Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 20/09/2017 Scarica PDF

Capacità legale e naturale di agire: inadempimento e problemi di responsabilità civile

Gaetano Anzani, Professore a contratto di Istituzioni di Diritto Privato nell'Università di Pisa


Sommario: 1. Il problema della capacità di agire nei due regimi di responsabilità civile. I diversi piani di applicazione degli artt. 2046 e 2 c.c. – 2. La capacità naturale come presupposto presunto della capacità legale ai sensi dell’art. 2 c.c. – 3. Responsabilità da inadempimento ed asserita impossibilità ad obbligarsi dell’incapace legale. – 4. La capacità naturale quale requisito anche per l’imputabilità di un inadempimento. – 5.1 Sull’assenza di una disposizione che sancisca la responsabilità aquiliana vicaria del genitore per l’inadempimento di un debitore legalmente incapace. Giustificazione dell’assenza in caso di annullamento del contratto per minore età. – 5.2 Inutilità o inopportunità di una disposizione omologa all’art. 2048 c.c. in caso di obbligazione contrattuale. Applicabilità dell’art. 2048 c.c. in caso di obbligazione non contrattuale. Applicabilità dell’art. 2047 c.c. in caso di inadempimento di un debitore privo di capacità naturale.


 

1. La responsabilità ex art. 2043 c.c. si fonda pacificamente sulla colpevolezza di chi commette il fatto illecito[1].

La responsabilità ex art. 1218 c.c., invece, ha un fondamento controverso, che per alcuni è soggettivo e per altri oggettivo, ma l’orientamento tradizionale e prevalente ritiene indispensabile un inadempimento colpevole[2].

Qualora si accolga quest’ultima prospettiva, però, occorrerebbe interrogarsi se la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale rimangano o meno distanti sul terreno della condizione del giudizio di colpevolezza, vale a dire per la diversità della capacità di agire, legale in un caso e naturale nell’altro, di cui dev’essere fornita la persona chiamata a rispondere dei danni[3].

I dubbi sulla capacità di agire richiesta al danneggiante dai due regimi di responsabilità, a ben vedere, sono più agevolmente dissipabili se non si cade nell’errore di contrapporre l’art. 2046 c.c., che in materia di responsabilità extracontrattuale collega l’imputabilità di un fatto dannoso alla capacità d’intendere e di volere dell’agente, all’art. 2 c.c., che collega la riferibilità di un atto giuridico alla capacità legale di chi abbia superato una certa età anagrafica (ossia quella dei diciotto anni o quella inferiore prevista da leggi speciali), salve le eccezioni altrove stabilite (per interdizione giudiziale, inabilitazione o nomina di un amministratore di sostegno). L’errore s’anniderebbe nel ritenere che gli artt. 2046 e 2 c.c. seguano linee parallele e dettino distinte regole generali intorno ai presupposti di ciascuna specie di responsabilità, mentre tali disposizioni si collocano su piani del tutto differenti.

Solo l’art. 2046 c.c. attiene ad una responsabilità in un contesto già patologico per la presenza del fatto dannoso, e fissa la condizione del giudizio ex post di colpevolezza in ambito aquiliano. L’art. 2 c.c., invece, attiene (non ad una responsabilità, ed in particolare a quella da inadempimento, bensì) alla legittimazione al compimento di atti giuridici in dinamiche fisiologiche, e permette a chiunque di sapere ex ante se una determinata persona ponga in essere un determinato atto con la prescritta capacità legale[4].


2. L’art. 2 c.c. è l’esito di un’evoluzione storico-normativa[5] che, pur nel contemperamento con esigenze di certezza dei rapporti, ha ormai trasformato l’incapacità legale in strumento al servizio della protezione di soggetti “deboli”, ossia di coloro i quali potrebbero ricevere pregiudizio dalla partecipazione al traffico giuridico per inettitudine a salvaguardare i propri interessi[6].

L’incapace legale è tutelato a prescindere dal possesso in concreto di capacità naturale[7], e l’apparato rimediale – a dispetto della dottrina tradizionale – può essere ricostruito nei termini non tanto di un’invalidità degli atti compiuti in violazione della disciplina sull’incapacità, quanto di una sorta di “prolungamento” del potere di autonomia privata dell’incapace a seguito di tale violazione. Invero, la facoltà offerta all’incapace stesso, o a chi lo rappresenta, di valutare se convenga impugnare l’atto stipulato in difetto di capacità per ottenerne l’annullamento, cioè la facoltà di verificare in via successiva la perdurante rispondenza dell’atto ad un reale interesse dell’incapace (e, quindi, l’opportunità di mantenerne la vincolatività giuridica), si traduce nell’esaltazione dell’autonomia negoziale della persona tutelata[8].

L’incapacità legale è stata pensata preminentemente in una logica di valori patrimoniali. Non a caso, la rigidità dell’istituto, che in origine era estrema, è entrata in frizione con l’imperativo, ancor più pressante dopo l’entrata in vigore della Costituzione, di non mortificare l’incapace con l’impedimento ad assumere scelte oppure, comunque, ad esprimere una volontà concorrente o almeno da tenere in considerazione a fronte di decisioni altrui che lo coinvolgano, soprattutto rispetto ad atti protesi verso lo sviluppo della personalità umana: a tal fine, viene spesso adoperata la categoria della capacità c.d. “di discernimento”, accolta da alcune Convenzioni internazionali[9].

L’art. 2, comma 1, c.c., secondo cui con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa, sembra d’altronde rinviare non solo alla legge scritta, bensì pure al diritto vivente forgiato in accordo all’evoluzione ermeneutica sull’autonomia della persona[10]. «In linea di massima, il principio che si ricava consiste nel richiedere la presenza della capacità d’agire per gli atti che possono pregiudicare un interesse della persona agente, mentre quella qualità non è più necessaria allorché al compimento di certi atti segue sempre la realizzazione di un interesse del soggetto e, comunque, una situazione a lui favorevole»[11]. Ad esempio, è largamente ammessa la legittimazione tanto dei minori quanto di altri incapaci al compimento dei cc.dd. “atti della vita quotidiana”, i quali, benché di natura patrimoniale, sono strumentali all’espressione della personalità di ciascuno senza metterne significativamente a repentaglio il patrimonio[12]; ed in tal senso è stato novellato l’art. 409, comma 2, c.c. con riguardo all’amministrazione di sostegno[13], così da adeguare almeno un settore dell’ordinamento ad un principio ormai condiviso.

Molte regole speciali, però, propiziano un’aderenza tra capacità legale e capacità d’intendere e di volere anche per atti inerenti ad interessi di ordine squisitamente patrimoniale[14].

Il combinato disposto degli artt. 2, comma 1, e 1425, comma 1, c.c. va letto in parallelo con lo speculare art. 428 c.c., richiamato dal comma 2 dell’art. 1425 c.c., sicché la vera regola generale in materia di capacità di agire è incentrata pure per i negozi sulla capacità naturale: è vero che il negozio viziato da incapacità legale è di per sé annullabile, mentre l’annullamento di quello viziato da incapacità naturale è subordinato alla risultanza di un grave pregiudizio per l’autore, nonché alla mala fede dell’altro contraente in caso di contratti, ma tali ulteriori condizioni tutelano l’affidamento altrui in considerazione dell’impossibilità di acclarare l’incapacità meramente naturale tramite il ricorso a sistemi pubblicitari[15]. Da un lato, la capacità naturale è solo presunta fino a prova contraria da una capacità legale attualmente posseduta[16]. Dall’altro lato, la capacità naturale deve formare il sostrato di qualunque eccezionale riconoscimento della capacità legale in capo a chi ne sia di norma ancora sprovvisto[17].

D’altronde, l’art. 1389, comma 1, c.c., secondo cui, «[q]uando la rappresentanza è conferita dall’interessato, per la validità del contratto concluso dal rappresentante basta che questi abbia la capacità di intendere e di volere, avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto stesso, sempre che sia legalmente capace il rappresentato», attesta che la capacità legale è un quid pluris rispetto a quella naturale.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 2 c.c., ancora, l’infradiciottenne ritenuto da una legge speciale abbastanza maturo per la prestazione di determinate attività lavorative, e quindi all’uopo capace, è altresì abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.

Inoltre, il minore di cui venga accertata in concreto la maturità psico-fisica, ossia un’adeguata capacità naturale, può ottenere dal Tribunale, ai sensi dell’art. 90 c.c., l’autorizzazione a contrarre matrimonio. Si tratta di un provvedimento che comporta di diritto, fin da subito, l’acquisto di una capacità “relativa” funzionale alla stipulazione di convenzioni matrimoniali ai sensi dell’art. 165 c.c. e, contestualmente al successivo matrimonio, l’emancipazione ai sensi dell’art. 390 c.c. Ai sensi del comma 3 dell’art. 392 c.c., per di più, il minore emancipato in virtù del matrimonio, appunto in quanto ormai è stato riconosciuto capace d’intendere e di volere, non ricade nel precedente stato di incapacità “assoluta” neppure qualora intervengano vuoi l’annullamento del negozio matrimoniale per una causa diversa dall’età, vuoi lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili, vuoi la separazione personale dei coniugi.

Ai sensi dell’art. 397 c.c., poi, il minore emancipato, quando sia stato autorizzato dal Tribunale all’esercizio di un’impresa commerciale senza l’assistenza del curatore, può compiere da solo anche gli atti di straordinaria amministrazione estranei all’esercizio dell’impresa. E la verosimile ratio di questa disposizione sta nel fatto che l’autorizzazione giudiziale può essere concessa soltanto se, ancora una volta, l’Autorità Giudiziaria abbia appurato che quel minore è dotato di un’adeguata capacità naturale.

Infine, l’art. 1426 c.c., per il quale il contratto stipulato da un minore non è annullabile se questi ha occultato mediante raggiri la propria minore età, potrebbe spiegarsi con una presunzione juris et de jure di capacità d’intendere e di volere, ritenuta in re ipsa nella complessa attività decettiva di chi pure è legalmente incapace[18]. I raggiri del contraente sulla propria condizione di incapace legale giustificano solo per il minore un’eccezione alla regola dell’annullabilità del contratto, giacché la presunzione di uno sviluppo temporaneamente incompleto delle facoltà intellettuali della persona (ora) infradiciottenne può essere smentito da ragioni del tutto fisiologiche e, quindi, cede di fronte alla realtà manifestata con il dolo, mentre nel diverso caso dell’interdetto viene supposto il difetto tendenzialmente permanente ed irredimibile dello sviluppo intellettivo[19].

Ciò premesso, la rigidità dell’art. 2 c.c. può essere almeno ridimensionata finanche con riguardo agli atti puramente patrimoniali, perché ha spesso l’inconveniente di offrire protezione a soggetti incapaci in senso legale anche qualora fossero in concreto capaci in senso naturale.

 

3. Una responsabilità da inadempimento dell’incapace legale non può essere esclusa per impossibilità ad obbligarsi dell’ipotetico responsabile.

Anzitutto, l’incapace non versa in uno stato di impossibilità giuridica a stipulare contratti, compresi quelli ad efficacia obbligatoria, perché il contratto comunque stipulato dall’incapace – come si è poco sopra detto – o è solo annullabile nell’interesse dell’incapace medesimo e potrebbe rimanere efficace in mancanza di un’impugnazione, o non è annullabile dall’incapace qualora questi abbia artificiosamente occultato la propria minore età. L’incapace potrebbe, semmai, trovarsi in un’impossibilità (non giuridica, bensì) di fatto a negoziare con controparti che non volessero esporsi al rischio dell’annullamento del contratto ad istanza dell’incapace o di chi lo rappresenti.

Peraltro, nonostante la materiale difficoltà a stipulare contratti, l’incapace sarebbe ostacolato, appunto, soltanto nel concludere contratti, non nell’obbligarsi o nel rimanere obbligato, giacché il contratto è unicamente una tra più fonti abilitate dall’ordinamento a generare obblighi primari suscettibili di inadempimento e, dunque, di dar luogo alla connessa responsabilità. Si pensi all’incapace legale, ma capace d’intendere e di volere, che risulti obbligato a causa di un illecito aquiliano, il quale produce un’obbligazione risarcitoria passibile a sua volta di inadempimento[20].

Il che vale più in generale per il compimento di qualunque altro negozio giuridico.

Inoltre, va rilevato che l’incapace legale potrebbe divenire debitore in assenza di una personale condotta giuridicamente rilevante, ad esempio attraverso un atto del suo rappresentante, in qualità di beneficiario di una negotiorum gestio, oppure in virtù di un arricchimento senza causa[21].

 

4. L’art. 2 c.c. può riguardare la legittimazione ad obbligarsi, ossia l’idoneità a compiere un atto che sia fonte stabile di obbligazioni, nonché – sebbene la questione appaia controversa – la legittimazione ad adempiere qualora l’attività solutoria consista in atti giuridici, specialmente se negoziali, e non in comportamenti o in fatti materiali[22].

Tuttavia, di certo l’art. 2 c.c. non riguarda l’inadempienza ad un’obbligazione già sorta.

La suddetta disposizione, pertanto, non impone il requisito soggettivo della capacità legale, oltre all’oggettiva mancanza o inesattezza della prestazione, al fine di integrare il titolo di un’eventuale responsabilità contrattuale. Ciò però non dimostra, di per sé, che l’inadempimento debba essere qualificato da capacità naturale piuttosto che da capacità legale, perché l’art. 2 c.c. non richiede di necessità quest’ultima, ma neppure la estromette claris verbis quale sottinteso di una responsabilità.

Il rilievo risolutivo è il più evidente, tanto da essere quasi scontato, ed è la constatazione che un giudizio di colpevolezza, se non si vuole scadere nella finzione, non può che poggiare sulla sola capacità d’intendere e di volere[23], com’è sancito espressamente in area extracontrattuale dall’art. 2046 c.c.[24].

Quella dottrina che argomenta dall’art. 1191 c.c. l’inapplicabilità dell’art. 2046 c.c. nel campo della responsabilità da inadempimento, infatti, incorre in un triplice travisamento. In primo luogo, l’art. 1191 c.c. stabilisce l’irripetibilità della prestazione eseguita dall’incapace in adempimento dell’obbligazione, mentre non si riferisce all’antitetica ipotesi del suo inadempimento[25]. In secondo luogo, l’art. 1191 c.c. contempla senz’altro una situazione di incapacità legale, ma non è pacifico che valga parimenti per l’incapacità naturale, sebbene un’interpretazione estensiva risulti preferibile (poiché la doverosità dell’adempimento, comunque, implica assenza di pregiudizio anche per il debitore affetto da incapacità naturale)[26]. In terzo luogo, l’art. 1191 c.c. non ha portata generale, perché va ritenuto estraneo all’esecuzione di prestazioni ripetibili che comportino scelte discrezionali, potenzialmente pregiudizievoli per il debitore[27].

Una disposizione analoga all’art. 2046 c.c. manca per l’inadempimento, che nondimeno è un illecito (sia pur) specifico[28], probabilmente perché nel Codice la centralità riservata al contratto tra tutte le fonti delle obbligazioni ha condizionato la disciplina dell’attuazione del rapporto e della responsabilità da inadempimento. Al pari delle parti di un contratto, il debitore viene cioè considerato, in linea di massima, soltanto come soggetto fornito di capacità legale o sostituito da un rappresentante legalmente capace. Pertanto, capita che previsioni come quella dell’art. 1769 c.c., alla cui stregua «[i]l depositario [legalmente] incapace è responsabile della conservazione della cosa nei limiti in cui può essere tenuto a rispondere per fatti illeciti» (ossia purché, proprio ai sensi dell’art. 2046 c.c., sia capace d’intendere e di volere), siano lette come eccezioni ad un’opposta regola di irrilevanza dell’incapacità naturale ai fini della responsabilità contrattuale. «Ma il collegamento dell’eventuale «esonero» da responsabilità alla non «imputabilità» della causa del non adempimento e, conseguentemente, dell’affermazione della responsabilità alla «imputabilità» di tale causa, chiarisce senza ombra di dubbio che il presupposto, sul quale tutto il fenomeno ruota, è anche questa volta il possesso da parte del debitore (o di chi per lui) delle qualità psichiche necessarie a rendere plausibile una valutazione del suo comportamento sulla base di un qualche metro, che, d’altra parte, non può che essere quello indicato nell’art. 1176, cioè quello della diligenza ...»[29].

Il solvens sarebbe rimproverabile per colpa solo qualora non abbia osservato la diligenza da lui esigibile, ma una condotta diligente è esigibile soltanto da chi sia capace d’intendere e di volere. E questa capacità, a maggior ragione, è indeclinabile per rimproverare al solvens un dolo.

Insomma, la parvente sufficienza della capacità legale nella responsabilità da inadempimento si spiega, per un verso, con la corrispondenza effettiva o empiricamente presunta che sussiste tra incapacità legale ed incapacità naturale e, per altro verso, con l’esclusione degli incapaci legali dalla gestione dei loro interessi economici e, quindi, pure dall’attuazione potenzialmente inadempiente dei rapporti obbligatori.

Una precisazione, però, è opportuna a proposito dell’interferenza degli istituti di rappresentanza degli incapaci legali sul regime della responsabilità da inadempimento. Si è detto che lo stato soggettivo di incapacità legale è funzionale, tra l’altro, alla protezione anche preventiva del patrimonio di coloro che – di solito, a causa di un’incapacità d’intendere e di volere – siano reputati inadatti a partecipare al traffico giuridico, tanto da dover essere rappresentati o coadiuvati da terzi (i genitori, il tutore, il curatore o l’amministratore di sostegno) nel compimento degli atti che li riguardino. Tuttavia, gli effetti giuridici dell’attività realizzata dal rappresentante in nome e per conto dell’incapace vengono riversati automaticamente nella sfera di questi, il quale – salve le azioni esperibili contro il rappresentante per mala gestio – potrà risultare oberato (non solo forse da una responsabilità precontrattuale[30], ma anche) da una responsabilità per inadempimento nei confronti del creditore[31].

In conclusione, la responsabilità da inadempimento implica non la capacità legale del debitore, bensì, come per la clausola generale in materia di fatto illecito, la capacità naturale del danneggiante, ossia dello stesso debitore o di chi avrebbe dovuto adempiere in nome e per conto di lui[32].

 

5.1 L’incapacità meramente legale, ai sensi dell’art. 1191 c.c., non ostacola l’adempimento del debitore. Pertanto, bisogna chiedersi perché all’art. 2048 c.c., che sancisce la responsabilità solidale del genitore per il fatto illecito del figlio minore dotato di capacità naturale, non si abbini una regola che, sempre in area aquiliana, istituisca la responsabilità vicaria del genitore in quanto tale – non in quanto rappresentante ex lege – anche qualora un minore capace d’intendere e di volere non esegua, o esegua inesattamente, la prestazione da lui dovuta[33].

La questione non sussiste se il contratto stipulato da un minorenne senza inganni, o al più con la semplice dichiarazione di essere maggiorenne, viene annullato per difetto di capacità, perché la caducazione degli effetti obbligatori del negozio esclude la possibilità di una responsabilità da inadempimento del minore e, quindi, anche il problema di una responsabilità extracontrattuale vicaria del genitore.

In caso di annullamento, chi ha contrattato con l’incapace legale può subire solo la lesione dell’affidamento riposto in un contratto stabilmente efficace. Tuttavia, l’orientamento prevalente e condivisibile nega qualsivoglia responsabilità del minore ai sensi dell’art. 1338 c.c., così come dell’art. 1337 c.c., in quanto essa, da un lato, sarebbe incoerente con la ratio di protezione dell’incapace che pervade l’art. 1425, comma 1, c.c. e, dall’altro, menomerebbe la libertà dell’impugnativa negoziale[34].

Al massimo, «[u]na responsabilità residua sarebbe salutare quando la colpa si combini con motivi spregevoli (prepotenza, disprezzo degli altri, ecc.)»[35].

 

5.2 L’assenza di una disposizione omologa all’art. 2048 c.c., invece, potrebbe essere avvertita qualora il contratto concluso dal minore inadempiente, per una ragione o per un’altra, mantenga efficacia. Nondimeno, l’impressione di una asimmetria tra le discipline del fatto illecito e dell’inadempimento, anche sotto questo profilo, è niente più che una suggestione.

Si rifletta sulle alternative prospettabili.

In una prima ipotesi, il minore naturalmente capace potrebbe aver assunto l’obbligazione con modalità che integrano un illecito precontrattuale, in particolare con raggiri mediante i quali sia stata occultata la minore età. Chi abbia contrattato con il minore, sebbene la stabile vincolatività del contratto sia fuori discussione ai sensi dell’art. 1426 c.c., potrebbe subire la lesione dell’affidamento (non nella stabile efficacia del contratto, bensì questa volta) nell’avere una controparte legalmente capace nella fase esecutiva del negozio: la dipendenza del soddisfacimento del credito da un debitore minorenne, ancorché adempiente, potrebbe ad esempio comportare farraginosità per il necessario coinvolgimento del suo rappresentante, maggiori costi nella gestione del rapporto obbligatorio, o inferiori utili dovuti a modalità esecutive della prestazione – specialmente se infungibile – differenti da quelle che sarebbero state altrimenti possibili[36].

Pertanto, a prescindere dall’annullabilità del contratto ad istanza del contraente raggirato per vizio determinante del consenso ai sensi dell’art. 1439 c.c., lo stesso sorgere del rapporto obbligatorio concreterebbe l’evento lesivo, mentre l’eventuale inadempimento sarebbe per il creditore solo una causa ulteriore di produzione o aggravamento di un danno. E quest’ultimo – a prescindere dalla condotta adempiente o inadempiente del debitore legalmente incapace – sarebbe risarcibile, perché non sembrano esserci controindicazioni né alla diretta responsabilità precontrattuale del minore ai sensi dell’art. 1337 c.c., né di riflesso alla responsabilità extracontrattuale vicaria e solidale del di lui genitore in virtù di una piana applicazione dell’art. 2048 c.c.

In una seconda ipotesi, al contrario, il minore naturalmente capace potrebbe essere divenuto debitore per vicende considerate lecite e, a prescindere dalla precarietà del vincolo negoziale a causa della facoltà d’impugnazione rimessagli, senza ledere alcun affidamento altrui sulla propria capacità, neanche in ordine alla susseguente attività solutoria.

L’art. 2048 c.c. sarebbe allora inapplicabile, ma non si dovrebbe desiderare una regola gemella che intensifichi la tutela del creditore a fronte di un effettivo inadempimento. Il creditore, fin dalla conclusione del contratto, sapeva che nell’attuazione del rapporto avrebbe avuto come controparte un minore e, quindi, deve accettarne tutti i rischi (anche perché, ad esempio, avrebbe potuto cautelarsi con una fideiussione, la quale ai sensi dell’art. 1939 c.c. è valida nonostante l’invalidità dell’obbligazione principale per incapacità del debitore): l’unica responsabilità configurabile è quella da inadempimento dello stesso minore.

Insomma, se la fonte dell’obbligazione inadempiuta dal minore fosse un contratto, una disposizione che sancisse in area aquiliana la responsabilità per fatto altrui del genitore sarebbe o inutile o inopportuna.

Una tale disposizione sarebbe auspicabile, invece, se un minore dotato di capacità naturale si rendesse inadempiente ad un’obbligazione non contrattuale, giacché il creditore non avrebbe potuto soppesare, e quindi non avrebbe accettato, il rischio di una controparte legalmente incapace. Ad ogni modo, la mancanza di un’apposita previsione legislativa può essere ovviata con l’applicazione, estensiva o quantomeno analogica[37], dell’art. 2048 c.c.[38].

Se poi il debitore, al di là della sua capacità legale, risultasse incapace d’intendere e di volere al momento dell’inadempimento, si potrebbe applicare l’art. 2047 c.c., in via estensiva o quantomeno analogica, nei confronti del «sorvegliante», affinché questi risponda a titolo extracontrattuale del danno patito dal creditore[39].



[1] Sul ruolo della culpa nel diritto romano, al contrario, le opinioni non sono concordi, ma di certo nell’evoluzione storica, fino ad arrivare ai nostri giorni, l’elemento soggettivo è stato valorizzato sempre più.

È probabile che in origine la lex aquilia, il cui ambito applicativo era tra l’altro circoscritto all’ipotesi tipica della lesione della proprietà, configurasse una responsabilità puramente oggettiva, suscettibile di essere esclusa solo dal caso fortuito o dalla forza maggiore quali fattori di carattere oggettivo in grado di interrompere il nesso eziologico.

In epoca giustinianea, a seguito delle interpolazioni operate dai compilatori del Corpus iuris sui testi classici, la tutela aquiliana fu estesa ai casi di lesione di ulteriori diritti reali e, inoltre, la colpa comparve come elemento soggettivo della responsabilità.

La colpa, così, venne ritenuta il presupposto della responsabilità extracontrattuale dai glossatori del Basso Medioevo, che si richiamavano al Digesto.

I giusnaturalisti dei secoli XVII° e XVIII°, poi, proclamarono che un principio di ragione, pur in assenza di basi testuali nel diritto romano, imponeva di risarcire ogni danno cagionato con dolo o con colpa, tanto in caso di lesione di un diritto patrimoniale, quanto in caso di lesione del corpo, della reputazione o del decoro (ossia, con linguaggio odierno, di un diritto della personalità).

Le progressive acquisizioni teoriche appena accennate, con diverse sfumature, hanno infine influenzato le codificazioni moderne. Il Codice francese detta in materia di responsabilità extracontrattuale una clausola generale ispirata dalla Scuola del diritto naturale. Il BGB tedesco, invece, disciplina la responsabilità extracontrattuale secondo l’impronta tipizzante dell’eredità romanistica, ma l’incidenza del giusnaturalismo è visibile nell’allargamento della protezione aquiliana ai diritti della personalità.

V. G. Rotondi, Dalla “lex Aquilia” all’art. 1151 cod. civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Riv. dir. comm., 1916, I, 942; Id., Dalla “lex Aquilia” all’art. 1151 cod. civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Riv. dir. comm., 1917, I, 236; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, III, 1, Fonti e vicende dell’obbligazione, Milano, 1954, 37 ss.; F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, Gli atti unilaterali e i titoli di credito. I fatti illeciti e gli altri fatti fonte di obbligazioni. La tutela del credito e l’impresa, 3a ed. agg. a cura di N. Zorzi Galgano, Padova, 2015, 120 ss.

[2] Per un excursus storico ed una panoramica sulle differenti impostazioni dogmatiche, già sotto il previgente Codice Civile, G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209, 313, 417; nonché, sotto il vigente Codice, G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1954, 595; M. Giorgianni, L’inadempimento. Corso di diritto civile, Milano, rist. 1970, 188 ss.; C.A. Cannata, Dai giuristi ai codici, dai codici ai giuristi (Le regole sulla responsabilità contrattuale da Pothier al codice civile italiano del 1942), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, 993; L. Mengoni, La responsabilità contrattuale, in Jus, 1986, 87; G. Santoro, La responsabilità contrattuale: il dibattito teorico, in Contr. e impr., 1989, 1; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile. Fatti illeciti. Inadempimento. Danno risarcibile, 3a ed., Milano, 2005, 165 ss.; L. Cabella Pisu, La nozione di impossibilità come limite della responsabilità del debitore e La causa non imputabile, in Tratt. della resp. contr., diretto da G. Visintini, I, Inadempimento e rimedi, Padova, 2009, 201, 229; M. Franzoni, L’illecito, in Tratt. della resp. civ., diretto da M. Franzoni, 2a ed., I, Milano, 2010, 1267 ss.; F. Piraino, Sulla natura non colposa della responsabilità contrattuale, in Eur. e dir. priv., 2011, 1019.

Molte dispute traggono spunto dalle oscillanti interpretazioni delle fonti romanistiche, su cui M. Talamanca, voce Colpa civile (Diritto romano e intermedio), in Enc. Dir., VII, Milano, 1960, 517.

I tentennamenti accademici si comunicano alla giurisprudenza: v. soprattutto la pur datata rassegna offerta da F. Galgano, La responsabilità contrattuale: i contrasti giurisprudenziali, in Contr. e impr., 1989, 32.

[3] Accenna al problema A. Toscano, Responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 1956, II, 238.

La questione della capacità di agire indispensabile ai fini di una responsabilità da inadempimento era esplicitamente affrontata nell’Avant-projet per la riforma del diritto francese delle obbligazioni, il cui art. 1340-1 stabiliva per entrambe le specie di responsabilità civile una regola di indiscriminata irrilevanza dell’incapacità naturale. L’Avant-projet de réforme du droit des obligations (Articles 1101 à 1386 du Code civil) et du droit de la prescription (Articles 2234 à 2281 du Code civil), presentato al Ministro della Giustizia francese dal Prof. P. Catala il 22 settembre 2005, è pubblicato nella versione originale in Eur. e dir. priv., 2006, 241.

[4] A fronte dell’art. 2 c.c., la storia dell’art. 428 c.c. è quella «di un’eccezione al sistema di capacità-incapacità legale della persona, un’eccezione che si è tentato – o, forse, si dovrebbe dire auspicato – di trasformare in regola alternativa. Ma l’eccezione era funzionale e assolutamente coerente con il sistema di riferimento: la perfetta antinomia capacità-incapacità legale, indispensabile per razionalizzare e semplificare la condizione del soggetto di diritto su basi di certezza destinate a garantire la sicurezza del traffico giuridico. Ma anche l’interpretazione dell’art. 2046 c.c. ha sofferto – in tempi più e meno recenti – di questa logica. Non sono mancate – e si possono trovare tuttora – letture della norma che ne registrano il dato letterale in chiave di esclusione – e non di affermazione – dei presupposti dell’imputabilità: ne sono sintomo evidente le letture dell’art. 2046 c.c. in chiave di “esimente” da responsabilità. Quasi che l’incapacità di intendere e di volere sia anche qui, in negativo, l’eccezione alle regole che descrivono la condizione del soggetto legalmente capace e non la capacità di intendere e di volere, in positivo, la condizione rilevante nell’ambito dell’illecito civile» (così F. Giardina, Incapacità naturale e regole di responsabilità civile, in Scritti in onore di M. Comporti, a cura di S. Pagliantini-E. Quadri-D. Sinesio, Milano, 2008, 1516).

[5] In generale, P. Stanzione, voce Capacità. I) Diritto privato, in Enc. Giur. Treccani, V, Roma, 1988, 7 ss.

[6] L’art. 414 c.c., infatti, consente l’interdizione giudiziale di coloro che, per abituale infermità di mente, siano «incapaci di provvedere ai propri interessi». Esulano da questo contesto l’interdizione legale, che ha una funzione squisitamente afflittiva nei confronti del condannato all’ergastolo o alla reclusione non inferiore a cinque anni per delitto non colposo (artt. 32 e 33 c.p.), e l’incapacità del debitore dichiarato fallito, che ha la funzione di evitare pregiudizi alle ragioni dei creditori (art. 42 Legge Fallimentare). In proposito, M. Giorgianni, voce Volontà (Diritto privato), ora in Raccolta di scritti. Itinerari giuridici tra pagine classiche e recenti contributi, Padova, 1996, 296 ss.

[7] F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 9a ed., Napoli, 1966 (rist. 1971), 34 ss.

[8] F. Giardina, La condizione giuridica del minore. L’incapacità del minore: dalla tutela individuale alla protezione di un soggetto “debole”, Napoli, 1984, passim; Ead., La persona fisica, in Diritto civile, diretto da N. Lipari-P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, I, Fonti, soggetti, famiglia, t. 1, Le fonti e i soggetti, Milano, 2009, 280 ss. V. anche E. Del Prato, in Tratt. del contr., diretto da V. Roppo, IV, Rimedi-1, a cura di A. Gentili, Milano, 2006, 213 ss.

In termini più generali, con riguardo ad ogni ipotesi in cui la legge prevede l’annullabilità anziché la nullità di un atto, M. Giorgianni, op. ult. cit., 346 ss.

[9] La spinta sociale alla rivisitazione delle regole inerenti ai rapporti tra genitori e figli minori è emblematica in tale direzione, ed è sfociata sia nella riforma del diritto della famiglia nel 1975 (su cui F. Giardina, I rapporti personali tra genitori e figli alla luce del nuovo diritto di famiglia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1977, 1352), sia in successivi interventi legislativi (su cui F. Giardina, “Morte” della potestà e “capacità” del figlio, in Riv. dir. civ., 2016, 1614 ss.). Limitando lo sguardo al Codice Civile, basti pensare all’attuale versione degli artt. 146, 250, 273 e 315 bis c.c.

Per ulteriori esemplificazioni relative ad atti che ineriscono ad interessi esistenziali dell’incapace legale, G. Anzani, Capacità di agire e interessi della personalità, in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 509.

Sulla capacità di discernimento, P. Stanzione, op. cit., 23 ss. Tuttavia, non sembra possibile sostenere – come fa P. Stanzione, I contratti del minore, in Eur. e dir. priv., 2014, 1239 ss. – che rispetto alle situazioni giuridiche esistenziali, le quali afferiscono alle scelte attinenti strettamente alla persona, titolarità ed esercizio sarebbero divenuti inscindibili, tanto da rendere ormai inutile la distinzione tra i due concetti e da doversi solo appurare se un soggetto, e specialmente un minore, sia o meno in grado di autodeterminarsi. Se così fosse, infatti, si dovrebbe arrivare ad affermare, coerentemente quanto assurdamente, che solo un soggetto capace di autodeterminarsi acquista la titolarità (oltre che la facoltà di esercizio) dei diritti inviolabili spettanti alla persona umana, mentre un soggetto privo di autodeterminazione non ne sarebbe titolare e, quindi, non sarebbe “persona”, così come non avrebbe neppure un interesse legittimo di diritto privato che vada tenuto in adeguata considerazione da chi sia chiamato ad assumere scelte che lo riguardino. Al contrario, tutti devono essere riconosciuti titolari di diritti inviolabili, comprese le persone non in grado di autodeterminarsi, sebbene in questo caso ci si debba poi chiedere in quale modo ed in quale misura tali diritti siano esercitabili da un rappresentante per consentire la migliore realizzazione anche della persona incapace.

[10] S. Patti, in La protezione dei dati personali, Commentario al D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 («Codice della privacy»), a cura di C.M. Bianca-F.D. Busnelli, Padova, 2007, t. 1, XXXV, sub art. 23, 545.

[11] Così P. Stanzione, voce Capacità. I) Diritto privato, cit., 10. «Se, dunque, al minore pertiene in ambito patrimoniale, seppure prevalentemente per soddisfare esigenze esistenziali, un certo spazio di autonomia, forse, non sembra eccessivo discorrere di una capacità contrattuale del minore», con conseguente ridimensionamento della regola secondo cui gli atti compiuti dal minore sono di per sé annullabili (così P. Stanzione, I contratti del minore, cit., 1245).

[12] Il panorama delle legislazioni straniere e dei progetti extranazionali di riforma o di codificazione conferma l’opportunità di questa soluzione.

Ai sensi del § 105a BGB, «[s]e un maggiorenne privo della capacità negoziale pone in essere un negozio della vita quotidiana che sia suscettibile di essere eseguito con mezzi di modesto valore economico, il contratto da lui concluso, con riguardo alla prestazione e alla controprestazione eventualmente pattuita, si considera efficace non appena la prestazione e la controprestazione vengano eseguite. La 1a proposizione non si applica in presenza di un pericolo notevole per la persona o per il patrimonio dell’incapace». E, ai sensi dell’art. 106 BGB, «[i]l minore che abbia compiuto il settimo anno d’età è dotato di una capacità negoziale limitata, in conformità a quanto stabilito dai §§ 107-113». Una traduzione italiana di gran parte dell’articolato del BGB riformato è curata da G. De Cristofaro, in C.-W. Canaris, La riforma del diritto tedesco delle obbligazioni, in I quaderni della Rivista di diritto civile, Padova, 2003, 99 ss.

Ai sensi dell’art. 150, comma 3, del Code Européen, «[i]l contratto concluso da un incapace non è ... annullabile ... altresì se si tratta di uno degli atti usuali della vita quotidiana che comportano un esborso modesto e vengono effettuati con l’impiego di denaro o di mezzi provenienti da attività lavorative consentite all’incapace oppure messigli lecitamente a disposizione affinché egli abbia a disporne liberamente». La versione italiana del Code Européen, elaborato senza investiture ufficiali dall’«Accademia dei Giusprivatisti Europei» di Pavia con il coordinamento del Prof. G. Gandolfi, è pubblicata in Eur. e dir. priv., 2002, 275.

[13] L’enunciato di tale disposizione è il seguente: «[i]l beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana».

[14] M. Giorgianni, op. ult. cit., 299 ss.

[15] Pertanto, non sembra che nel nostro sistema le due incapacità di agire si presentino del tutto distinte sia sul piano dogmatico sia su quello pratico: contra, P. Stanzione, voce Capacità. I) Diritto privato, cit., 12.

[16] Già G.P. Chironi, La colpa nel diritto civile odierno, Colpa contrattuale, 2a ed., Torino, 1897, 320 ss., il quale, infatti, solo per questa ragione esclude la responsabilità da inadempimento del debitore che sia incapace legale.

Contra, M. Franzoni, Il danno risarcibile, in Tratt. della resp. civ., diretto da Franzoni, 2a ed., II, Milano, 2010, 873 ss., secondo cui, a proposito dell’art. 2 c.c., non si dovrebbe parlare di presunzione di capacità naturale, perché semplicemente «[i]l fatto che il legislatore ha fissato in diciotto anni l’acquisto della capacità d’agire ... [s]ignifica che nella tecnica legislativa la normalità sostituisce la specificità, che porterebbe alla necessità di accertare la capacità personale caso per caso. Qui si tratta di ratio legis desunta dal calcolo delle probabilità ...».

[17] Ciò sembra possibile appunto per l’accostabilità delle due forme di capacità di agire, non in ragione della loro irriducibilità: contra, P. Stanzione, op. ult. cit., 12.

[18] In tal senso, già G.P. Chironi, op. cit., 325 ss., il quale precisa che al dolo non si può equiparare la colpa grave del minore; nonché F. Messineo, voce Annullabilità e annullamento (Diritto privato), in Enc. Dir., II, Milano, 1958, 476, secondo cui varrebbe la massima malitia supplet aetatem.

Non a caso, l’impugnabilità del contratto da parte di un minore che non abbia occultato con raggiri la propria minore età, o che abbia soltanto dichiarato di essere maggiorenne, ha come modello normativo i corrispondenti artt. 1305 e 1307 del Code Civil, i quali – in conformità all’adagio minor restituitur non tamquam minor, sed tamquam laesus – compaiono tra le disposizioni dedicate non all’action en nullité relative, bensì all’action en rescision pour lésion: in proposito, G. Baudry-Lacantinerie-L. Barde, Delle obbligazioni, in Trattato di Diritto Civile diretto da G. Baudry-Lacantinerie, vol. III, trad. sulla 3a edizione originale in corso di stampa da una Società di Giuristi, a cura di P. Bonfante-G. Pacchioni-A. Sraffa, Milano, s.d., 300 ss., 330 ss.

[19] In dottrina, già G.P. Chironi, op. cit., 326.

In giurisprudenza, Cass. 4 luglio 2012, n. 11191, in Giur. it., 2013, 1544, nella quale la disposizione dell’art. 1426 c.c. è appunto ritenuta di carattere eccezionale e, pertanto, inestensibile agli interdetti ed agli inabilitati.

[20] F. Giardina, Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. Significato attuale di una distinzione tradizionale, Milano, 1993, 194 ss., la quale menziona anche l’ipotesi di uno «scambio» non contrattuale innominato.

[21] G. Baudry-Lacantinerie-L. Barde, op. cit., III, 337 ss.; Id., Delle obbligazioni, in Trattato di Diritto Civile diretto da G. Baudry-Lacantinerie, vol. IV, trad. sulla 3a edizione originale in corso di stampa da una Società di Giuristi, a cura di P. Bonfante-G. Pacchioni-A. Sraffa, Milano, s.d., 472.

[22] È controverso se il requisito della capacità sia necessario o superfluo nell’adempimento di un’obbligazione, ed eventualmente quale sia il tipo di capacità richiesta. Si tratta di un problema che evoca l’altra questione dell’adempimento come «atto dovuto». Sulle diverse tesi in merito, L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, III, L’attuazione, Milano, rist. 1964, p. 35 ss.; G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, 325 ss., 385 ss.; P. Rescigno, Incapacità naturale e adempimento, Napoli, 1950, 88 ss.; R. Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 116 ss., 130, 145 ss.; Id., voce Adempimento (Diritto civile), in Enc. Dir., I, Milano, 1958, 556 ss.; R. De Ruggiero F. Maroi, Istituzioni di diritto civile, II, Diritti di obbligazione e contratti-Tutela dei diritti, 9a ed. interamente riveduta da C. Maiorca, Milano, 1961, 63 ss.; M. Giorgianni, voce Pagamento (Diritto civile), in Noviss. dig. it., XII, Torino, 1965, 329 ss.; A. di Majo, voce Pagamento (Diritto privato), in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1981, 549 ss.; U. Natoli, Adempimento, atto dovuto, negozio giuridico, in Diritti fondamentali e categorie generali. Scritti di Ugo Natoli, a cura di L. Bigliazzi Geri-U. Breccia-L. Bruscuglia-F.D. Busnelli, Milano, 1993, 637; M. Bessone-A. D’Angelo, voce Adempimento, in Enc. Giur. Treccani, I, Roma, 1988, 2 ss.; G. Cian, voce Pagamento, in Dig. Disc. Priv. – Sez. Civ., XIII, Torino, 1995, 234 ss.

Sotto il previgente Codice, sulla natura dell’adempimento, G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, 7a ed., VII, Firenze, 1910, 127 ss.; G. Andreoli, Contributo alla teoria dell’adempimento, Padova, 1937, passim; sull’adempimento quale «atto dovuto», v. in particolare F. Carnelutti, Prova testimoniale del pagamento e Negozio giuridico, atto illecito, atto dovuto, in Studi di diritto processuale, Padova, 1925, 226, 249; Id., Lezioni di diritto processuale civile. Processo di esecuzione, III, Padova, 1931, 194 ss.; Id., Sistema di diritto processuale civile, I, Funzione e composizione del processo, Padova, 1936, 60 ss.

Nella dottrina francese, G. Baudry-Lacantinerie-L. Barde, Delle obbligazioni, in Trattato di Diritto Civile diretto da G. Baudry-Lacantinerie, vol. II, trad. sulla 3a edizione originale in corso di stampa da una Società di Giuristi, a cura di P. Bonfante-G. Pacchioni-A. Sraffa, Milano, s.d., 533 ss.

Invero, occorre respingere soluzioni estreme e riconoscere che l’adempimento, a seconda dei casi, integra talvolta un atto negoziale e talvolta un atto meramente materiale: V. Calderai, Adempimento e inadempimento, in Diritto civile. Norme, questioni, concetti, I, Parte generale-Le obbligazioni-Il contratto-I fatti illeciti e le altre fonti delle obbligazioni, a cura di G. Amadio-F. Macario, coordinato da L. Balestra-G. Gitti-E. Navarretta-M. Orlandi-C. Scognamiglio-C. Tenella Sillani-G. Villa, Bologna, 2014, 378 ss.

[23] Nella dottrina penalistica, F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Milano, 2001, 305 ss.; T. Padovani, Diritto penale, Milano, 1999, 240 ss.

[24] Sull’estensibilità dell’art. 2046 c.c. a tutti gli atti giuridici anche leciti, F. Santoro-Passarelli, op. cit., 110 ss.

Contra, P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Tratt. di dir. civ., diretto da R. Sacco, Le fonti delle obbligazioni, 3, Torino, 1998, 673; V. Di Gravio, Prevedibilità del danno e inadempimento doloso, Milano, 1999, 80 ss., il quale reputa che la responsabilità contrattuale non sia la reazione dell’ordinamento ad un illecito del debitore, e dunque che l’irrilevanza dello stato soggettivo dell’inadempiente si giustifichi perfettamente «ove si consideri che l’obbligazione risarcitoria fa parte della disciplina complessiva dell’obbligazione così come venne assunta; sicché la verifica sulla capacità va fatta con riguardo all’epoca dell’assunzione e non già a quella dell’esecuzione», sebbene l’incapacità naturale del debitore possa esonerarlo da responsabilità qualora integri un’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile.

[25] U. Majello, Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, in Rass. dir. civ., 1988, 118.

[26] Per la riferibilità dell’art. 1191 c.c. alla sola incapacità legale, A. di Majo, op. cit., 551 ss.

Per l’equiparazione dell’incapacità naturale a quella legale, invece, R. Nicolò, voce Adempimento (Diritto civile), cit., 558 ss.; M. Giorgianni, op. ult. cit., 323 ss.; G. Cian, op. cit., 238 ss.; F. Galgano, Trattato di diritto civile, II, Le obbligazioni in generale. Il contratto in generale. I Singoli contratti, 3a ed. agg. a cura di N. Zorzi Galgano, Padova, 2015, 44 ss.; V. Calderai, op. cit., 387.

[27] G. Cian, op. cit., 238 ss.; V. Calderai, op. cit., 387 ss.

[28] Già G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, 7a ed., IV, Firenze, 1908, 24 ss., lasciava intendere che l’incapacità naturale è sufficiente per l’imputabilità di un inadempimento, e quindi anche necessaria, proprio sulla base della riconducibilità dell’inadempimento nel genus del fatto illecito.

[29] Così L. Bigliazzi Geri-U. Breccia-F.D. Busnelli-U. Natoli, Diritto Civile, III, Obbligazioni e contratti, Torino, 1992, 95.

Qualora il fondamento della responsabilità da inadempimento, invece, fosse avulso dalla colpa del responsabile, l’incapacità naturale determinerebbe nondimeno un’impossibilità oggettiva della prestazione: G. Osti, Revisione critica, cit., 219 ss.

[30] G. Visintini, La reticenza nella formazione dei contratti, Padova, 1972, 285 ss.

Il rappresentato, almeno in generale, non può invece essere responsabile degli illeciti extracontrattuali commessi dal rappresentante in suo nome e per suo conto, perché i principi sulla rappresentanza legale si riferiscono all’attività negoziale e non ai fatti illeciti: P.G. Monateri, op. cit., 933 ss.

[31] G.P. Chironi, op. cit., 326.

Contra, nel senso di una diretta responsabilità da inadempimento del solo rappresentante verso il creditore, L. Barassi, op. cit., 300, secondo cui «[i]l minore di età, se glielo consente una sufficiente capacità di intendere o di volere, e magari anche l’interdetto che si trovi in un periodo transitorio di lucido intervallo sarebbero astrattamente suscettibili di essere imputati di colpa, se sanno che un’obbligazione a loro carico esiste e che questa deve essere eseguita. Ma non ne deriverebbe la loro responsabilità, perché chi li rappresenta li sostituisce integralmente, anche quanto all’esecuzione delle obbligazioni. ... Semmai essa sarà di chi li rappresenta. Solo chi, come rappresentante legale di un incapace, ne amministra il patrimonio risponde come risponderebbe il titolare, se fosse capace, della propria inadempienza (cfr. art. 320, 357)».

[32] Ad ogni modo, pur volendo ritenere che nel campo della responsabilità da inadempimento sia irrilevante l’incapacità naturale del debitore o di chi per lui dovrebbe adempiere, bisogna osservare che «anche nel campo della responsabilità aquiliana il limite di imputabilità previsto dall’art. 2046 è inapplicabile alle ipotesi di responsabilità oggettiva fondate su situazioni in cui la colpa non svolge alcun ruolo, neppure esterno alla fattispecie dannosa» (così U. Majello, op. cit., 119), come nel caso dell’art. 2049 c.c.

[33] Il problema è sollevato da L. Barassi, op. cit., 299, secondo cui non rimane che applicare al debitore incapace la regola generale circa la responsabilità soggettiva per inadempimento; nonché da F. Giardina, op. ult. cit., 194 ss.

[34] R. Sacco, Il contratto, in Tratt. di dir. civ. italiano, diretto da F. Vassalli, VI, t. 2, Torino, 1975, 921 ss.; Id., in R. Sacco-G. De Nova, Il Contratto, II, in Tratt. di dir. civ., diretto da R. Sacco, Le fonti delle obbligazioni, 3a ed., 1, Torino, 2004, 600 ss.; E. Del Prato, op. cit., 213 ss.

Contra, F. Benatti, La responsabilità precontrattuale, Milano, 1963, 58 ss.; F. Messineo, Il contratto in genere, in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu-F. Messineo, XXI, t. 1, Milano, 1968, 362, che invoca l’art. 1337 c.c.; G. Visintini, op. ult. cit., 273 ss., la quale ritiene responsabile non solo il minore, ma anche l’interdetto capace d’intendere e di volere.

[35] Così R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, op. cit., II, 246, il quale pensa a casi come quello del minore teppista che convochi un taxi solo per burla.

[36] Contra, F. Carresi, Il contratto, in Tratt. di dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu-F. Messineo, continuato da L. Mengoni, XXI, t. 2, Milano, 1987, 718 ss.; C.M. Bianca, Diritto Civile, III, Il contratto, Milano, 2000, 177, secondo cui la non impugnabilità del contratto a causa dell’incapacità legale del minore escluderebbe ogni danno per la controparte.

[37] La riflessione dottrinale ha superato il postulato di una lacuna che – quale condicio juris dell’analogia – andrebbe solo constatata, nonché la stessa possibilità di distinguere tra interpretazione estensiva, diretta ad accertare una norma esistente, ed integrazione o autointegrazione dell’ordinamento mediante analogia, dirette a creare una norma nuova: F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, 3a ed., Roma, 1951, 85 ss.

L’interpretazione estensiva e quella analogica, in fondo, costruiscono il sistema attraverso un processo strumentalmente e funzionalmente unitario, perché l’interprete viene chiamato «ad integrare l’immanente portata storica, logica ed assiologica implicita nell’astratta ipotesi normativa» grazie ad «un continuo passaggio dall’analisi alla sintesi, dalla considerazione degli elementi costitutivi del caso alla ricerca di uno o più principî idonei ad intenderlo e quindi a disciplinarlo, dall’induzione alla deduzione»: l’impareggiabile ruolo dell’interprete è testimoniato dalla giurisprudenza, nella quale l’analogia è menzionata come espediente linguistico per argomentare una soluzione, comunque ritenuta preferibile, che non ammetterebbe alternative plausibili o la cui negazione sarebbe marchianamente ingiusta (così N. Lipari, Morte e trasfigurazione dell’analogia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011, 1, spec. 4 ss.). Qualcosa di simile potrebbe riscontrarsi negli impeghi della categoria dell’«abuso del diritto»: A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in Riv. dir. civ., 2012, I, 297.

Se l’«intenzione del legislatore» di cui all’art. 12 delle «Disposizioni sulla legge in generale» non ha nulla di effettivamente psicologico e non può che essere una metafora, in realtà l’interprete è vincolato «al valore dell’eguaglianza, alla supposizione di un “legislatore ragionevole”, dalla cui volontà esulino disparità di trattamento fini a se stesse». Da un lato, il giudice deve «figurarsi e amministrare il complesso delle disposizioni legislative vigenti come immune da discriminazioni che non appaiano, in base ad obiettive differenze tra fattispecie, giustificabili». Dall’altro, una formale lacuna si conferma non indispensabile per scatenare il ragionamento analogico. Così D. Carusi, «Ensajo sobre a cegueira». L’analogia come misura del giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 271, spec. 275.

La moderna coscienza giuridica ha ormai maturato l’idea che il giudice non sia solo la bouche qui prononce la parole de la loi. Tuttavia, taluno vede la funzione giudiziale non nell’ideazione ex novo, bensì nella scoperta di una regola implicita nel sistema alla cui stregua rendere giustizia. Per un verso, «[l]e eventuali valutazioni degli interessi in gioco, che orientino il giudice nella scelta fra diverse soluzioni interpretative, tutte coerenti con il dettato legislativo, sono pienamente compatibili con ... la sua funzione». Per altro verso, «il dettato legislativo rappresenta l’invalicabile limite oltre il quale il giudice non può spingere le proprie valutazioni circa gli interessi cui prestare protezione». Così F. Galgano, La giurisprudenza fra ars inveniendi e ars combinatoria, in Contr. e impr., 2012, 77, spec. 84 ss., 87, 89.

[38] Contra, ma solo per l’asserita irriducibilità dell’inadempimento al genus del fatto illecito, V. Di Gravio, op. cit., 81.

[39] Contra, in virtù di una semplice presa d’atto della collocazione sistematica dell’art. 2047 c.c., V. Di Gravio, op. cit., 81.


Scarica Articolo PDF