte di giustizia sopra richiamate, caratterizzano gli aiuti di Stato (sentenza Ecotrade par. 38 e 40). L'azione revocatoria esercitata da una procedura di amministrazione straordinaria nella fase liquidatoria ha infatti identità funzionale - sia essa di reintegrazione del patrimonio del debitore o di redistribuzione delle perdite - con quella esercitata in sede fallimentare, di generale applicazione, e manca il requisito dell'impiego di risorse pubbliche.
Quest'ultimo è stato infatti individuato dal giudice europeo in una misura che "comporta necessariamente vantaggi concessi direttamente o indirettamente mediante risorse statali o che costituiscono un onere supplementare per lo Stato o per gli enti designati o istituiti a tal fine" ovvero, in altre parole, in una misura che comporta "un onere finanziario supplementare sostenuto direttamente o indirettamente dai pubblici poteri e destinato a concedere alle imprese interessate un vantaggio determinato" (CGCE, in caso Ecotrade, par. 35 e 36), ritenendo che lo stesso ricorra, oltre che in relazione a specifici vantaggi concessi con onere a carico dello Stato, quando la continuazione dell'attività economica dell'impresa e consentita con il sacrificio dei creditori anteriori, cui sono inibite azioni esecutive, quando questi creditori, tenuto conto dei requisiti per l'ammissione alla procedura, possono identificarsi principalmente nello Stato o enti pubblici (par. 36 e ss.).
Siffatti caratteri difettano nell'azione revocatoria. In primo luogo, in quanto questa azione può essere esercitata soltanto dopo la cessazione della fase conservativa della impresa e l'inizio della fase liquidatoria (Cass. n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006; n. 21083 del 2005; n. 6192 del 2005; n, 12936 del 2005; n. 12936 del 2003).
Tuttavia, occorre anche considerare che un'effettiva destinazione liquidatoria della procedura può manifestarsi anche prima del formale avvio del procedimento di alienazione dei beni, in quanto un'attività di conservazione dei beni può risultare funzionale anche alla tutela delle ragioni dei creditori, che hanno interesse all'alienazione di un complesso produttivo efficiente; l'eventualità di una destinazione liquidatoria va dunque accertata con riguardo al momento della decisione sull'azione revocatoria e la stessa cessione dell'intero complesso ha funzione di liquidazione (Cass. n. 5301 del 2006; n. 4214 del 2006).
In tal senso, va ricordato che la Corte costituzionale nello scrutinare le censure sollevate in riferimento al D.L. n. 347 del 2003, art. 6 convertito nella L. n. 39 del 2004 - nel testo novellato dal D.L. n. 119 del 2004 - che ha introdotto nell'ordinamento la c.d. amministrazione straordinaria accelerata, ha sostanzialmente sottolineato come l'azione revocatoria sia incompatibile con programmi di ristrutturazione e di conservazione del patrimonio aziendale in vista del ritorno in bonis dell'imprenditore insolvente e che, in definitiva, finiscono con l'avvantaggiare quest'ultimo, non con una conformazione della procedura il cui esito sia la liquidazione dei beni, al fine di realizzare al meglio l'interesse dei creditori e di tutelare la par condicio (sentenza n. 172 del 2006; ordinanza n. 409 del 2006).
Peraltro, questa Corte ha anche già sottolineato che come nel fallimento è ammesso l'esercizio provvisorio dell'impresa ai sensi della L. Fall., art. 90, (nel testo originario; non interessa in questa sede esaminare la disciplina come innovata dal D.Lgs. n. 5 del 2006), nella amministrazione straordinaria disciplinata dalla L. n. 95 del 1979 la continuazione dell'attività era pur ammissibile, "tenendo anche conto dell'interesse dei creditori", dunque in una prospettiva non estranea alle esigenze liquidatorie, così come, sia nella amministrazione straordinaria disciplinata dalla Prodi-bis che dalla Legge Marzano le azioni revocatorie sono ammissibili anche nel caso di autorizzazione alla esecuzione del programma di ristrutturazione, purché si traducano in un vantaggio per i creditori, ossia nel caso di evoluzione in senso liquidatorio (Cass. n. 21823 del 2005; v. anche Corte cost. n. 172 del 2006). In secondo luogo, in quanto Stato ed enti pubblici non possono considerarsi naturali soggetti passivi dell'azione revocatoria, nel senso che non vi sono elementi per affermare che vi sia un'alta probabilità che essi siano tra i principali destinatari dell'azione. Relativamente al secondo interrogativo posto dalla Corte europea, esso richiede di accertare se continuazione dell'impresa, con sacrificio di creditori principalmente pubblici, ed altri vantaggi, con oneri supplementari a carico dello Stato o di enti pubblici, conseguissero necessariamente all'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria prevista dalla L. n. 95 del 1979. Ebbene - ha sottolineato questa Corte - "nella disciplina dell'amministrazione straordinaria dettata da questa legge, la continuazione dell'impresa, seppure conseguenza normale, non era conseguenza necessaria (art. 2, comma 1 "può essere disposta la continuazione dell'impresa") dell'apertura della procedura; inoltre, gli altri vantaggi a carico di risorse pubbliche individuati dalla Corte di giustizia (par. 41 della sentenza Piaggio) possono essere disapplicati senza incidere sulla possibilità di una gestione liquidatoria" della procedura (Cass. n. 21083 del 2005). In conclusione, se è vero che il divieto di aiuti di Stato impone al giudice nazionale di disapplicare quelle norme che di per sè comportano vantaggi non consentiti, la disapplicazione di alcune disposizioni, quand'anche i più qualificanti dalla legge, non comporta la disapplicazione di quella disposizioni che non presuppongono un regime di vantaggi. La ridotta utilità di una procedura così ridimensionata nella disciplina o il venire meno delle ragioni per l'apertura e la prosecuzione di una diversa procedura non sono ovviamente sufficienti per la disapplicazione e giustificano semmai un intervento correttivo del legislatore. 2,2.7.- Siffatto intervento, peraltro, non è mancato, come ha ancora precisato questa Corte, con argomentazioni che è opportuno qui riportare (Cass. n. 21083 del 2005; in senso sostanzialmente analogo, Cass. n. 4206 del 2006), in quanto sono condivise dal Collegio. Nel descritto contesto, dopo la disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. n. 270 del 1999, il cui art. 106 aveva prorogato la vigenza della L. n. 95 del 1979 per le procedure di amministrazione straordinaria in corso, è infatti sopravvenuta la L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 7.
L'art. 7 cit. ha disposto: "i commissari straordinari nominati nelle procedure di amministrazione straordinaria disciplinate dal D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95, cessano dall'incarico il sessantesimo giorno successivo dalla data in vigore della presente legge" (comma, 1; e cioè alla data del 27 febbraio 2003); "nei dieci giorni successivi al termine di cui al comma 1 e cioè, entro il 9 marzo 2003 il Ministro della attività produttive nomina, con proprio decreto, un commissario liquidatore che prosegue, sotto la vigilanza del Ministero delle attività produttive, la gestione liquidatoria secondo le norme della liquidazione coatta amministrativa (...), Continua a trovare applicazione, salvo che per quanto concerne nuovi assoggettamenti alla procedura di amministrazione straordinaria, la disciplina di gruppo di cui al D.L. 30 gennaio 1979, n. 26, art. 3 convertito, con modificazioni, dalla L. 3 aprile 1979, n. 95; continuano altresì ad applicarsi le disposizioni di cui al D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, art. 106, comma 1. Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti e degli atti legalmente adottati nel corso della procedura. Il commissario liquidatore subentra nei giudizi in corso in sostituzione del commissario straordinario" (comma 3).
Il legislatore ha dunque preso atto della possibilità di una gestione soltanto liquidatoria delle procedure in corso ed ha rimosso l'incongruenza della previsione di un organo, quale il commissario straordinario, rispetto ad una procedura che ormai non può più avere una gestione conservativa dell'impresa, secondo le modalità già previste dalla L. n. 95 del 1979.
In relazione a tale intervento del legislatore nazionale, la Corte di giustizia, dopo avere dichiarato, con riferimento al D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 del che la proroga di un regime di aiuti di Stato costituisce esso stesso un regime nuovo di aiuti di Stato, con la richiamata ordinanza 24 luglio 2003 ha invitato il giudice nazionale a prendere atto della decisione della Commissione di rinunciare al recupero degli aiuti erogati prima del D.L. n. 270 del 1999 (decisione 16 maggio 2001, 2001/212/CE) ed a tenere conto della disciplina della L. n. 273 del 2002, art. 7.
Dunque, in buona sostanza, rispetto alle procedure pendenti si considera illegittima solo l'erogazione di nuovi aiuti (par. 42 ordinanza del 24 luglio 2003) e la soluzione indicata non è quella di una disapplicazione, ma quella di "una interpretazione quanto più possibile conforme al diritto comunitario", alla quale viene invitato il giudice nazionale che sia chiamato a stabilire, "se del caso alla luce della L. n. 273 del 2002, art. 7", se il D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 106 possa ancora essere interpretato nel senso di consentire alle imprese assoggettate a procedure in corso di "beneficiare in futuro di nuovi aiuti di Stato in base alla L. n. 95 del 1979, oggi abrogata" (par. 43-44).
Pertanto, dall'ordinanza in esame emerge con chiarezza che:
a) non sono recuperabili gli aiuti di Stato concessi in base alla L. n. 95 del 1979 sino al momento della sua abrogazione pertanto, anche ammettendo - ma lo si è escluso - che la disciplina della L. 95 del 1979 costituiva di per sè un regime di aiuti di Stato, il beneficio dell'apertura della procedura non potrebbe essere "recuperato", ma dovrebbero essere soltanto esclusi nuovi benefici nell'ambito della procedura;
b) la proroga della disciplina della L. n. 95 del 1979 non rappresenta di per sè un regine di aiuti se può essere interpretata in modo da escludere nuovi aiuti di Stato alle imprese che vi sono sottoposte; il che è quanto si impone per le considerazioni sopra svolte.
Nel quadro di questi principi, è chiara l'infondatezza, nel merito, dei motivi in esame.
Pertanto, solo per completezza va peraltro osservato che, benché la sentenza impugnata abbia erroneamente affermato l'inammissibilità dell'eccezione di incompatibilità in questione, in quanto tardivamente proposta nella comparsa conclusionale, ha anche precisato: "comunque, le due citate sentenze della Corte di giustizia Piaggio ed Ecotrade hanno dichiarato che l'applicazione della "Legge Prodi" da luogo ad un aiuto di Stato ai sensi dell'art. 92, n. 1 non senz'altro, ma "allorché è dimostrato che l'impresa è stata autorizzata a continuare la sua attività economica in circostanze in cui tale eventualità sarebbe stata esclusa nell'ambito dell'applicazione delle regole normalmente vigenti in tema di fallimento, o ha beneficiato di uno o più ... vantaggi dei quali non avrebbe potuto usufruire un'altra impresa insolvente nell'ambito di applicazione delle regole normalmente vigenti in materia di fallimento". La pronuncia ha quindi affermato che, nella specie "non vi è nemmeno l'assunto della sussistenza di uno dei due presupposti alternativamente richiesti per la disapplicazione della Legge Prodi". Al riguardo, va ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la parte che alleghi il contrasto della norma nazionale con una norma comunitaria, ha l'onere di allegare e di dimostrare la ricorrenza nel caso concreto di un aiuto di stato (Cass. n. 4206 del 2006; n. 5561 del 2004; n. 5241 del 2003) e, in relazione ad un fatto specifico, qual è la pendenza della fase conservativa della procedura, "il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda" (Cass. n. 4206 del 2006).
Pertanto, nella specie, l'eccezione, nella parte non concernente il contrasto con la norma comunitaria dell'intera L. n. 95 del 1979, soggiaceva anche al principio secondo il quale, qualora l'incompatibilità comunitaria dell'azione revocatoria esercitata nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, ai sensi di detta legge, non venga dedotta in astratto, ma in relazione ad un fatto specifico (l'essere stata detta azione promossa in pendenza della fase conservativa della procedura e prima dell'inizio della fase liquidatoria) il giudice non può conoscere dell'eccezione se non sono allegati e provati i fatti su cui essa si fonda, mentre il potere di allegazione della parte interessata va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal codice di rito, soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze (Cass. n. 4206).
Infine, manifestamente infondata è l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'intera L. n. 95 del 1979, sollevata in modo sostanzialmente apodittico, con l'affermazione che la coesistenza di due procedure di amministrazione straordinaria concernenti la medesima categoria di soggetti si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost.
Al riguardo, ed allo scopo di dimostrare la manifesta infondatezza del dubbio così prospettato, è sufficiente ricordare, in primo luogo, che, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale - indipendentemente da ogni valutazione in ordine ai presupposti di applicabilità delle differenti discipline succedutesi nel tempo - il "fluire del tempo" costituisce, di per sè solo, un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche (ex plurimis, Corte cost. n. 276 del 2005; n. 216 del 2005; n. 190 del 2003).
In secondo luogo, la considerazione che, per quanto sopra esposto, elemento comune a tutte le procedure poste in comparazione è che l'azione revocatoria è comunque esercitabile soltanto in riferimento alla destinazione liquidatoria delle medesime, nei termini e nell'accezione sopra poste, vale ex se ad escludere la dedotta disparità di trattamento.
3.- Le istanti, con il secondo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 56, dell'art. 1853 c.c. e dell'art. 2909 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5)".
Secondo le ricorrenti, il Tribunale ha affermato che la compensazione opera anche nel caso di fallimento (L. Fall., art. 56) e non può essere ex se impugnata; tuttavia, "ben possono essere impugnati gli atti o i negozi che costituiscono il presupposto della compensazione", ma ha escluso che detta impugnazione fosse stata proposta.
Il giudice di primo grado, dopo avere precisato che la compensazione presuppone l'esistenza "di distinti rapporti", ha osservato che le tre banche avevano sostenuto di essere creditrici dell'importo di L. 8 miliardi, erogato a titolo di finanziamento, e di essere detattrici della minore somma di L. 850 milioni, con la conseguenza "che non vi sarebbe stato un versamento di L. 850.000.000 aggredibile con l'azione revocatoria fallimentare, ma solo una decurtazione dell'iniziale credito di L. 8.000.000.000".
La sentenza di primo grado ha, quindi, ritenuto che: la prima rata di rimborso del finanziamento doveva essere pagata circa dodici mesi dopo la stipula del contratto, quindi nei primi giorni del novembre 1989; nell'epigrafe del contratto era menzionata la delega irrevocabile conferita alla Banca di Roma, per la riscossione dei crediti della Micoperi nei confronti di clienti stranieri; il mandato all'incasso era opponibile alla procedura; secondo le banche il credito maturato in relazione alla prima rata di rimborso del prestito si era compensato con il debito sorto in riferimento all'esecuzione del mandato; dalla convenzione risultava che alla "Banca di Roma era stata conferita una delega semplice all'incasso (non un mandato in rem propriam, ne' una sostanziale cessione del credito), con la conseguenza che la banca, una volta curata e ottenuta la riscossione, avrebbe dovuto trasmettere la somma al cliente; ciò significa che la banca una volta ricevuto il pagamento dal debitore, straniero, diveniva debitore della Micoperi";
tra i due rapporti vi era una sostanziale autonomia che legittimava la compensazione ex art. 1853 c.c., poiché l'esecuzione del mandato da parte della Banca di Roma non aveva comportato il versamento su di un conto corrente del cliente, sicché "poiché l'effetto compensativo determinato dalla attuazione di un mandato irrevocabile all'incasso non costituisce un atto giuridico autonomo, ma conseguente alla pattuizione, non è esperibile l'azione revocatoria, se il mandato non è impugnato".
Il Tribunale aveva quindi rigettato la domanda di revoca del pagamento di L. 850 milioni nei confronti della Banca di Roma. La Corte d'appello ha accolto l'appello incidentale, malgrado che il Commissario straordinario non avesse censurato la motivazione, limitandosi a riprodurre due decisioni non pertinenti di questa Corte: la prima, secondo la quale il mandato in rem propriam conferito per la restituzione del mutuo ha funzione strumentale di una delle due prestazioni del mandato rispetto alla più ampia convenzione di adempimento stipulata tra mutuante e mutuatario che si realizza per mezzo del mandato; la seconda, in virtù della quale le somme riscosse, secondo l'intento delle parti, erano destinate ad essere incamerate dalla banca per soddisfare il credito di questa rimasto insoluto.
Ad avviso delle ricorrenti, il Tribunale non ha ritenuto esistente un mandato in rem propriam quale negozio con funzione strumentale nell'ambito di una più ampia convenzione di adempimento ed ha escluso la conclusione di un patto di incameramento da parte della banca delle somme riscosse per soddisfare un credito insoluto. La mancanza di argomentazioni critiche riguardo alla sentenza del Tribunale fa sì che la riforma disposta dalla sentenza di secondo grado è apodittica ed immotivata, dato che non è stata contestata la configurazione della pronuncia di primo grado in virtù della quale nella specie sussisteva "una delega all'incasso, con la conseguenza che la banca, una volta curata e ottenuta la riscossione avrebbe dovuto trasmettere la somma al cliente, l'omissione della qual trasmissione ha fatto divenire la Banca debitore della Micoperi", sicché all'obbligo della prima di restituire le somme incassate dal terzo si contrapponeva il suo credito di rimborso del finanziamento.
Le istanti denunciano inoltre la violazione del giudicato, poiché la Micoperi aveva impugnato la sentenza, in parte qua, deducendo che la pronuncia sulla compensazione era gravata "in quanto pagamento di debito certo, liquido ed esigibile", mentre la Corte milanese ha deciso sul presupposto che nella specie esisteva un mandato in rem propriam - escluso dal Tribunale con statuizione non censurata, quindi passata in giudicato - omettendo peraltro di motivare sulla deduzione con la quale la Banca di Roma - nell'atto di appello - aveva sostenuto che le espressioni riportate nel contratto del 3 novembre 1988 evidenziavano la conclusione di una cessione di credito, eseguita con il pagamento da parte della società norvegese in data 19 luglio 1989, "insensibile ad ogni futuro avvenimento della Micoperi", essendo stata notificata la cessione alle committenti estere. Pertanto, la pronuncia è censurabile anche nella parte in cui non ha motivato su detto assunto della Banca, riproposto, nonostante essa fosse stata vittoriosa in primo grado, sicché la Corte territoriale doveva valutarlo, una volta disattesa la motivazione della pronuncia di primo grado.
3.1.- Il motivo è infondato e va rigettato.
3.1.1.- In linea preliminare, va rilevato che non è meritevole di accoglimento la doglianza relativa alla violazione del giudicato, fondata sulla asserita mancata contestazione da parte della Micoperi della configurazione data dal primo giudice alla fattispecie in esame. La lettura della comparsa di risposta contente l'appello incidentale (ammissibile in questa sede in considerazione della natura del vizio denunciato, costituente error in procedendo, Cass. n. 11322 del 2003) permette di accertare infatti che con tale è atto è stato dedotto che, "se la delega all'incasso (...) non è configurabile quale mandato in rem propriam, nulla autorizzava il mandatario a trattenere le somme incassate" (pg. 14 e 15), osservando che il mandato in rem propriam può avere funzione solutoria e di garanzia e che quest'ultima "è di mero fatto ed empirica", avendo il mandatario la mera facoltà di trattenere temporaneamente l'importo riscosso in funzione di garanzia" (pg. 15 dell'atto richiamato). Dunque, risulta chiaro che l'appellante incidentale, in buona sostanza, ha contestato la legittimità della configurazione offerta dal Tribunale, sostenendo la revocabilità del pagamento;
quindi, la censura investiva integralmente la correttezza della decisione di primo grado, conferendo al giudice del gravame il potere- dovere di riesaminare la fattispecie senza il limite invocato dalle ricorrenti.
La sentenza impugnata ha quindi precisato nella narrativa che, secondo il giudice di primo grado, la Banca di Roma "aveva ricevuto un mandato irrevocabile all'incasso" (pg. 19) e, tuttavia, il pagamento non era revocabile esclusivamente in quanto tra le parti non vi era un rapporto di conto corrente e detta circostanza era stata reputata sufficiente a far ritenere esistenti due contrapposte ragioni di credito, aventi diverso titolo, con conseguente applicabilità della compensazione.
Le stesse istanti, nella narrativa del ricorso, espongono che il Tribunale ha ritenuto fondata l'eccezione di compensazione della Banca di Roma, in quanto "questa aveva ricevuto dalla Micoperi un mandato irrevocabile all'incasso", ritenendo operante la compensazione per l'inesistenza di un rapporto di conto corrente. Nell'esposizione del motivo in esame, le ricorrenti ribadiscono che il giudice di primo grado aveva reputato che alla Banca di Roma fosse stata conferita "una semplice delega all'incasso" (pg. 20), reiterando che la revocabilità era stata negata dallo stesso giudice solo in quanto "l'esecuzione del mandato da parte della Banca di Roma non ha dato luogo al versamento della somma su un conto corrente del cliente", riportando testualmente che da questa considerazione risultava confermato "l'indirizzo per il quale, poiché l'effetto compensativo determinato dalla attuazione di un mandato irrevocabile all'incasso non costituisce atto giuridico autonomo" doveva concludersi per l'avvenuta compensazione (pg. 21 del ricorso). La sintesi delle affermazioni contenute nella sentenza impugnata e delle deduzioni delle istanti rende dunque chiaro che costituisce circostanza accertata che vi era un mandato irrevocabile all'incasso. La Corte territoriale ha quindi anche ulteriormente indicato che "nel contratto di finanziamento in premessa si dà atto che la Micoperi ha avvertito le committenti estere che i pagamenti sono stati irrevocabilmente delegati come da notifiche in fattura al Banco di Roma", che era dunque "delegataria o mandataria per l'incasso" (pg. 30 della sentenza) e, interpretando il contratto, ha affermato che "il mandato-delega irrevocabile all'incasso dei crediti verso i committenti aveva due funzioni: di garanzia e di pagamento" (pg. 46). Inoltre, a conforto di questa ricostruzione ha anche precisato che "coerentemente la Banca di Roma, banca agente, solo in data 21.12.1989 con valuta 15.12.1989 ha accreditato alle altre banche del pool la quota di rimborso di loro pertinenza" (pg. 47 della sentenza), con condotta che rafforzava questa interpretazione. Alla luce di queste puntualizzazioni è chiaro che la Corte territoriale non ha affatto apoditticamente disatteso la qualificazione offerta dal Tribunale, che ha fatto propria per una parte, ma ha avuto cura di identificare ed indicare la funzione del mandato irrevocabile all'incasso e, in tal modo, ha implicitamente, ma chiaramente, rigettato la deduzione della Banca di Roma, volta a sostenere la tesi che nella specie fosse stata stipulata una cessione del credito. Tanto è sufficiente ad escludere, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di omessa pronuncia o di difetto di motivazione, che non sussiste quando il rigetto di una domanda o di un'eccezione sia implicito nella costruzione logico-giuridica della sentenza, con la quale venga accolta una tesi con essa incompatibile (tra le più recenti, Cass. n. 10052 del 2006; n. 4079 del 2005).
La configurazione offerta dalla sentenza impugnata è, inoltre, incensurabile, posto che l'interpretazione del contratto, riservata al giudice del merito, è sindacabile in questa sede soltanto per vizi di motivazione o per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (per tutte, Cass., n. 22961 del 2004; n. 5004 del 1999; n. 7611 del 1998; n. 1496 del 1994), non potendo il controllo di legittimità investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, al quale è esclusivamente riservata l'indagine ermeneutica (ex plurimis, Cass., n. 11342 del 2004; n. 9091 del 2004;
n. 2074 del 2002), occorrendo che la censura sia formulata non mediante l'astratto riferimento a dette regole, ma attraverso la specificazione dei canoni in concreto violati e del punto, e del modo, in cui il giudice di merito si sia, eventualmente, discostato da detti canoni (tra le più recenti, Cass., n. 8296 del 2005; n. 4905 del 2003).
Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto.
Il motivo, in larga misura, consiste nella riproduzione della sentenza di primo grado (pg. 18-21 del ricorso), afferma che la sentenza di secondo grado sarebbe apodittica (pg. 22), denuncia la violazione del giudicato (pg. 23), senza indicare quali canoni ermeneutici sarebbero stati violati, rinviando ad espressioni contrattuali che dovrebbero confortare la tesi delle ricorrenti e che, in violazione del principio di autosufficienza, neppure sono state riportate (pg. 23, penultimo cpv del ricorso). Dalla succitata, e qui non censurabile, qualificazione la Corte territoriale ha correttamente desunto la revocabilità del pagamento. Al riguardo, va ricordato che questa Corte si è occupata più volte del mandato irrevocabile all'incasso, utilizzato con funzione di garanzia per il mandatario, chiarendo che gli atti solutori conseguiti all'esecuzione del mandato sono autonomamente revocabili, indipendentemente dalla revocabilità del mandato il mandato irrevocabile all'incasso, a differenza della cessione di credito, non trasferisce la titolarità del credito, che resta in capo al mandante, ma solo la legittimazione a riscuoterlo e la garanzia si realizza in forma empirica e di fatto, come conseguenza della disponibilità del credito verso il terzo e della prevista possibilità che, al momento dell'incasso, il mandatario trattenga le somme riscosse, soddisfacendo così il proprio credito (Cass. n. 1391 del 2003; n. 16261 del 2002; n. 5061 del 2001; n. 6882 del 1997). Proprio l'interesse del mandatario ad assumere la disponibilità di fatto del credito e della somma, al momento della riscossione e per una finalità solutoria, caratterizza il mandato come irrevocabile e questo si differenzia dalla cessione di credito, in quanto non trasferisce la titolarità del credito, che resta in capo al mandante, ma solo la legittimazione a riscuoterlo.
Pertanto, fin quando l'incasso ed il soddisfacimento dei pregressi crediti del mandatario non si realizza - nei termini e con le modalità previsti dal mandato, alla luce della funzione assegnatagli dalle parti -, persiste la titolarità distinta, sempre in testa al mandante, sia della situazione creditoria verso il terzo debitore, sia della situazione debitoria verso il mandatario e gli atti solutori conseguiti all'esecuzione del mandato sono revocabili autonomamente, indipendentemente dalla revocabilità o meno del mandato (Cass. n. 1391 del 2003; n. 16261 del 2001; n. 5061 del 2001) e dall'esistenza di un rapporto di conto corrente.
Inoltre, da questa ricostruzione deriva che, come pure ha precisato questa Corte, in seguito all'esecuzione del succitato mandato non si verifica la compensazione, "in quanto la banca, nel riscuotere la somma, non diveniva debitrice della società mandante per l'equivalente importo, ma la tratteneva in pagamento diretto del proprio credito ex mutuo ancora scoperto verso la società mandante" (Cass. n. 3951 del 1983; principio di recente ribadito dalla sentenza n. 1060 del 2006, in motivazione). Ed è appunto l'inesistenza di un'autonoma obbligazione ex art. 1713 c.c. della mandataria verso la mandante che, "da un lato, esclude la possibilità di configurare secondo lo schema della compensazione (che quell'autonoma obbligazione presupporrebbe) la vicenda estintiva del credito ex mutuo della stessa banca, dall'altro, consente di qualificare tale vicenda estintiva in termini di atto solutorio" effettuato dalla mandante alla banca, e ciò anche nel caso di mandato in rem propriam all'incasso, senza riferimento ad un rapporto di conto corrente (Cass. n. 3951 del 1983).
4.- Le ricorrenti, con il terzo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, dell'art. 342 c.p.c. e degli artt. 1852 e segg. c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa, contraddittoria motivazione", deducendo che la sentenza impugnata ha revocato il pagamento di L. 139.082.234 (un rientro su conto scoperto derivante da un versamento di L. 500 milioni) ricevuto dal Banco di Santo Spirito in data 17 ottobre, con valuta del 18 ottobre 1989 - sul presupposto che la conoscenza dello stato di insolvenza fosse riferibile al 1 ottobre 1989. Tuttavia, la stessa Corte territoriale ha precisato che la Micoperi non ha formulato alcun motivo di censura in riferimento alla parte della sentenza di primo grado che aveva escluso la revocabilità di detto pagamento.
Secondo le istanti, l'onere della specificità dei motivi di impugnazione (art. 342 c.p.c.) non resta escluso dalla mancanza di motivazione della sentenza impugnata e l'onere di riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte stabilite dall'art. 346 c.p.c. riguarda anche le domande non esaminate, perché assorbite o sfuggite all'esame del giudice.
Pertanto, la sentenza impugnata è censurabile "per mancanza di motivo ad hoc nell'atto di appello della Micoperi, per mancata prova della scientia decoctionis in capo al Banco di S. Spirito, erroneamente attribuendogli quella del Banco di Roma, oltreché per errore nell'ordine dei saldi non disposti correttamente". 4.1.- Il motivo è infondato e va rigettato.
4.1.1.- In linea preliminare va ricordato che il carattere di specificità dei motivi di appello va apprezzato in relazione alla motivazione della sentenza impugnata e deve ritenersi sussistente quando alle argomentazioni svolte nella medesima vengono contrapposte quelle dell'appellante in modo da incrinare il fondamento logico- giuridico delle prime (tra le molte, Cass. n. 20201 del 2005; n. 6761 del 2004; n. 15936 del 2003; Cass. n. 3539 del 2000).
L'art. 342 c.p.c., stabilendo detto requisito, richiede soltanto che la manifestazione volitiva dell'appellante deve permettere di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione che le sostiene e non stabilisce l'obbligo di adottare formule o schemi particolari nella esposizione dei motivi e delle domande dell'atto di appello, che restano affidati alla capacità espressiva del difensore (Cass. n. 7769 del 2003).
In altri termini, il requisito postula l'indicazione, sia pure in forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza censurata (Cass. n. 875 del 2001), e cioè un'esposizione chiara ed univoca delle doglianze (Cass. n. 9867 del 2000), da correlare con la motivazione della medesima (Cass. n. 3539 del 2000). Infine, secondo il prevalente orientamento di questa Corte, siffatta specificità è verificabile in sede di legittimità direttamente, riconducendo la censura nell'ambito dello error in procedendo, attraverso l'interpretazione autonoma dell'atto di appello (Cass. n. 24817 del 2005; n. 19188 del 2003; n. 2908 del 2001; n. 3712 del 2003), mentre, ai fini dell'individuazione del vizio denunciato, non rileva la correttezza dell'indicazione del riferimento normativo (e cioè l'evocazione dell'art. 360 c.p.c., n. 4), purché, come nella specie, dal contesto del motivo sia possibile desumere la denuncia di un errore di siffatta natura (Cass. n. 3941 del 2002; n. 4349 del 2000).
Nel quadro di questi principi, va osservato che la sentenza impugnata ha precisato, in riferimento al pagamento in esame, che l'accredito era stato "indicato dalla procedura già nell'atto di citazione e pertanto anche di questo va esaminata l'efficacia (solutoria o no)", puntualizzando di ritenere sufficiente la specificazione del motivo in considerazione della mancata valutazione di detta operazione da parte della sentenza di primo grado (pg. 38 della sentenza) e concludendo nel senso che "l'accredito in esame appare solutorio come sostenuto dalla procedura per L. 139.082.234" (pg. 39 della sentenza).
L'appellante incidentale, dal suo canto, aveva espressamente dedotto che "il versamento per L. 500.000.000 determina (...) un rientro da scoperto di L. 139.082.234 secondo una ricostruzione per data disponibilità" (pg. 26 della comparsa di costituzione recante l'appello incidentale), cosi da risultare incontrovertibile che la censura aveva espressamente investito anche il pagamento in questione.
La doglianza relativa alla sussistenza della scientia decoctionis, che sarebbe stata malamente effettuata in riferimento al Banco di Roma e non al Banco di S. Spirito, è inammissibile.
Infatti, la questione, in questi termini, non risulta affatto trattata dalla sentenza impugnata e, quindi, deve ritenersi sollevata, per la prima volta, in questa sede, in violazione del principio secondo il quale i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d'inammissibilità, questioni già comprese nel tema del decidere, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio.
Pertanto, avendo il ricorrente proposto detta questione, aveva l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito - negli esatti termini qui posti -, ma anche di indicare, specificamente, in quale atto del precedente giudizio lo avesse fatto, riproducendolo, onde dare modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (per tutte, Cass., n. 1063 del 2005; n. 19254 del 2004; n. 5150 del 2003), sicché dal mancato adempimento di detto onere consegue l'inammissibilità di questo profilo della censura, rinviandosi, per il profilo riferito all'incorporante, alle argomentazioni infra esposte nell'esame dell'ottavo motivo di ricorso.
La censura relativa ad un asserito errore nell'ordine dei saldi è inammissibile in quanto, per la sua genericità, si risolve in una mera, non argomentata, critica dell'apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito.
5.- Le istanti, con il quarto motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione dell'art. 2909 c.c. e dell'art. 1184 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)", osservando che il giudice di secondo grado ha disatteso la sentenza di primo grado nella parte in cui ha accolto la tesi della Banca di Roma, secondo la quale "il pagamento fatto alla Cassa di Risparmio di Roma è del mese di luglio e allora non è revocabile", essendo stata fissata la conoscenza dello stato di insolvenza alla data del 1 ottobre 1989.
La Corte territoriale, benché nella narrativa abbia precisato che "il Tribunale aveva escluso la revocabilità dei pagamenti anteriori al 1 ottobre 1989", non ha tenuto conto del giudicato formatosi sul punto.
In linea gradata, le ricorrenti sostengono che la pronuncia ha disatteso la tesi della Banca di Roma, reputando che l'incasso del credito dalla società norvegese avrebbe avuto "funzione di garanzia" fino al 7 novembre 1989, assumendo solo in tale data quella di pagamento, con tesi inesatta.
Il pagamento non presuppone infatti l'esigibilità del credito, dato che, ex art. 1184 c.c., il debitore può eseguire la prestazione prima della scadenza del termine di adempimento e costituire in mora il creditore che rifiuti di riceverla (art. 1206 ss c.c.). La asserita funzione di garanzia sino alla scadenza del termine di adempimento ed il mutamento da garanzia a pagamento alla data della scadenza dell'obbligazione sarebbero frutto di una costruzione erronea. La percezione anticipata di una somma non richiede alcuna manifestazione di volontà contrattuale, "mentre la costituzione di una garanzia reale richiede una manifestazione di volontà del garante e del garantito con oggetto la costituzione della garanzia". Nella specie non v'è prova di un accordo in tal senso ed i pagamenti sono, comunque, irrevocabili, in quanto effettuati il 19 luglio 1989, quando la Banca di Roma ignorava lo stato di insolvenza della Micoperi e, per quanto esposto nel quinto motivo, ad identica conclusione deve ritenersi per quelli a favore del Banco di Sicilia, poiché questo "era percettore già al momento dell'accredito". 6.- Le ricorrenti, con il quinto motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., artt. 1362, 1363, 1366, 1241, 1242, 1243, 1246, 1853, 1388 e 1713 c.c., L. Fall., artt. 56 e 67; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", sostenendo che nel giudizio era stato documentato e provato quanto segue:
a) il Banco di Roma, la Banca commerciale italiana, la Banca nazionale del lavoro, l'Istituto bancario S. Paolo di Torino ed il Banco di Sicilia, previa apposita convenzione interbancaria, con contratto del 3 novembre 1988 accordarono alla Micoperi s.p.a. un finanziamento a breve termine in pool, per la somma di L. 40 miliardi.
Con la citata convenzione fu conferito al Banco di Roma "l'incarico di agire anche in nome e per conto delle banche finanziatrici per porre in essere gli atti ed esercitare i poteri specificamente indicati nella presente lettera di concessione del finanziamento", precisando che quest'ultima "sarebbe stata inviata dal Banco di Roma in nome e per conto delle banche finanziatrici".
A sua volta, la lettera di finanziamento constava: di una premessa nella quale erano indicati i contratti stipulati con alcuni committenti esteri, era precisato che i pagamenti eseguiti dai predetti erano "irrevocabilmente delegati al Banco di Roma-Filiale di Milano" e che il finanziamento era stato erogato dal Banco di Roma quale "Banca agente (...) in proprio ed in nome e per conto delle altre banche partecipanti al pool"; di clausole nelle quali era ribadita quest'ultima modalità del finanziamento ed era convenuto che, alla scadenza, il rimborso sarebbe stato effettuato al Banco di Roma e da questo ripartito tra le banche finanziatrici (art. 7)) e che a detto Banco dovevano essere effettuate le comunicazioni relative al finanziamento.
In altri termini, il contratto era stato sottoscritto e gestito dal Banco di Roma in proprio e quale rappresentante delle altre banche partecipanti al pool.
b) Il finanziamento fu erogato l'8 novembre 1988 ed il rimborso doveva avvenire in tre tranches, la prima delle quali con scadenza il giorno antecedente il 12 giorno dell'erogazione, e cioè il 7 novembre 1989 (art. 7 del contratto di finanziamento). Il Banco di Roma, in data 19 luglio 1989, aveva ricevuto dalla Verslefrikk Statoli, committente norvegese della Micoperi, espressamente indicata nella premessa del finanziamento, due bonifici per complessive L. 4.250.000.000, ed il 7 novembre 1989 aveva rimesso al Banco di Sicilia ed agli altri istituti del pool l'importo di L. 850 milioni ciascuno "a titolo di parziale decurtazione della prima tranche di L. 10 miliardi".
Il Banco di Sicilia aveva ricevuto il pagamento, accreditandolo sul conto corrente speciale acceso a nome della Micoperi per il regolamento del finanziamento in questione;
c) Il Banco di Sicilia, con l'atto di appello, aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato revocabile la compensazione effettuata dalle altre banche finanziatrici, in quanto il mandato all'incasso sarebbe stato conferito esclusivamente al Banco di Roma, deducendone l'erroneità, poiché dal contratto di finanziamento risultava che quest'ultimo svolgeva i compiti in questione anche quale rappresentante delle altre banche del pool.
La sentenza impugnata ha affermato che "delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma" e non ha motivato sulla citata censura del Banco di Sicilia.
Secondo le istanti, la pronuncia è inficiata da vizi interpretativi e della motivazione, in quanto, dopo avere esattamente affermato che il Banco di Roma doveva "assumere l'incarico di banca agente anche in nome e per conto delle altre", ha poi contraddittoriamente concluso nel senso che, "delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma".
Inoltre, la sentenza sarebbe incorsa in errori di diritto violando i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e 1363 c.c., poiché la comune volontà delle parti e l'interpretazione complessiva delle clausole di finanziamento conducono a ritenere che il rapporto di finanziamento doveva essere contratto, amministrato e gestito, fino all'escussione del garante, dal Banco di Roma e, in coerenza con questo intento la stessa era designata quale "banca agente" e "rappresentante comune", non essendo quindi ipotizzabile che la delega all'incasso fosse concessa pariteticamente a tutte le banche, ovvero ad una banca diversa dal Banco di Roma, mentre la coincidenza della banca agente con la banca delegata per l'incasso dimostrava che anche quest'ultima attività era riconducibile alla procura in comune a questo conferito.
La conclusione in ordine al conferimento della delega all'incasso dei crediti esteri al Banco di Roma in proprio e quale rappresentante comune di tutte le finanziatrici riguarderebbe un punto decisivo della controversia in quanto: essendo pacifico che il Banco di Roma ha ricevuto L. 4.250 milioni il 18 luglio 1989, in tale data la somma deve ritenersi introitata, pro quota, dalle altre banche;
il 7 novembre 1989 si era verificata istantaneamente, ex art. 1242 c.c., art. 1243 c.c., comma 1, e art. 1853 c.c., la compensazione tra i crediti delle banche diverse dal Banco di Roma ed i minori importi incassati dai soggetti esteri debitori di Micoperi, ma fin dall'origine di spettanza di ciascuna banca; non avendo la Micoperi chiesto la revoca del mandato all'incasso, in relazione al Banco di Sicilia non vi erano stati atti solutori, ma compensazione tra contrapposti crediti L. Fall., ex art. 56.
In conclusione, la sentenza impugnata non avrebbe considerato gli effetti prodotti dal conferimento della delega da parte della Micoperi al Banco di Roma quale rappresentante delle altre banche, benché il Banco di Sicilia avesse dedotto nell'appello che la loro valutazione avrebbe comportato il rigetto della domanda di revoca avente ad oggetto le somme ad esso versate dal Banco di Roma. 7.- Le istanti, con il sesto motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., artt. 1362 e ss., 1241, 1242, 1243, 1246, 1853 c.c., L. Fall., artt. 56 e 67; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", deducendo che la Micoperi, con l'atto introduttivo del giudizio del 30 marzo 1995, in riferimento all'azione revocatoria avente ad oggetto la compensazione operata dal Banco di Sicilia con riguardo al contratto di finanziamento del 3 novembre 1988, aveva chiaramente indicato quale suo oggetto esclusivamente il "pagamento-incasso" di L. 850 milioni eseguito dal Banco di Roma, a decurtazione del maggior credito dipendente dalla scadenza della prima rata di rimborso. La sentenza di primo grado aveva quindi affermato che: la domanda non concerneva i negozi in base ai quali erano stati effettuati i pagamenti; la delega all'incasso conferita al Banco di Roma era opponibile al fallimento e, tuttavia, non poteva ritenersi attribuita a questa anche in nome e per conto della altre banche partecipanti al pool; dunque la Banca di Roma, "una volta curata e ottenuta la riscossione, avrebbe dovuto trasmettere la somma al cliente", nel senso che "la banca una volta ricevuto il pagamento dal debitore straniero, diveniva debitore di Micoperi", con la conseguenza che la contemporanea esistenza dei contrapposti crediti per il finanziamento in pool e debito da restituzione delle somme ricevute dal debitore straniero rendeva ammissibile la compensazione ex art. 1853 c.c., stante l'autonomia dei rapporti; diversamente doveva ritenersi per le altre banche, poiché estranee alla delega all'incasso dei crediti esteri, sicché non sussistevano crediti e debiti nei confronti della Micoperi, ma soltanto un credito per la rata scaduta del finanziamento e perciò le rimesse ricevute dalla Banca di Roma configuravano atti revocabili.
La sentenza di secondo grado, alle pg. 12 e 15, ha condiviso siffatta identificazione del petitum e della causa petendi della domanda, affermando che la Micoperi non aveva chiesto la revoca del mandato all'incasso di crediti esteri stipulato il 3 novembre 1988, in quanto "risaliva ad epoca anteriore al periodo sospetto", limitandosi ad insistere per la revoca dei pagamenti eseguiti dal Banco di Roma. Ad avviso delle istanti, la pronuncia avrebbe stravolto il petitum dell'azione proposta, riportando una massima di una sentenza di questa Corte (Cass. n. 3951 del 1983), per desumere che "la revocabilità dell'incasso del mandatario quale pagamento allo stesso vale, poi, come argomento ulteriore per rigettare l'appello della Banca S. Paolo e del Banco di Sicilia ove si ritenesse che anche queste banche erano mandatarie della Micoperi per l'incasso", incorrendo in tal modo in ultrapetizione o extrapetizione, in errori di diritto ed in vizi motivazionali.
Secondo le ricorrenti, le domande non avevano ad oggetto il mandato all'incasso di crediti esteri, gli effetti del medesimo e l'incasso di detti crediti avvenuto sul Banco di Roma, bensì "solo ed esclusivamente il momento successivo della utilizzazione delle somme in via di compensazione, unico oggetto dell'azione revocatoria promossa dall'attrice", sicché il giudice del merito doveva stabilire se il creditore poteva compensare L. Fall., ex art. 56 i suoi crediti con le somme spettanti a Micoperi ed esistenti presso di lui.
La sentenza impugnata ha escluso l'applicabilità della L. Fall., art. 56 con argomentazioni concernenti la natura del mandato all'incasso previsto da un contratto di finanziamento, la funzione di garanzia assegnata al medesimo dalle parti, la revocabilità del mandato in considerazione di siffatta funzione, senza avvedersi che nessuno di detti elementi era stato posto a fondamento della domanda di revoca. La pronuncia ha invece omesso di accertare se - ferma la legittimità ed opponibilità dei negozi (di finanziamento e di mandato all'incasso) - fosse legittima la successiva compensazione L. Fall., ex art. 56.
La Corte d'appello, se, nell'osservanza dell'art. 112 c.p.c., avesse considerato soltanto il petitum della domanda, avrebbe dovuto ritenere legittima la compensazione.
7.1.- La SANPAOLOIMI s.p.a, con il secondo motivo (ricorso R.G. n. 1510 del 2004), denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 100 c.p.c., della L. Fall., art. 67, comma 2, degli artt. 1241, 1242, 1243, 1246, 1268, 1269, 1362, 1363, 1364, 1368, 1369, 1372, 1387, 1388, 1392, 1703, 1704, 1705, 1708 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deducendo che nel giudizio di merito aveva sostenuto che la Banca di Roma non aveva agito quale rappresentante delle altre banche, in quanto mancava un formale mandato. Pertanto, essa istante non aveva avuto nessun rapporto diretto con la Micoperi e non poteva rispondere nei confronti di quest'ultima. La Corte territoriale ha invece ritenuto che, in virtù del contratto del 3 novembre 1988, la Banca di Roma ha agito quale rappresentante di tutte le banche del pool; ha affermato che "delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma"; ha ritenuto revocabile anche il pagamento di L. 850 milioni conseguente alla distribuzione tra le banche del pool della somma di L. 4.250.000.000, richiamando l'orientamento secondo il quale "il mandatario per l'incasso di un credito del mandante deve dare esecuzione all'obbligo di consegnare le somme incassate e non può senza esplicita autorizzazione del mandante portarle a compensazione di un credito di esso mandatario verso il mandante".
Secondo l'istante, la Banca di Roma è stata erroneamente ritenuta "delegataria" o "mandataria per l'incasso", dato che nella specie si sarebbe al cospetto di una delegazione attiva, che comporta il sorgere di un nuovo creditore, in sostituzione del primo, o accanto a questo, con la conseguenza che se la Banca di Roma ha agito in qualità di delegataria della Micoperi, ha incassato un credito proprio, non già un credito altrui per il quale era mera mandataria all'incasso.
inoltre, anche se si ritenesse la Banca di Roma mandataria, occorre considerare che, secondo l'interpretazione data dalla sentenza impugnata al contratto del 3 novembre 1988, essa istante, nell'impegnarsi ad effettuare pro-quota il finanziamento, ha dato atto che i pagamenti dei creditori esteri della Micoperi dovevano essere irrevocabilmente effettuati presso la Banca di Roma. Detta clausola era per essa ricorrente vincolante, ma non oltre il suo contenuto, quindi, non può essere ritenuta responsabile in ordine all'impiego fatto dalla Banca di Roma dei versamenti effettuati da terzi ed affluiti presso di essa e non può essere ritenuta responsabile per il fatto che la Banca di Roma ha, eventualmente, gestito le somme versate dai debitori esteri della Micoperi, senza essere stata autorizzata a compensarli con debiti della stessa Micoperi.
7.2.- I motivi, da esaminare congiuntamente perché logicamente e giuridicamente connessi, sono in parte inammissibili, in parte infondati e non meritano accoglimento.
7.2.1.- La doglianza relativa alla eccepita violazione del giudicato, formulata nel quarto motivo, va rigettata, in quanto l'appello incidentale ha investito anche il pagamento in questione (pg. 16 di tale atto) e perché, in ogni caso, come si precisa di seguito, la sentenza ha ritenuto revocabili i pagamenti effettuati in data successiva al 1 ottobre 1989.
Le ulteriori censure svolte nel quarto motivo, in buona sostanza, consistono in una reiterazione di quelle sollevate in ordine al conferimento alla Banca di Roma di un mandato in rem propriam con la funzione sopra indicata. Pertanto, una volta ritenuta incensurabile detta configurazione, per le argomentazioni svolte nella delibazione del secondo motivo (v. 3.1.1.), poiché con quello in esame non ne sono svolte di ulteriori, resta incensurabile l'accertamento operato dalla Corte territoriale, secondo il quale, nella specie, "il mandato- delega irrevocabile all'incasso dei crediti verso i committenti aveva due funzioni: di garanzia e di pagamento" e che "fino al momento della esigibilità del credito la somma di danaro svolge la funzione di garanzia" (pg. 46).
Peraltro, come pure sopra è stato esposto, a conforto di questa ricostruzione, la pronuncia ha anche precisato che "coerentemente la Banca di Roma, banca agente, solo in data 21.12.1989 con valuta 15.12.1989 ha accreditato alle altre banche del pool la quota di rimborso di loro pertinenza" (pg. 47 della sentenza). Correttamente, in virtù di questa configurazione - che, è opportuno ripeterlo, nell'esame del secondo motivo si è detto essere incensurabile - il giudice di secondo grado, accertata la volontà delle parti in ordine alla funzione del mandato (secondo quanto ancora indicato nel 3.1.1.) ha ritenuto irrilevante la data di riscossione della somma, stante la previsione che la medesima doveva essere trattenuta soltanto in garanzia ed incassata alla data di scadenza dell'obbligazione della Micoperi (che è incontroverso era successiva al 1 ottobre 1989). Dall'accertata funzione di garanzia sino alla data della scadenza dell'obbligazione consegue che esattamente la pronuncia ha negato rilevanza alla data dell'incasso della somma da parte del creditore della Micoperi.
Peraltro, questa conclusione risulta confortata dalla stessa condotta della Banca di Roma che - come è precisato nella pronuncia e non è stato contestato - ha appunto accreditato a tutte le banche del pool le somme solo successivamente al 7 novembre 1989, e cioè dopo la scadenza della prima rata del finanziamento, comportamento che, evidentemente, è compatibile soltanto con la ricostruzione offerta dalla Corte territoriale.
7.2.2.- Le questioni poste con il quinto motivo del ricorso R.G. n. 782/04 e con il secondo motivo del ricorso R.G. n. 1510/04 riguardano, in larga misura, l'interpretazione del contratto di finanziamento.
Con il primo di detti mezzi, le ricorrenti sostengono anzitutto che, "se delegato all'incasso fosse stato (...) il Banco di Roma in proprio e non anche in nome e per conto delle altre banche finanziatrici, ne seguirebbe che l'azione di Micoperi avrebbe dovuto essere indirizzata solo contro il Banco di Roma" (pg. 32). Inoltre, reiterano la contestazione della tesi secondo la quale Micoperi conferì il mandato all'incasso soltanto alla Banca di Roma e deducono che la stessa sarebbe in contrasto con la circostanza, pure affermata dalla pronuncia, che detta Banca agiva quale "rappresentante comune" delle altre (pg. 33), affermando che "è innegabile, in conclusione, che la delega all'incasso dei crediti esteri di Micoperi fu conferita al Banco di Roma in proprio e quale rappresentante comune di tutte le banche finanziatrici" (pg. 34). A loro avviso, da questa conclusione conseguirebbe che, essendo state le somme incassate nel luglio 1989, a tale data la somma era stata incassata anche dalle altre banche e che il 7 novembre la compensazione riguardò crediti fin dall'origine di spettanza delle altre banche, sicché non vi erano atti solutori da revocare. Con il secondo dei succitati mezzi, l'istante deduce, in primo luogo, che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che la Banca di Roma aveva agito quale mandataria delle banche costituite in pool;
in secondo luogo che la pronuncia ha poi ritenuto inesattamente che la Banca di Roma fosse mandataria per l'incasso, in quanto nella specie era configurabile una "delegazione attiva", che aveva comportato "il sorgere di un nuovo creditore, in sostituzione del primo"; in terzo luogo, che essa non poteva essere ritenuta responsabile per l'impiego dato dalla Banca di Roma alle somme riscosse in base al mandato. Peraltro, sono queste le censure scrutinabili - e cioè quelle supra riportate nel 7.1. -, non essendo ammissibili le deduzioni concernenti la data del pagamento svolte nella memoria ex art. 378 c.p.c., destinata esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni già compiutamente svolte con l'atto di costituzione ed a confutare le tesi avversarie e nella quale non è possibile specificare od integrare, ampliandolo, il contenuto delle originarie argomentazioni che non fossero state adeguatamente prospettate o sviluppate con il detto atto introduttivo, e tanto meno dedurre nuove eccezioni o sollevare nuove questioni di dibattito (Cass. Sez.Un., n. 11097 del 2006; Cass. n. 14570 del 2004). Le doglianze sono dunque sostanzialmente incentrate nella denuncia di un vizio di motivazione e, quindi, in linea preliminare, è necessario ricordare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l'interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata è riservata all'apprezzamento del giudice del merito, censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e nel caso di motivazione contraria a logica ed incongrua e cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (per tutte, Cass. n. 8372 del 2005; n. 8360 del 2005; n. 4063 del 2005; n. 15197 del 2004).
Peraltro, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. n. 12123 del 2006; n. 15197 del 2004; n. 11193 del 2003).
Il sindacato di legittimità non può dunque investire il risultato interpretativo in sè e, nella formulazione della censura, è imprescindibile la specificazione dei canoni in concreto violati, delle norme ermeneutiche che, in concreto sarebbero state violate, specificando - al di là della indicazione degli articoli di legge in materia (Cass. n. 4948 del 2003)- in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (tra le più recenti, Cass. n. 13717 del 2006; n. 8296 del 2005; n. 4905 del 2003), riportando, nell'osservanza del principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, il testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione (Cass. n. 16132 del 2005; n. 8296 del 2005; n. 4063 del 2005; n. 2394 del 2004), anche quando ad essa la sentenza abbia fatto riferimento, riportandone solo in parte il contenuto, nel caso in cui detta riproduzione parziale non consenta, di per sè, una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire (Cass. n. 4063 del 2005).
Il vizio motivazionale non può, inoltre, consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (per tutte, Cass. n. 3436 del 2006; n. 15805 del 2005; n. 11936 del 2003; n. 11918 del 2003), diversamente risolvendosi il motivo si risolve in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito, al quale neppure può dunque imputarsi d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi (Cass. n. 15096 del 2005; n. 996 del 2003; n. 3904 del 2000).
Nel quadro di questi principi, va osservato che, relativamente alle deduzioni svolte da Sanpaolo Imi in ordine al mandato conferito alla Banca di Roma, la sentenza ha precisato: "in un contratto tra una grande impresa e le prime cinque banche italiane avente per oggetto un finanziamento di 40 miliardi di lire non si vede come l'espressione in nome e per conto possa ritenersi generica e non, invece, precisa e consapevole manifestazione di volontà espressa da soggetti esperti conoscitori del linguaggio contrattuale. Il mandato è poi provato dalla lettera 3.11.1988 (convenzione interbancaria) dalla Banca di Roma alle altre banche del pool dove la banca di Roma conviene con le altre banche di assumere l'incarico di banca agente anche in nome e per conto delle altre" (pg. 29). Inoltre, la sentenza ha precisato che "nel contratto di finanziamento in premessa si da atto che la Micoperi ha avvertito le committenti estere che i pagamenti sono stati irrevocabilmente delegati come da notifiche in fattura al banco di Roma; dopo la premessa la Banca di Roma, anche in rappresentanza delle altre banche, concede il finanziamento. È chiaro che delegataria o mandataria per l'incasso è solo la Banca di Roma. Proprio per ciò nella coeva convenzione interbancaria le banche convengono che la Banca di Roma sarà banca agente e provvedere, fra l'altro, al riparto pro quota delle quote di capitale rimborsate", (pg. 30 della sentenza). Dunque, conclude la pronuncia, "un rapporto di mandato in capo alla Banca San Paolo-IMI e al Banco di Sicilia c'è, ma in esso queste banche sono mandanti (della Banca di Roma) e non mandatarie (della Micoperi)" (pg. 30), dando poi atto che questo mandato è stato eseguito con l'accredito da parte della Banca di Roma alle altre Banche delle somme di loro pertinenza in data 21 dicembre 1989, con valuta 15 dicembre 1989 (pg. 47 della sentenza).
La trascrizione della motivazione rende chiaro che la Corte milanese, procedendo dalla lettera del contratto, e valorizzando anche la condotta successiva delle contraenti, ha argomentatamente concluso ritenendo, in primo luogo, che le banche conferirono alla Banca di Roma un mandato con rappresentanza.
In secondo luogo, che il mandato in rem propriam all'incasso fu conferito soltanto alla Banca di Roma e, conseguentemente, ha concluso per la qualificazione come atti solutori degli accrediti effettuati in favore delle altre finanziatrici, rispetto alla quale neppure erano ipotizzabili gli ostacoli prospettati dalle istanti (e comunque, per le ragioni svolte nel 3.1.1. incensurabilmente superati in riferimento alla Banca di Roma).
Le doglianze concernenti questa parte della pronuncia non sono state formulate nell'osservanza dei principi sopra enunciati e, in buona sostanza, consistono in una mera critica dell'interpretazione offerta dal giudice del merito.
Il secondo mezzo proposto da Sanpaolo Imi s.p.a. si risolve infatti nella contrapposizione della propria interpretazione a quella affermata dalla Corte territoriale, non censurata specificamente nell'osservanza dei principi sopra enunciati sia in ordine all'esistenza ed al tipo di mandato conferito alla Banca di Roma, sia in ordine al conferimento a quest'ultima da parte di Micoperi di un mandato all'incasso, che, anche per le considerazioni svolte supra (cfr. 3.1.1.) è stata correttamente affermata dalla pronuncia impugnata.
Relativamente alle ulteriori censure svolte con entrambi i mezzi, occorre osservare che le deduzioni con le quali, nel quinto motivo del ricorso R.G. n. 782/04) (pg. 28-30), sono richiamate le circostanze che, con il contratto, i pagamenti erano stato "irrevocabilmente delegati al Banco di Roma" e che questa era stata designata "Banca agente (...) in proprio ed in nome e per conto" prospettano elementi a conforto della correttezza della conclusione della Corte d'appello, in quanto fondata sulla lettera del contratto, la quale rivelava appunto l'esistenza di un mandato tra la Micoperi e la Banca di Roma.
Ebbene, non sussiste affatto la denunciata contraddizione tra le affermazioni che la Banca di Roma aveva assunto "l'incarico di banca agente" anche per le altre e che soltanto la Banca di Roma era mandataria per l'incasso (pg. 31) ed è infondata la censura subito dopo svolta, con la quale le istanti lamentano che la sentenza non ha desunto che l'azione doveva essere rivolta soltanto contro la Banca di Roma (pg. 32), sostanzialmente svolta anche nell'ultima parte del secondo motivo del ricorso R.G. n. 1510/04.
Infatti, dalla configurazione del mandato alla Banca di Roma quale mandato in rem propriam, con la funzione più volte richiamata, la Corte territoriale ha desunto - correttamente, per quanto precisato nell'esame del secondo motivo (3.1.1.) - l'inesistenza dei presupposti per la compensazione e la qualificazione della natura di atto solutorio della vicenda estintiva nei confronti della predetta, indicando che quest'ultima "solo in data 21.12.1989 con valuta 12.12.1989 ha accreditato alle altre banche del pool la quota di rimborso di loro pertinenza" (pg. 47 della sentenza). Relativamente a questa seconda vicenda, le circostanze che la Banca di Roma non aveva titolo perché operasse la compensazione in suo favore ed aveva operato quale mandataria "in nome e per conto" delle altre, rendono chiaro che, in virtù del principio secondo cui gli atti compiuti dal rappresentante sono direttamente ed automaticamente imputati al rappresentato, il pagamento - avente natura solutoria, per quanto sopra esposto - deve ritenersi effettuato in favore delle ricorrenti e, quindi, implicitamente, ma correttamente, senza alcuna contraddizione, sono state considerate beneficiarle e l'azione è stata ritenuta bene proposta nei loro confronti, con conseguente infondatezza delle censure svolte da Sanpaoloimi s.p.a. 7.2.3.- Il sesto motivo è inammissibile.
Le censure svolte con questo mezzo hanno ad oggetto la motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che "la revocabilità dell'incasso del mandatario quale pagamento allo stesso vale, poi, come argomento ulteriore per rigettare l'appello della Banca S. Paolo e del Banco di Sicilia ove si ritenesse che anche queste banche erano mandatarie della Micoperi per l'incasso" (pg. 32), quindi nella parte in cui la pronuncia ha inefficace il pagamento di L. 850 milioni in favore del Banco di Sicilia, anche qualora la stessa fosse stata mandataria per l'incasso. Le ricorrenti svolgono argomenti per contestare che una tale domanda fosse stata proposta e per sostenere che, qualora fosse stata possibile offrire questa configurazione del rapporto, il giudice d'appello avrebbe dovuto esplicitare le ragioni della ritenuta inammissibilità della compensazione in riferimento a detta ipotesi. Senonché, per quanto sopra esposto nell'esame del quinto motivo, la sentenza impugnata ha ritenuto revocabile il pagamento in questione - confermando sul punto la pronuncia del Tribunale -, escludendo che al Banco di Sicilia fosse stato conferito un mandato all'incasso, con conclusione che, come sopra è stato sottolineato, è incensurabile in questa sede.
La Corte milanese, dopo avere deciso della revocabilità dei pagamenti ricevuti dall'unica contraente ritenuta mandataria per l'incasso (la Banca di Roma), ha concluso affermando che detta considerazione "vale, poi, come argomento ulteriore per rigettare l'appello (..) del Banco di Sicilia" (pg. 32).
Dunque, è chiaro che, a conforto del rigetto del motivo di gravame fondato sulla negazione del mandato all'incasso, la pronuncia ha aggiunto - appunto come ulteriore argomentazione - la considerazione dell'insufficienza di detta configurazione a rendere il pagamento immune dalla dichiarazione di inefficacia.
In relazione al motivo in esame, risulta quindi richiamabile il principio in virtù del quale, quando una sentenza è fondata su una duplice ratio decidendi, il rigetto del motivo che riguarda una di esse rende inammissibile l'esame del motivo concernente quella ulteriore, svolta ad abundantiam, in quanto la sua eventuale fondatezza non potrebbe realizzare lo scopo proprio di questo mezzo di impugnazione, il quale mira alla cassazione della sentenza, che non potrebbe invece essere pronunciata, dato che essa rimarrebbe ferma sulla base dell'argomento riconosciuto esatto (per tutte, Cass. n. 12372 del 2006; n. 5493 del 2001).
8.- Le ricorrenti, con il settimo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione degli artt. 1241, 1242, 1243, 1246, 1853 c.c., L. Fall., artt. 56 e 67; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", premettendo che il secondo oggetto dell'azione revocatoria promossa nei confronti dell'ex Banco di Sicilia era costituito dalla compensazione operata da questo tra il credito sorto dal contratto di finanziamento in pool del 3 novembre 1988 e l'importo di L. 925.250.235, pari alla rimessa effettuata dall'Ente porto di Trieste sul conto accesso dalla Micoperi presso il Banco di Sicilia-Filiale di Trieste.
Siffatto versamento fu effettuato il 7 novembre 1989, e cioè il giorno in cui era scaduta e rimasta insoluta la prima rata del finanziamento. Successivamente il Banco di Sicilia trasferì il saldo attivo del conto aperto presso la Filiale di Trieste sul conto aperto presso la Filiale di Milano per il regolamento del contratto di finanziamento in pool, operando la compensazione sino a concorrenza di L. 964.671.563.
La sentenza di primo grado aveva rigettato la domanda ritenendo non provato l'effetto estintivo; la sentenza di appello ha reputato provato detto effetto, rigettando l'eccezione di compensazione sull'assunto che non si tratta di "riscossione di un mandato, ma di accredito di un bonifico ordinato da un terzo, che costituisce sempre pagamento revocabile dal correntista alla banca", richiamando a conforto sul punto Cass. n. 12489 del 2000.
Secondo le ricorrenti, quest'ultima sentenza riguarda una fattispecie diversa.
In quella qui in esame l'Ente porto di Trieste ha effettuato un pagamento mediante rimessa sul conto corrente attivo acceso dalla Micoperi presso la Filiale di Trieste del Banco di Sicilia e, successivamente, il versamento è stato compensato con il debito risultante dal diverso conto accesso presso la Filiale di Milano della stessa banca, a servizio dell'operazione di finanziamento. Pertanto, dalla stessa sentenza di questa Corte n. 12489 del 2000, nonché da quella delle Sezioni unite n. 775 del 1999 - delle quali sono riportate alcuni brani - risulta la ricorrenza dei presupposti della compensazione: l'esistenza di diversi conti su diverse filiali;
il diverso titolo dei contrapposti crediti (da restituzione della prima rata di finanziamento in pool quello della Filiale di Milano e di disponibilità di somme liquide affluite in conto corrente quello verso la Filiale di Milano e di disponibilità di somme liquide affluite in conto corrente quello verso la Filiale di Trieste - conto quest'ultimo coperto); l'inesistenza di artifici sottesi alla compensazione, essendo i crediti contrapposti sorti lo stesso giorno (7 novembre 1989); l'anteriorità dei crediti contrapposti rispetto all'apertura della procedura concorsuale; l'essere i crediti, aventi ad oggetto somme di denaro, liquidi ed esigibili.
8.1.- Il motivo è infondato e deve essere rigettato, anche se la motivazione deve essere integrata e corretta (art. 384 c.p.c., comma 2).
Con il mezzo in esame è posta la questione dei presupposti e dei limiti della compensazione tra conti correnti bancari accesi dallo stesso correntista presso la stessa banca.
In questi termini, come risulta dalla sentenza impugnata, la questione era stata sollevata in primo grado e risolta negativamente dal Tribunale, in quanto "la Banca di Sicilia non aveva provato di essere debitrice della somma a credito della Micoperi derivante da un bonifico effettuato dall'Ente Porto di Trieste, perché non vi era corrispondenza tra l'importo di L. 925.250.235 accreditato dall'Ente Porto di Trieste sul conto presso la filiale di Trieste ed il giroconto di L. 964.671.563 dal predetto conto a quello presso la filiale di Milano a decurtazione del maggior debito per finanziamento (così nella narrativa, pg. 20)".
La sentenza ha deciso il motivo con cui il Banco di Sicilia aveva contestato di non avere offerto la prova dell'eccezione di compensazione, affermando:
"è vero che dai tre documenti prodotti risulta chiaramente l'accredito del bonifico ordinato sul conto corrente presso la filiale di Trieste e il giroconto di maggior importo del predetto conto a quello presso la filiale di Milano a decurtazione maggior debito per finanziamento in pool (docc. 8, 9 e 10 dell'appellante)" (pg. 33).
Tuttavia, secondo la Corte d'appello, "in questo caso l'insussistenza della compensazione è ancor più semplice, non trattandosi di riscossione di un mandato, ma di accredito di un bonifico ordinato da un terzo che costituisce sempre pagamento revocabile del correntista alla banca", richiamando Cass. n. 124898 del 2000.
Ebbene, quest'ultima sentenza non è stata pertinentemente richiamata, in quanto ha deciso la questione dell'ammissibilità della compensazione in senso tecnico all'interno del conto corrente bancario, considerando la rimessa del terzo direttamente atto idoneo a costituire un deposito in favore del correntista, "ovvero, se il conto abbia affidamento della banca e presenti un saldo passivo, a ricostituire la provvista o ad estinguere il debito immediatamente esigibile - dello sconfinamento del fido con effetto propriamente solutorio".
La questione concerne invece i presupposti della compensazione tra i saldi di più conti, ai sensi dell'art. 1853 c.c., non essendo stata dedotta l'esistenza di una disciplina convenzionale derogatoria. Al riguardo, va osservato che questa norma stabilisce che, "se tra la banca e il correntista esistono più rapporti o più conti, ancorché in monete differenti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario", con previsione che, pacificamente, condiziona l'operatività della compensazione alla annotazione in conto (Cass. n. 3447 del 1986; n. 18947 del 2005, anche con riferimento alla rilevanza della comunicazione della annotazione) e, in passato, è stata interpretata nel senso della non necessarietà della chiusura dei conti (Cass. n. 6558 del 1997). Tuttavia, una successiva pronuncia ha ritenuto, implicitamente, necessaria la chiusura dei conti (Cass. n. 4735 del 1998 ); una più recente sentenza, decidendo una fattispecie analoga a quella in esame, valorizzando un diverso profilo, e proprio in considerazione della unità dei conti, ha affermato che "se i conti pur distinti vanno considerati unitariamente, i versamenti provenienti da altro conto intestato allo stesso soggetto non possono avere effetti diversi da quelli effettuati direttamente sul conto scoperto" (Cass. n. 6943 del 2004), concludendo in tal modo per l'assimilazione dell'operazione qui in esame ad una rimessa revocabile. In senso sostanzialmente analogo, da ultimo, è stato affermato che qualora ci si trovi al cospetto di "un'ordinaria operazione di giroconto" da un conto indisponibile ad un conto di corrispondenza ordinario, così da aversi che una somma erogata in via di anticipazione sia riaccreditata in un conto scoperto, una tale operazione non assume "una configurazione meramente contabile", ma ha funzione satisfattoria, in quanto "utilizzato e specificamente imputato a parziale estinzione dello scoperto", escludendo che questa compensazione possa "considerarsi frutto di compensazione in senso tecnico giuridico" (Cass. n. 20101 del 2005).
Alla luce di questa evoluzione, significativamente diretta ad evidenziare la peculiarità dell'operazione in esame, come bene è stato osservato, l'art. 1853 c.c., non può essere interpretato alla lettera, in quanto darebbe luogo alla continua determinazione di un saldo unico, in contrasto con la circostanza che le parti hanno deciso di dare vita a due rapporti formalmente e contabilmente distinti, ciò vieppiù quando, come nella specie, ci si trovi di fronte a conti aperti in filiali diverse della stessa banca. Dunque, deve ritenersi che la norma non deroghi alla regola generale dell'art. 1243 c.c. in ordine alla esigibilità del credito, che è nozione diversa dalla disponibilità, che esprime la facoltà di uno dei soggetti del rapporto di variare il quantum del credito, mentre l'inesigibilità esprime il reciproco divieto dei due soggetti del rapporto di pretendere l'adempimento e, adempiendo, di porre fine al rapporto.
Ciò significa che la compensazione presuppone l'esigibilità dei rispettivi crediti e, quindi, la chiusura dei conti o dei rapporti tra banca e cliente e la norma, come è stato bene osservato, non è in parte qua inutile, in quanto ripetitiva dell'art. 1243 c.c., perché è stata giustificata dall'intento del legislatore di "rimuovere dubbi interpretativi, tenuto conto delle contrastanti opinioni che si erano manifestate, soprattutto sul punto della compensabilità fra depositi a risparmio e crediti della banca, sotto la previgente legislazione".
Pertanto, nella specie, affinché potesse operare la compensazione, occorreva che la banca deducesse e provasse - come non risulta sia accaduto - l'avvenuta chiusura dei conti, con la conseguenza che, in difetto di prova sul punto, correttamente è stato ritenuto che il giroconto non poteva avere effetti diversi da quelli che sarebbero derivati dal versamento effettuato dal terzo direttamente sul conto presso la filiale di Milano, e cioè essere qualificata come rimessa con effetti solutori.
9.- Le ricorrenti, con l'ottavo motivo (ricorso R.G. n. 782 del 2004), denunciano "violazione e falsa applicazione della L. Fall. art. 5 e art. 67, comma 2, artt. 2697, 2727 e 2729 c.c.; omesso esame dei motivi dell'appello incidentale della Banca di Roma, illogica, perplessa e insufficiente motivazione su punti decisivi prospettati dall'appellante, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5". A loro avviso, la Corte territoriale ha correttamente affermato che il curatore aveva l'onere di provare la conoscenza dell'insolvenza, e tuttavia: ha dapprima presunto che il bilancio di esercizio relativo al 1988, approvato dall'assemblea il 14 luglio 1989, depositato alla fine dello stesso mese, fosse "chiaramente confessorio" dello stato di insolvenza della società; quindi, ha presunto che le banche finanziatrici lo abbiano ricevuto dalla debitrice (spontaneamente o dietro sollecitazione);
infine, ha presunto che le creditrici abbiano valutato il documento contabile, acquisendo conoscenza dell'insolvenza della Micoperi. La pronuncia di primo grado è stata appellata con impugnazione incidentale, allo scopo di vedere affermato che la conoscenza dello stato di insolvenza non poteva essere anteriore alla data della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo (5 aprile 1990) ed i motivi di censura sono stati diffusamente esposti.
Secondo le istanti, l'art. 2727 c.c. stabilisce che la presunzione è la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, sicché un patto negoziale quale quello richiamato dalla Corte territoriale - avente ad oggetto l'obbligo della Micoperi di trasmettere il bilancio alla banca agente, e cioè alla Banca di Roma - non può fondare la prova della scientia decoctionis quanto meno alla data del 1 ottobre 1989, in difetto di dimostrazione - non offerta - in ordine sia all'avvenuta trasmissione del documento contabile, sia a sollecitazioni in tal senso ad opera della banca agente o delle altre, vieppiù in quanto la Banca di Roma ed il Banco di Sicilia avevano espressamente dedotto di non averlo conosciuto e che lo stesso non era stato loro inviato.
Dunque, la sentenza ha violato l'art. 2729 c.c., poiché nessuna delle presunzioni è assistita dai requisiti della gravità, precisione e concordanza.
Siffatti requisiti difettano, in primo luogo, nella pretesa "natura confessoria del bilancio", in quanto la perdita di oltre la metà del capitale sociale (indizio di difficoltà, non prova dello stato di insolvenza), la natura delle riserva ed il contenimento del fondo svalutazione crediti in una misura civilisticamente inadeguata, ma fiscalmente consentita, non costituiscono manifestazioni gravi, precise e concordanti dell'impossibilità definitiva del debitore di soddisfare le proprie obbligazioni.
In secondo luogo, mancano anche gli indizi che dovrebbero confortare la presunzione della trasmissione della copia del bilancio alle creditrici e manca ogni indizio che possa far ritenere grave precisa e concordante la fissazione della conoscenza dell'insolvenza alla data del 1 ottobre 1989.
Inoltre, la Corte d'appello ha violato l'art. 2697 c.c., poiché il Commissario straordinario, sul quale incombeva il relativo onere, non ha provato la conoscenza dello stato di insolvenza, non offrendo nessun indizio sul punto, sicché la domanda andava rigettata. Un ulteriore errore della sentenza consiste nella violazione del divieto della praesumptio de praesumpto e nella conseguente illogicità manifesta della motivazione sul punto in esame. Conoscenza dello stato di decozione significa conoscenza della definitiva impossibilità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, che non poteva essere desunta dal bilancio di esercizio, vieppiù in quanto dallo stesso nessun giornalista o osservatore di fatti macroeconomici aveva desunto elementi in tal senso, offrendo la relativa notizia, come invece sarebbe accaduto se ciò fosse stato possibile, tenuto conto delle dimensioni della Micoperi, non essendovi altresì state neppure manifestazioni di sciopero, ne' proclamati "stati di agitazione" del personale, ovvero iniziative dei sindacati.
Peraltro, l'insussistente natura confessoria del bilancio ha costituito soltanto la prima presunzione, alla quale è stata fatta seguire la seconda - pure inesistente - avente ad oggetto la prova della conoscenza del bilancio da parte delle creditrici, ed infine la terza, concernente la data della conoscenza, che la sentenza ha cura di indicare che "non è agevole" riferire ad un tempo anteriore al 7 novembre 1989 e costruisce con il ricorso agli avverbi "prudentemente" e con la "considerazione del periodo feriale", fissandola poi "quanto meno all'1.10.1989".
La sentenza ha costruito una catena di presunzioni e si tratterebbe di un caso tipico di praesumptio de praesumpto che manifesta l'illogicità della motivazione.
Secondo le ricorrenti, sono quindi insuperati gli argomenti svolti nel giudizio di merito, consistenti nella notizia apparsa sul quotidiano "Il Sole 24 ore" del 23 settembre 1989 in ordine alla partecipazione della Micoperi ad una gara di appalto dell'importo di 620 milioni di dollari, sintomatica della sua solidità, mentre le banche, allorché concedono affidamenti non hanno alcun onere di esaminare i bilanci dei propri clienti e la Micoperi non era cliente della Banca di Roma.
Infine, l'indagine sulla scientia decoctionis doveva essere effettuata autonomamente per ciascuna Banca, quindi anche in riferimento al Banco di Santo Spirito.
I pagamenti ricevuti da quest'ultimo sono del 1989 e la revoca ha attinto quelli successivi a 1 ottobre 1989, data questa fissata quale rilevante per il requisito soggettivo dell'azione in riferimento alla Banca di Roma.
La fusione di queste due banche è stata però perfezionata tre anni dopo, con atto per notaio Gennaro Mariconda del 9 luglio 1992. La Banca di Roma s.p.a. deve rispondere quale successore del Banco di Santo Spirito ed è quindi in riferimento a questo che andava verificata la sussistenza della scientia decoctionis. Analoga conclusione può affermarsi per i pagamenti ricevuti dalla Cassa di Risparmio di Roma, che addirittura ottenne i pagamenti nel luglio 1989, mentre per il Banco di Roma detta conoscenza è stata fissata dalla pronuncia al 1 ottobre 1989.
In conclusione, l'argomento utilizzato per il Banco di Roma non poteva concernere le banche che con questo si sono poi fuse. 9.1.- Il motivo è infondato e va rigettato.
9.1.1.- In sintesi, con questo mezzo, le ricorrenti censurano la sentenza anzitutto deducendo che la Corte territoriale ha erroneamente presunto che le banche avevano avuto conoscenza del bilancio, per il solo fatto che il contratto di finanziamento prevedeva l'obbligo della debitrice di trasmetterlo, ritenendo in via presuntiva, altrettanto inesattamente, che detta conoscenza avevano avuto alla data del 1 ottobre 1989. Secondo le istanti, la pronuncia ha erroneamente reputato che il bilancio di esercizio della debitrice fosse valorizzabile allo scopo di desumere la conoscenza dello stato di insolvenza, omettendo di accertare la scientia decoctionis in riferimento a ciascuna banca.
In considerazione del contenuto del motivo, occorre preliminarmente ricordare che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, nel nostro ordinamento non esiste un principio di gerarchia, che ponga la prova per presunzione in una posizione inferiore rispetto alle altre; il giudice del merito può dunque fondare, anche in via esclusiva, il proprio convincimento su tale prova, nell'esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova e controllarne l'attendibilità, scegliendo fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame quelli ritenuti più idonei (ex plurimis, Cass., n. 3837 del 2001; n. 491 del 2000; cfr. anche Cass., n. 6956 del 1995; n. 4078 del 1995; n. 4833 del 1994).
La scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l'esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto, che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità (Cass. n. 11906 del 2003; n. 5526 del 2002; n. 12422 del 2000), non essendo proponibili in questa sede le doglianze dirette a porre in discussione la fondatezza della presunzione e la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (per tutte, Cass. n. 1216 del 2006; n. 3974 del 2002; n. 9015 del 1999; n. 4406 del 1999). 9.1.2.- La conoscenza dello stato di insolvenza del debitore da parte del creditore, della cui dimostrazione è onerata la curatela ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2.
- ancora secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità - sebbene debba essere effettiva e non potenziale, può tuttavia essere provata anche attraverso elementi indiziari aventi i requisiti della gravità, precisione e concordanza, quindi fondata su elementi di fatto che attengano alla conoscibilità dello stato di insolvenza, purché idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva.
La relativa dimostrazione può perciò essere indiretta, e cioè offerta mediante la logica concatenazione di circostanze che, in base al criterio di normalità assunto a parametro di valutazione, consente appunto la prova presuntiva della scientia decoctionis (per tutte, Cass. n. 19894 del 2005; n. 13646 del 2004; n. 1719 del 2001;
n. 7757 del 1997; n. 7298 del 1997).
Questa prova si caratterizza per un intreccio tra il profilo oggettivo della insolvenza ed il profilo soggettivo della sua conoscenza e, non essendo possibile una prova diretta degli stati soggettivi, è imprescindibile fare riferimento, mediante lo strumento delle presunzioni, alla esistenza di segni esteriori dell'insolvenza ed alla loro conoscibilità da parte del convenuto in revocatoria avendo riguardo al parametro astratto del soggetto di ordinaria prudenza ed avvedutezza (Cass. n. 17214 del 2004), accompagnandosi a tale necessità, "quale portato dello strumento utilizzato, l'irrilevanza di tutte le manifestazioni di ingenuità, di sprovvedutezza, di soggettivi errori di percezione attraverso le quali il terzo volesse accreditare, contro ogni ragionevole valutazione delle circostanze e contro ogni evidenza di segno contrario, una condizione di buona fede" (Cass. n. 1719 del 2001). Peraltro, come è stato precisato e va qui ribadito, se, da un canto, nello schema della presunzione non esiste un presunto dovere di conoscere, dall'altro, questo schema permette di valorizzare "regole di esperienze storicamente accertate, e quindi pratiche individuali o collettive realmente seguite in determinati contesti", permettendo di desumere la conoscenza in presenza di "concreti collegamenti" (Cass. n. 13646 del 2004; n. 1719 del 2001; n. 3524 del 2000) tra i sintomi di detta conoscenza ed il terzo, quali, esemplificativamente, la contiguità territoriale con il luogo in cui si manifestano detti sintomi, la occasionalità o la continuità dei rapporti, la loro importanza (Cass. n. 1719 del 2001, ove ulteriori richiami). Questa Corte, ha quindi affermato che in questo ambito si deve dare rilievo anche alla attività professionale esercitata dall'accipiens ed alle regole di prudenza ed avvedutezza che caratterizzano concretamente, indipendentemente da ogni doverosità, l'operare della categoria di appartenenza.
In riferimento alla posizione del banchiere, siffatta qualità soggettiva del creditore non è di per sè sufficiente a fondare la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza del debitore, in considerazione delle regole di prudenza ed avvedutezza che dovrebbero caratterizzarne la condotta (Cass. n. 1719 del 2001), in assenza di sintomi che possano fondarla (Cass. n. 10800 del 2006; n. 4765 del 1998).
Tuttavia, costituisce dato acquisito alla comune esperienza che le banche, in considerazione dell'attività svolta, delle modalità che la connotano, della circostanza che dispongono di operatori professionali qualificati, possono cogliere i sintomi di un dissesto del soggetto finanziato meglio e più tempestivamente di un soggetto non professionale, avendo a disposizione, più facilmente rispetto agli altri creditori, gli strumenti atti ad interpretarli e valutarli (Cass. n. 19894 del 2005; n. 1719 del 2001).
9.1.3.- Tra gli elementi oggettivi che possono assumere rilievo al fine della conoscenza dell'insolvenza deve essere compreso anche il bilancio di esercizio.
La disciplina del bilancio di esercizio delle società di capitali è stata caratterizzata da una evoluzione che permette di affermarne, sotto il profilo giuridico, la funzione informativa in ordine alla composizione ed al valore del patrimonio sociale ed alla capacità economica della società.
In estrema sintesi, va ricordato che nel codice di commercio del 1882 la regolamentazione del documento contabile si risolveva nella prescrizione che esso doveva "dimostrare con evidenza e verità gli utili realmente conseguiti e le perdite sofferte" (art. 176, commi 1 e 2), ed espressiva di una concezione ispirata alla rilevanza della disciplina societaria essenzialmente come regolamentazione dei rapporti privatistici, attenta pressoché esclusivamente ai profili interni del rapporto societario.
Questa disciplina lasciava in ombra, eppure non negava del tutto, la funzione pure già allora propria del bilancio:
offrire anche ai terzi una serie di informazioni sullo stato e sull'andamento dell'impresa.
L'importanza di siffatta finalità fu colta dal legislatore del 1942, mediante l'introduzione nel codice civile della importante specificazione che il bilancio ed il conto dei profitti e delle perdite avrebbero dovuto esporre con chiarezza e precisione la situazione patrimoniale della società, gli utili conseguiti o le perdite sofferte (art. 2423 c.c.).
L'importanza di questa innovazione e l'individuazione della funzione informativa del bilancio era confortata dall'art. 2621 c.c., n. 1 e art. 2435 c.c. che prevedendo, rispettivamente, sanzioni penali a carico di coloro che "nei bilanci o in altre comunicazioni sociali fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero (...) sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime" e l'obbligo della pubblicazione del bilancio la rendevano chiara, rivelando come fosse destinata a spiegarsi non soltanto nei confronti dei soci, bensì della generalità dei terzi, essendo preordinata alla tutela di un interesse generale, presidiato dal carattere imperativo dei precetti di chiarezza e precisione.
Nel quadro della disciplina stabilita dal codice civile del 1942 potevano residuare margini di dubbio sulla effettiva portata della funzione in considerazione della vaghezza dei precetti concernenti la formazione del documento contabile, che sono stati del tutto superati quando, con la novellazione delle norme del codice civile realizzata nel 1974 (L. 7 giugno 1974, n. 216), mediante l'introduzione di nuovi articoli, è stata puntualmente disciplinata struttura e contenuto del conto dei profitti e delle perdite, nonché della relazione degli amministratori, che hanno univocamente confermato e rafforzato l'essenzialità della funzione informativa del bilancio. In questa prospettiva, come bene è stato osservato, la direttiva 25 luglio 1978 n. 78/660 CE ha completato il percorso che ha condotto ad attribuire valore centrale alla funzione informativa del bilancio "in quella logica della contestuale protezione tanto dei soci come dei terzi cui espressamente si richiama l'art. 54, p. 3, lett. g) del trattato istitutivo della Comunità".
Il recepimento delle direttive comunitarie realizzate con il D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127 ha quindi condotto ad una disciplina peculiarmente puntuale e specifica - ribadita ed ulteriormente specificata, da ultimo, con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, anche quanto al contenuto ed alla rilevanza degli adempimenti pubblicitari e delle violazioni delle norme che presiedono la formazione ed il contenuto del documento (artt. 2435 e 2621 c.c.) - in ordine all'informazione che deve essere data con il bilancio, al suo contenuto, alle modalità da osservare nel fornirla. In armonia con questa evoluzione normativa, gli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina hanno inizialmente privilegiato il principio di verità ed una concezione del documento come strumentale alla tutela dei diritti a contenuto patrimoniale dei soci, peraltro progredendo dal rifiuto della sindacabilità delle valutazioni all'affermazione del loro controllo, attraverso il parametro della ragionevolezza.
L'importanza del principio di chiarezza, la sua autonomia ed imperatività - essenziali in vista dell'affermazione della funzione informativa - non sono state invece prontamente colte, sino a dare luogo ad un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, composto dalle Sezioni Unite, con l'enunciazione di una regula iuris che ha affermato la rilevanza di detta funzione.
La sentenza n. 27 del 2000 ha infatti affermato che "la violazione delle disposizioni relative alle modalità di redazione del bilancio (...) rende nulla la delibera di approvazione quando risultino in concreto pregiudicati gli interessi generali tutelati dalla norma" e, per quanto qui interessa, ha fondato siffatto principio proprio sulla essenzialità della funzione informativa non limitata ai soci, sulla sua strumentalità rispetto allo scopo di offrire un'esatta conoscenza della situazione reale della società e di controllare il rispetto sostanziale del principio di verità, appunto perché "tra le funzioni del bilancio c'è quella di fornire ai soci e ai terzi tutte le informazioni prescritte dalla legge", sussistendo dunque un interesse generale a che sia offerta un'informazione chiara e leggibile sull'andamento e sulla situazione patrimoniale ed economica della società (Cass. Sez. Un. n. 27 del 2000).
Il principio secondo il quale la funzione del bilancio di esercizio non è soltanto di misurare gli utili e le perdite dell'impresa al termine dell'esercizio, ma anche di adempiere un compito specificamente informativo in ordine alle condizioni patrimoniali ed economiche della medesima, quindi di fornire sia ai soci sia al mercato tutte le informazioni che il legislatore ha ritenuto al riguardo di prescrivere, ha assunto man mano un ruolo centrale nella disciplina del settore, - affermato anche da successive pronunce (Cass. n. 23976 del 2004; n. 8001 del 2004) - e fonda l'affermazione della idoneità del documento a costituire un elemento in grado di dimostrare la scientia decoctionis, sempre che le risultanze non siano di equivoca interpretazione, ma dimostrino in maniera chiara ed univoca lo stato di insolvenza della società debitrice. In tal senso si è peraltro anche già espressa questa Corte, ritenendo incensurabile l'apprezzamento espresso dal giudice del merito in ordine alla scientia decoctionis dell'accipiens, affermata facendo "leva sui dati del bilancio depositato (...), dai quali emergeva la difficile situazione della società e di cui certamente la banca che aveva concesso alla società medesima ingenti crediti doveva aver preso visione" (Cass. n. 4473 del 1997).
9.1.4.- In applicazione di questi principi, le censure non meritano accoglimento.
La sentenza impugnata ha infatti ritenuto provata la conoscenza del bilancio valorizzando la circostanza che "nel contratto di finanziamento al punto 11 A è previsto l'obbligo della Micoperi di inviare alla banca agente copia (per essa e per le altre banche) del bilancio entro il termine di trenta giorni dalla approvazione" e che, con questo obbligo, "sono dichiarati l'interesse e il diritto delle banche ad averne conoscenza (...)" e "l'interesse contrattualmente tutelato a conoscere tempestivamente il bilancio della finanziata", ritenuto "circostanza grave e precisa che da sola induce logicamente a ritenere che le banche hanno ricevuto copia del bilancio per averla trasmessa spontaneamente la Micoperi (...) o per esservi stata sollecitata dalle banche".
La Corte territoriale, con argomentazioni logicamente coerenti e complete, non si è quindi limitata a valorizzare la mera conoscibilità del bilancio in conseguenza della sua pubblicazione - pure peraltro significativa - ma ha ritenuto che la previsione contrattuale permetteva di desumere ragionevolmente l'avvenuta conoscenza del documento contabile, anche in considerazione dell'importo del finanziamento e della qualità delle parti. La pronuncia ha indicato il criterio di collegamento della conoscenza e le ragioni che - in considerazione della data di approvazione del bilancio e del termine di trasmissione convenuto tra le parti - hanno prudenzialmente fondato la fissazione della data della conoscenza al 31 ottobre 1989, precisando che il contratto prevedeva l'obbligo di trasmissione della copia del bilancio - ed il diritto di ottenerlo - nei confronti di tutte le banche (la copia doveva essere inoltrata alla Banca di Roma "per essa e per le altre banche" è sottolineato a pg. 43), così dimostrando che, contrariamente alla tesi delle ricorrenti, la scientia decoctionis è stata specificamente apprezzata e valutata distintamente in riferimento a ciascuna banca. La scelta dell'elemento posto a base della presunzione ed il giudizio logico con il quale da questo è stata desunta la conoscenza, costituenti apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, sono stati dunque congruamente e logicamente motivati, sicché la doglianza finisce con il risolversi nella prospettazione di una diversa valutazione di merito, senza l'indicazione di quei vizi logici idonei ad individuare l'obbiettiva deficienza del ragionamento presuntivo.
Inoltre, la sentenza non ha neppure violato il divieto della praesumptio de paesumpto, in quanto, una volta ritenuta provata la conoscenza del bilancio, l'affermazione che da questa conoscenza era evincibile la conoscenza dello stato di insolvenza, perché palesata dal documento contabile è, in linea generale, corretta, tenuto conto delle considerazioni sopra svolte, e costituisce una mera implicazione della ritenuta conoscenza del documento contabile, sicché si è al cospetto di un'unica presunzione, sia pure articolata su autonome circostanze di fatto.
La sentenza in esame si è quindi data carico di esporre analiticamente le circostanze che rendevano le risultanze del bilancio di univoca interpretazione, indicando che l'esistenza di una perdita di esercizio di L. 23.522.939.767, a fronte di un capitale di L. 44.524.425.250, la presenza di riserve di composizione particolare, nonché l'adozione di criteri di valutazione di criteri che avevano determinato la costituzione di un fondo svalutazione crediti in una misura civilisticamente inadeguata erano elementi che univocamente potevano determinare in un operatore qualificato la conoscenza dell'insolvenza.
La conclusione così raggiunta è frutto di un apprezzamento di fatto, incensurabile in questa sede, in quanto compiutamente e correttamente motivato, fondato su elementi oggettivi, incontroversi, nella cui valutazione, alla luce dei principi sopra sintetizzati, non è riscontrabile alcuna incongruenza, incoerenza o
contraddittorietà.
Le questioni concernenti la conoscenza dell'insolvenza da parte del Banco di S. Spirito, riferita al tempo dell'incorporazione nella Banca di Roma, così come proposta nei termini sintetizzati nel p. 9, è nuova e non risulta trattata dalla sentenza impugnata. Pertanto, per le argomentazioni svolte nel 4.1.1., avendo il ricorrente proposto detta questione, aveva l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito - negli esatti termini qui posti -, ma anche di indicare, specificamente, in quale atto del precedente giudizio lo avesse fatto, riproducendolo, onde dare modo a questa Corte di controllare la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarla nel merito, sicché dal mancato adempimento di detto onere consegue l'inammissibilità di questo profilo della censura. 10.- Il ricorrente incidentale, con un unico motivo, denuncia "violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67 in relazione agli artt. 1823 e segg. c.c. e art. 183 e 184 c.p.c., contraddittoria ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3 e 5)", deducendo che aveva appellato la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva affermato di aderire all'orientamento secondo il quale ai fini della individuazione delle rimesse revocabili occorre fare riferimento al c.d. saldo disponibile.
In particolare, con il gravame, aveva sostenuto che, appunto in conseguenza della scelta di detto criterio, il Tribunale aveva rigettato la domanda di revoca dei pagamenti in favore del Banco di Santo Spirito e della Cassa di Risparmio di Roma per L. 1.863.638.711, così quantificato in applicazione del criterio della data valuta.
L'istante trascrive quindi le argomentazioni svolte nell'atto di appello, con le quali aveva sostenuto che:
a) doveva aversi riguardo al saldo per valuta;
b) in linea gradata, applicando il criterio del saldo disponibile, "la ricostruzione dei movimenti del conto ai fini della revocabilità delle rimesse deve essere effettuata anche in relazione al tipo di operazione con la quale la rimessa è stata compiuta" e, stante la difficoltà dell'onere probatorio incombente sul curatore, questo "non deve essere ritenuto soccombente per non aver dimostrato una componente costitutiva della domanda", potendo avvalersi "di presunzioni, quale la presunzione che il pagamento coincida o preceda la valuta espressa nel conto";
c) erroneamente il Tribunale aveva ritenuto nuova, quindi inammissibile, la domanda proposta nel corso del giudizio, con la quale aveva chiesto di fare riferimento al saldo disponibile". Il Commissario straordinario osserva che la pronuncia impugnata ha rigettato l'appello incidentale affermando che non erano stati addotti nuovi elementi e che, nella qualificazione della domanda revocatoria come nuova, ovvero come produttiva di una emendatici libelli, occorreva considerare singolarmente i versamenti, non il loro totale. Pertanto, secondo la Corte territoriale, la domanda di revoca del versamento deve intendersi come nuova e inammissibile, qualora la procedura, "mutato il criterio da saldo per valuta a saldo disponibile, (...), pur chiedendo una somma minore, indica un versamento non compreso nell'atto di citazione".
Ad avviso del ricorrente incidentale, questa Corte, con la sentenza n. 2744 del 1994 ha affermato che l'attore in revocatoria deve provare il superamento del limite di disponibilità quale presupposto della revocabilità del pagamento e, tuttavia, non può essere ritenuto soccombente, qualora sussista una oggettiva impossibilità di dimostrare una componente costitutiva della domanda (cioè la ricostruzione anche cronologica dei movimenti del conto), dato che l'onere probatorio deve corrispondere ad un criterio di buona fede e non si può richiedere al revocante di dimostrare situazioni a lui sconosciute, laddove possa avvalersi di presunzioni. Dunque, il giudice di secondo grado doveva ritenere inefficaci i pagamenti dell'importo di L. 1.863.638.711 "effettuati nel medesimo giorno, secondo il criterio del saldo per valuta, quale criterio più aderente a situazioni del genere".
Inoltre, la richiesta di fare riferimento al saldo disponibile non costituisce domanda nuova, in quanto la modificazione del criterio contabile per determinare gli importi revocabili non comporta innovazione del petitum e della causa petendi, poiché l'indicazione dei versamenti effettuati sul conto, analiticamente riportati negli estratti, fa sì che l'indicazione dell'uno o dell'altro non possa essere configurato in detti termini.
La sentenza impugnata ha "in effetti troppo sbrigativamente (...) liquidato il complesso motivo di appello incidentale, ignorando il richiamato dettato del Supremo Collegio e, in particolare, non approfondendo il tema mutatio/emendatio libelli". Il ricorrente incidentale riporta infine una sentenza del Tribunale di Torino, secondo la quale la situazione di conto scoperto va determinata secondo il criterio del saldo disponibile - del quale 0precisa la nozione - sottolineando che, una volta individuate le rimesse revocabili, è irrilevante la provenienza della provvista utilizzata per ridurre lo scoperto.
10.1.- Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato e non merita accoglimento.
10.1.1.- La censura, in larga misura, consiste e si esaurisce nel richiamo del motivo svolto nell'atto di appello, testualmente riprodotto (le pagine da 44 a 52, sino al rigo 11, sono
esclusivamente dedicate alla trascrizione dei motivi di appello). In questa parte, il motivo è manifestamente inammissibile, poiché, secondo un principio consolidato, il ricorrente ha l'onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata. Siffatto onere non può ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, in quanto tale modalità di formulazione del motivo rende impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione (Cass. n. 10420 del 2005;
n. 16763 del 2002; n. 14075 del 2002; n. 4013 del 1998; n. 2749 del 1995).
Nel merito, in riferimento alle doglianze scrutinabili, va osservato che la Corte territoriale, al fine di identificare le rimesse revocabili ha fatto applicazione del principio secondo il quale i versamenti e le rimesse sul conto corrente dell'imprenditore poi fallito sono legittimamente revocabili tutte le volte in cui il conto stesso, all'atto della rimessa, risulti "scoperto", tale dovendosi ritenere sia il conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia quello scoperto a seguito di sconfinamento dal fido accordato al correntista. La pronuncia ha affermato che il giudice di primo grado ha accertato il carattere solutorio delle rimesse avendo riguardo al criterio del saldo disponibile - che ha ritenuto corretto e fatto proprio - in virtù del quale, allo scopo di accertare se il versamento o la rimessa sia destinato al pagamento di un debito verso la banca, ovvero solo a ripristinare la provvista sul conto corrente, occorre fare riferimento all'effettiva disponibilità di denaro liquido da parte del correntista nel momento in cui effettua la rimessa, non al "saldo contabile", che riflette la registrazione delle operazioni in ordine puramente cronologico, ne' al "saldo per valuta", che è effetto del posizionamento delle partite unicamente in base alla data di maturazione degli interessi.
La Corte d'appello ha fatto applicazione di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità (ex plurimis, Cass. n. 24588 del 2005; n. 24084 del 2005;
n. 21083 del 2005; n. 23006 del 2004), non essendo state prospettate ragioni che possano indurre ad una rimeditazione di detto indirizzo o che rendano necessaria una nuova esposizione delle argomentazioni che lo fondano e che il Collegio condivide e fa proprie, essendo palese che asserite ed indimostrate difficoltà probatorie non possono comportare la possibilità di utilizzare un differente criterio che non è idoneo ad evidenziare il carattere solutorio della rimessa. Peraltro, l'indirizzo che qui si conferma ha anche precisato che, sul piano probatorio, poiché non risultano dall'estratto conto l'effettivo saldo disponibile, elementi presuntivi di prova possono desumersi sia dalla data di registrazione in conto delle operazioni - limitatamente a quelle "in avere" del correntista, costituite da versamenti e bonifici in contanti, nonché ai prelevamenti in contanti o a mezzo assegni -, sia dai dati ordinati "per valuta" -, limitatamente ai versamenti in conto di titoli di credito, dovendosi presumere che l'incasso sia avvenuto, quanto meno, alla data della valuta, salva la possibilità, per la banca, di provare che sia avvenuto anteriormente (Cass. n. 2744 del 1994).
Inoltre, è stato anche affermato che l'attore il quale chieda la revoca di rimesse aventi carattere solutorio in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata ha l'onere di dimostrare la cronologia dei singoli movimenti, che non può essere desunta dall'ordine delle operazioni risultante dall'estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà e sconta i diversi momenti in cui, secondo la tipologia delle operazioni, vengono effettuate le registrazioni sul conto (Cass. n. 21083 del 2005). 10.1.2.- Relativamente al secondo profilo della censura, occorre precisare che la Corte d'appello ha esposto che "il Tribunale ha correttamente osservato che, nella qualificazione della domanda revocatoria come nuova o no, devono essere considerati singolarmente gli atti di versamento, non il totale dei versamenti, cosicché quando, mutato il criterio (da saldo per valuta a saldo disponibile), la procedura, pur chiedendo un importo totale minore, fa valere un versamento nuovo non indicato nell'atto di citazione, la domanda di revoca di quel versamento è nuova e inammissibile in mancanza (come nella specie) di accettazione del contraddittorio" (pg. 35-36). Dunque, la sentenza ha affermato che, qualora con l'atto di citazione sia stata chiesta la dichiarazione di inefficacia di alcuni pagamenti (versamenti) puntualmente indicati per cifra e per data, deve qualificarsi come nuova la domanda che abbia ad oggetto pagamenti ulteriori e diversi, con conclusione che si sottrae alle censure proposte dalla ricorrente incidentale.
Secondo il costante indirizzo di questa Corte, si ha infatti mutatio libelli quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatici quando si incida sulla causa petendi, sicché risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere (per tutte, Cass. n. 7524 del 2005).
Nell'identificazione della domanda proposta, occorre quindi considerare quale sia il concreto risultato utile che l'attore intende conseguire tenuto conto dei fatti che lo stesso ha dedotto a fondamento delle sue richieste, in relazione alla ragione ispiratrice della norma che impone all'attore di specificare sin dall'atto introduttivo, a pena di nullità, l'oggetto della sua domanda:
ragione che principalmente risiede nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora che di offrire al giudice l'immediata contezza del thema decidendum).
In riferimento alla domanda avente ad oggetto la revocatoria di pagamenti - termine adottato nella L. Fall., art. 67, comma 2, ma che, trattandosi di operazioni che abbiano avuto svolgimento su di un conto corrente bancario, si traduce negli omologhi "versamenti" o "rimesse" - eseguiti nei confronti di una banca, in applicazione del criterio sopra individuato (del saldo disponibile), è in riferimento ad ognuno che va individuato il carattere solutorio, in quanto destinato a colmare un saldo passivo del conto.
Pertanto, ciascun pagamento di cui si chieda la revoca forma oggetto di una distinta domanda, anche qualora questa, eventualmente, faccia riferimento alle risultanze complessive del conto (Cass. n. 17023 del 2003), con la conseguenza che, qualora l'attore abbia puntualmente specificato il pagamento di cui chiede la revoca, la indicazione in corso di causa di un pagamento del tutto diverso, comportando la necessità di accertamenti in ordine a circostanze diverse rispetto a quello riferite al pagamento originariamente indicato - e cioè alla data in cui è stato effettuato, all'effettività disponibilità di danaro liquido da parte del correntista nel momento in cui è effettuata la rimessa - determina evidentemente l'introduzione di una domanda nuova, come tale inammissibile se - come è incontestato nella specie - non vi sia stata accettazione del contraddittorio. 11.- Il "ricorso incidentale condizionato" proposto dalle ricorrenti principali (R.G. n. 782/04) con il controricorso al ricorso incidentale della Micoperi, "per violazione della L. Fall., art. 67 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 e per omesso esame di punto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5)" in ordine alla scientia decoctionis del Banco di Sicilia (pg. 4 del controricorso al ricorso incidentale), è inammissibile.
Al riguardo, è sufficiente ricordare che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla quale va data continuità, il ricorso incidentale per cassazione deve essere proposto, ai sensi dell'art. 371 c.p.c., comma 2, nel termine di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale e non dalla notifica di un primo ricorso incidentale, atteso che avverso il ricorso incidentale l'art. 371, comma 4, prevede solo la proponibilità del controricorso e non anche di un ulteriore ricorso incidentale in questo contenuto, potendo da ciò derivare una serie indeterminata di ricorsi incidentali tardivi in contrasto con i principi della proponibilità dell'impugnazione incidentale solo dalle parti nei confronti delle quali è stata proposta l'impugnazione principale e della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza (Cass. n. 26084 del 2005 n. 6282 del 2004; n. 11031 del 2003).
12.- In conclusione, i ricorsi, principale ed incidentale, nonché il ricorso incidentale proposto con il controricorso al ricorso incidentale della Micoperi ed il ricorso proposto da SANPAOLOIMI s.p.a., devono essere rigettati.
In considerazione della reciproca soccombenza e della complessità delle questioni sussistono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese di questa fase.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e dichiara compensate tra le parti le spese della presente fase.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2007