CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/11/2017 Scarica PDF

I contratti finalizzati al trasferimento d'azienda prima del concordato preventivo o dell'adozione di strumenti negoziali di composizione della crisi

Giorgio Barbieri, Avvocato in Reggio Emilia


Sommario: 1. Definizione dell’ambito di indagine; 2. La prassi in tema di cessione di azienda nel mutato contesto storico economico della gestione delle crisi d’impresa; 3. Crisi d’impresa ed obiettivi normalmente perseguiti da un possibile investitore interessato al rilievo dell’azienda; 4. La disciplina rilevante applicabile: le norme civilistiche 5. La responsabilità del cessionario d’azienda per i debiti inerenti l’azienda ceduta; 6. Cessione di (rami di) azienda e piani attestati; 7. Cessione d’azienda e accordi di ristrutturazione dei debiti; 8. Cessione di azienda e concordato preventivo; 9. Conclusioni. 

 

 

1. Quello della predisposizione di contratti volti a determinare il trasferimento d’azienda ante procedura di concordato preventivo od ante adozione di strumenti negoziali di composizione della crisi di impresa è un tema che incuriosisce sotto un duplice profilo.

In primo luogo, perché nella prassi l’utilizzo di contratti traslativi d’azienda ante procedura concordataria, come strumento per la soluzione della crisi, è alquanto desueto, per non dire anomalo: quasi qualcosa da evitare.

In secondo luogo, perché si tratta di un tema che non solo non è stato esaminato dalla letteratura giuridica in materia di azienda e di crisi di impresa, ma che non risulta neppure trattato dal formante giurisprudenziale, se non per aspetti - quali quelli della revocabilità dei contratti traslativi dell’azienda e quello dei possibili riflessi penali conseguenti al loro perfezionamento - che si mostrano irrilevanti ai fini dell’esame che si intende svolgere nelle pagine che seguono. Esame che si propone di accertare la (eventuale) utilità, efficienza e congruità, alla luce delle norme applicabili, di un contratto traslativo d’azienda nella soluzione della crisi dell’impresa destinata a trovare attuazione, successivamente la stipula di quel contratto, nell’ambito di una procedura concordataria, piuttosto che in un piano attestato di risanamento ovvero in accordi di ristrutturazione dei debiti.

 

2. E’ un dato di fatto che, guardando alla prassi operativa, storicamente questa abbia sempre immaginato l’istituto della cessione dell’azienda del debitore che si accinge ad entrare in una procedura concorsuale concordataria come qualcosa da collocare per lo più in fase di esecuzione e quale effetto della stessa, prevedendo invece per il tempo anteriore alla sua apertura l’utilizzo di uno strumentario contrattuale composto:

- da un lato, da accordi ad efficacia prettamente obbligatoria (per lo più, affitto dell’azienda) volti ad allocare la detenzione del complesso aziendale presso il candidato e futuro acquirente;

- dall’altro, da accordi o atti - più o meno vincolanti per l’impresa in crisi e il possibile acquirente (contratti preliminari, opzioni di vendita o acquisto, proposte irrevocabili di vendita o acquisto) - finalizzati alla cessione dell’azienda, di cui sia stata previamente trasferita la detenzione, nell’ambito o all’esito, appunto, dell’intervenuta (nel frattempo) procedura concorsuale minore.

Per contro – sempre come risulta dall’osservazione della prassi – occorre constatare come oggigiorno quello del rilievo di aziende (o rami d’azienda) di proprietà di imprese in crisi rappresenti un mercato assolutamente florido, i cui attori, a dispetto di quanto avveniva in passato, non si identificano più soltanto negli ex soci, negli amici degli ex soci dell’impresa in crisi o negli imprenditori concorrenti della stessa, ma sono piuttosto investitori, per lo più finanziari, spesso altamente qualificati e professionali, alla ricerca di possibili forme di investimento ad alta (od auspicabilmente alta) redditività.

Ed ancora, guardando all’odierno quadro normativo, ma restando comunque ancorati alla prassi operativa, non si può omettere di considerare come la disciplina delle offerte concorrenti, racchiusa nell’art. 163-bis L.F., abbia reso meno attraente lo strumentario negoziale di cui si è detto più sopra - articolato nella sequenza affitto/obbligo di acquisto dell’azienda - a tutto vantaggio di soluzioni che consentono all’investitore di conseguire ugualmente la proprietà economica del complesso aziendale che intende acquisire, attraverso operazioni capaci di evitare le interferenze provenienti da altri eventuali interessati alla medesima operazione (senza per ciò elidere la possibile competitività fra proposte concorrenti).

 

3. Preso atto di quanto appena detto, può allora essere utile, per affrontare in modo sistematico il tema in esame, scinderlo in due passaggi distinti e logicamente in sequenza fra loro:

- il primo volto a comprendere se la stipula di contratti traslativi dell’azienda ante procedura, in presenza di una situazione di crisi dell’impresa cedente, rappresenti, alla luce del contesto normativo di riferimento, uno strumento concretamente utilizzabile per la soluzione di quella crisi (anche in termini di utilità, da intendersi come rapporto fra costi/benefici);

- il secondo finalizzato ad individuare le migliori tecniche di predisposizione dei contratti traslativi dell’azienda, per il più soddisfacente conseguimento del risultato voluto.

Ed ugualmente, soprattutto ove si adotti un approccio al tema caratterizzato da pragmaticità, appare utile anche domandarsi cosa generalmente voglia, nei fatti, l’investitore che intenda acquisire un’azienda che appartiene ad un’impresa in crisi.

Tentando, allora, di dare subito risposta a quest’ultima questione, si può affermare che fra le molte esigenze che emergono dalla pratica, ve ne sono alcune che paiono ricorrere sempre (ciascuna delle quali corrispondente ad un effettivo e pressante bisogno di un possibile investitore).

Queste sono:

(i) acquisire al più presto il controllo gestionale dell’azienda, ad evitare che lo stato di crisi ne mini in modo grave, quando non irreparabile, l’avviamento;

(ii) segregare, per quanto possibile, i beni costituenti l’azienda, onde metterli al riparo da azioni individuali dei creditori dell’impresa in crisi;

(iii) rendere quanto più stabile l’operazione voluta:

(a) in fase di suo perfezionamento, eliminando la possibilità di interferenze di terzi, specie nell’ipotesi in cui l’operazione sia già stata progettata e “montata”;

(b) nella fase di gestione dell’azienda, avendo riguardo al periodo precedente il suo trasferimento, per evitare atti gestori incongruenti con quest’ultimo e pregiudizievoli per il futuro cessionario;

(c) rispetto al possibile successivo fallimento dell’impresa in crisi ed al conseguente (possibile, quando non probabile) esperimento di azioni revocatorie;

(iv) evitare di essere coinvolto come corresponsabile nella commissione di reati fallimentari posti in essere dall’imprenditore in crisi o dai suoi amministratori; e da ultimo, ma non certo per importanza;

(v) non essere sommerso dal peso di debiti di cui non si conosca previamente l’entità e/o la cui entità ecceda la capacità di sostenimento attribuibile all’azienda target e di cui l’acquirente debba farsi carico in forza della sua acquisizione.

 

4. Se poi si considerano i bisogni appena elencati alla luce del quadro normativo che interessa la crisi dell’impresa, si può osservare che molti di questi trovano i loro diretti referenti all’interno di disposizioni della legge fallimentare. Referenti che - in un contesto più giuridico che economico - non sono tanto (o comunque soltanto) connessi alla gravità della crisi in parola, quanto – concretamente – allo strumento che l’impresa cedente intende adottare per, idealmente, risolverla.

Non v’è dubbio, infatti, che a ciascuno di tali strumenti corrispondano effetti e regole diverse, rispetto ai quali deve appunto valutarsi l’utilità, l’efficienza e la congruità della stipula di un contratto traslativo d’azienda ante procedura, come mezzo per dare soddisfazione a quei bisogni di un possibile investitore di cui si è detto più sopra.

In questa prospettiva è del tutto ovvio che le norme della legge fallimentare a seconda delle ipotesi chiamate ad applicarsi non possano non essere (ed anzi debbano essere) lette in modo sinottico rispetto a quelle diverse disposizioni che pure sono destinate a trovare applicazione nella fattispecie di volta in volta in esame: fra queste rientrano – naturalmente – quelle (od almeno alcune fra quelle) in tema di cessione di azienda ed in primis – anche e soprattutto in relazione all’ultimo dei bisogni poc’anzi segnalati – l’art. 2560, secondo comma, c.c., dettato in tema di corresponsabilità del cessionario per i debiti del cedente inerenti l’azienda ceduta e sorti anteriormente al trasferimento, nel caso – pressoché sempre ricorrente ai fini della nostra indagine – di cessione di azienda commerciale.

 

5. Vale la pena, per quanto si dirà più avanti, attardarsi un momento su questa norma. Ciò, non tanto per evidenziare che essa non esaurisce il novero delle disposizioni dalle quali, in materia di cessione d’azienda, può scaturire una responsabilità del cessionario per debiti del cedente anteriori al trasferimento (valga su tutti l’esempio dato dall’art. 2112 c.c. ovvero, in materia fiscale, dall’art. 114 D.lgs. n. 472/1997,s.m.i.)[2]; né per sottolinearne la natura pacificamente inderogabile o, ancora, per ricordare come la stessa debba essere letta - secondo quanto ha ribadito di recente la giurisprudenza di legittimità[3]- nel senso di ritenere la responsabilità del cessionario rigorosamente circoscritta solo a quei debiti che risultano dai libri contabili obbligatori del cedente[4], senza che l’eventuale conoscenza degli stessi da parte del cessionario (derivante da fonti diverse) rilevi ai fini della sua responsabilità[5].

Ragionando intorno all’art. 2560 c.c. nel contesto del discorso che si sta facendo, si crede, piuttosto, possano essere sviluppate con una certa utilità almeno tre considerazioni.

(A) La prima muove dalla constatazione che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ricostruiscono la responsabilità del cessionario ai sensi dell’art. 2560, secondo comma, c.c., in termini di accollo cumulativo ex lege[6].

A ben vedere, si tratta di una ricostruzione che rischia, tuttavia, di essere nominalmente fuorviante, essendo preferibile vedere nella responsabilità del cessionario una ipotesi di solidarietà[7] diseguale (con carattere di sussidiarietà)[8] che fa carico al cessionario in funzione di garanzia di un debito che è altrui (ovvero del cedente) e che - in difetto di una pattuizione in forza della quale il cessionario succeda in quel debito al cedente - altrui rimane[9].

In altri termini, pare convincente ritenere che la norma disciplini il solo lato esterno dell’obbligazione - quello cioè verso i creditori terzi - e che, senza nemmeno toccare il profilo successorio, non preveda affatto(né fornisca indicazioni su) chi, nei rapporti fra cedente e cessionario, di quella obbligazione debba sopportare il peso: cosicché la norma finisce, dunque, per risultare neutra rispetto all’esistenza o meno di un rapporto interno di successione nel debito[10].

Ed allora, o si ritiene che il debito fra i contraenti passi al cessionario come componente dell’azienda, aderendo alle teorie che qualificano l’azienda come universalità di diritto e, coerentemente, vi ricomprendono tutti i relativi debiti e crediti[11]; o, altrimenti, in difetto di un patto convenzionale di accollo, non sembra sia possibile parlare di vera e propria assunzione del debito da parte del cessionario (laddove, dunque, solo in presenza di un simile patto si spiegherebbe quella parte del primo comma della norma in cui si prevede, anche con riguardo ad aziende non commerciali, la possibile liberazione del cedente, senza effetti sulla estensione dell’obbligo del cessionario)[12].

È facile poi intuire come a quanto appena detto - nonostante il sapore puramente teorico - facciano seguito implicazioni pratiche non trascurabili.

Ed infatti:

(i) determinare se vi sia assunzione o meno del debito da parte del cessionario dell’azienda significa, innanzitutto, cogliere l’esatta configurazione del tipo di solidarietà cui la legge viene a dar vita e così, ad esempio, individuare quali siano gli effetti di una rinuncia volontaria del creditore al proprio credito verso il cedente[13], ovvero comprendere se il creditore abbia la facoltà di scegliere ad libitum a quale dei debitori in solido rivolgersi per ottenere il pagamento dell'intero[14]. Ed ancora, significa comprendere chi, fra cedente e cessionario, in caso di pagamento fatto al creditore, abbia (o meno) azione di regresso verso l’altro[15], nonché, sotto altro profilo, come debba essere contabilizzato (nello stato patrimoniale o nei conti d’ordine) il debito del cedente e (forse, per quanto detto) del cessionario;

(ii) più a monte, poi, determinare se vi sia assunzione o meno del debito da parte del cessionario impone al redattore del contratto di trattare il tema, chiarendo, nei rapporti interni:

- in primo luogo, chi debba sopportare i debiti antecedenti al trasferimento;

- in secondo luogo, di quali debiti concretamente si tratti.

Occorre infatti al riguardo capire se il riferimento debba essere inteso solo ai debiti disciplinati dall’art. 2560, secondo comma, c.c., (ed eventualmente agli altri di cui il cessionario risponda ex lege) oppure, come frequentemente si legge nei contratti, a tutti i debiti inerenti l’azienda (situazione, questa, che rischia di verificarsi – non si sa quanto consapevolmente – tutte le volte in cui nella consistenza aziendale vengono inclusi debiti e crediti); con l’ulteriore problema, in questa seconda ipotesi, di comprendere se la pattuizione in forza della quale il cessionario si accolla, per così dire, tutti i debiti sia tale - sotto il profilo della determinatezza o della determinabilità dell’oggetto - da ingenerare validamente ed efficacemente una sua responsabilità verso i creditori terzi esorbitante rispetto a quella tratteggiata dall’art. 2560 c.c.[16].

(B) Una volta accertato che in forza dell’art. 2560, secondo comma, c.c., il cessionario d’azienda risponde indefettibilmente dei debiti del cedente previsti da questa disposizione, v’è da credere che - ed è questa la seconda considerazione che si vuole svolgere – in relazione alla conseguente responsabilità del cessionario, gli strumenti di composizione della crisi predisposti dall’ordinamento siano in qualche modo compatibili con una cessione d’azienda (preventiva) soltanto:

- qualora le norme applicabili a quello specifico strumento prevedano deroghe a quanto disposto dal secondo comma dell’art. 2560 c.c.; ovvero

- in assenza di deroghe all’art. 2560, secondo comma, c.c., laddove l’ammontare dei debiti di cui il cessionario debba rispondere sia sostenibile avendo riguardo al valore del complesso aziendale oggetto di cessione e possa quindi essere dedotto (economicamente) dal prezzo per l’azienda ceduta (o se si preferisce essere allocato definitivamente sul cedente, debitore originario)[17].

Con il viatico rappresentato da quest’ultima conclusione, non sembra allora errato affermare che, avendo a mente la stipula di contratti traslativi dell’azienda:

(i) in presenza di uno stato di crisi che l’impresa cedente intenda risolvere utilizzando piani attestati o accordi di ristrutturazione dei debiti, sotto il profilo degli effetti scaturenti dall’art. 2560, secondo comma, c.c., la situazione non differirà - se non in termini di opportunità fattuale - da quella prospettabile in ipotesi di cessioni aziendali fra imprese in bonis;

(ii) la situazione sarà invece completamente diversa (oltre che nel fallimento) nel concordato preventivo, sia esso con cessione dei beni - in forza del richiamo contenuto nell’art. 182, quinto comma, L.F., all’art. 105, L.F.[18] [19] - o in continuità.

Pur in mancanza di una espressa disposizione di legge, deve infatti ritenersi che la soluzione valevole per il concordato preventivo con cessione dei beni non possa non trovare ugualmente applicazione anche laddove la cessione dell’azienda in esercizio si inserisca all’interno di un piano concordatario c.d. “in continuità”[20], sia questa diretta (ma allora oggetto di cessione potrà essere soltanto un ramo d’azienda) o indiretta.

Una simile conclusione, invero, si impone non solo per la sua coerenza con l’intero sistema concorsuale, poiché agevola la vendita di complessi aziendali e ne massimizza il valore di realizzo nell’ambito di ciascuna specifica procedura prevista da quello stesso sistema, ma anche perché:

- applicando il secondo comma dell’art. 2560 c.c. al concordato preventivo in continuità si finirebbe per generare, in seno allo stesso, una distorsione del principio della par condicio. Non potendo, invero, negarsi al compratore (sul piano economico) il diritto di dedurre l’ammontare dei debiti nella determinazione del prezzo, i creditori aziendali, da un lato, avrebbero l’opportunità, non concessa agli altri concorrenti, di vedersi assegnato un nuovo debitore estraneo alla procedura concorsuale e potenzialmente in grado di garantire loro la soddisfazione del credito; i creditori non aziendali, dall’altro, vedrebbero sostituito il bene “azienda”, già compreso nel patrimonio destinato anche alla loro soddisfazione, con un prezzo di realizzo decurtato del valore dei debiti aziendali[21];

- non ricorrono nemmeno in questa procedura - come del resto in qualsiasi altra procedura concorsuale - le ragioni (od alcune delle ragioni) che giustificano l’esistenza dell’art. 2560 c.c., ovvero quelle relative alla protezione dei creditori da vendite di complessi aziendali, che spesso esauriscono la garanzia patrimoniale del debitore, a prezzi incongrui o da possibili occultamenti o dispersioni del corrispettivo da parte del cedente;

- la disposizione del secondo comma dell’art. 2560 c.c. appare del tutto incompatibile con la funzione delle vendite concorsuali e con l’effetto purgativo che - oggi più che in passato - si attribuisce alle stesse in qualsiasi forma, anche convenzionale, trovino luogo[22].

(C) La terza considerazione che merita di essere compiuta avendo riguardo alla responsabilità del cessionario per i debiti del cedente anteriori al trasferimento dell’azienda, è relativa al fatto che la responsabilità di quest’ultimo talvolta sussiste (nel senso che nasce in capo al cessionario), non tanto in forza di una specifica disposizione normativa (quale è appunto l’art. 2560 c.c.), ma come conseguenza del subentro del cessionario in un certo contratto.

La norma che disciplina la successione nei contratti in conseguenza del trasferimento di azienda (o ramo aziendale) è l’art. 2558 c.c., che stabilisce la regola del subentro automatico del cessionario negli accordi strumentali all’esercizio dell’impresa, salva diversa volontà manifestata dai contraenti.

La distinzione fra contratto e debito è, dal punto di vista teorico-concettuale, assai chiara. Volendo sintetizzare, i presupposti per la successione nel contratto e, quindi, per l’operatività dell’art. 2558 c.c. si ravvisano nella corrispettività e nella pendenza delle prestazioni dovute da ciascuna delle parti; al contrario, qualora la prestazione dovuta rimanga ineseguita solo da una delle parti, residua un debito con conseguente applicazione dell’art. 2560 c.c..[23]

La giurisprudenza[24] e la dottrina[25] interpretano però l’art. 2558 c.c. nel senso che i debiti riconducibili ai contratti (siano essi contratti di impresa o d’azienda)[26] nei quali automaticamente succede il cessionario “passano” in capo a quest’ultimo come effetto, appunto, della migrazione della posizione contrattuale afferente ad un contratto a prestazioni corrispettive non ancora completamente eseguite da ambo le parti[27].

Ciò sta a significare che laddove il contratto trasferito con l’azienda si trascini debiti, ancorché in formazione (anche assai avanzata) a fronte di prestazioni di entrambi i contraenti non ancora completamente eseguite[28] questi ultimi, nei limiti sopra precisati, “passano” al cessionario dell’azienda (anche nel concordato), senza che esista alcuna possibilità di rimediare mediante una clausola del negozio di cessione d’azienda diversa da quella che – appunto - escluda il subingresso del cessionario nel contratto, che altrimenti si trasferirebbe[29].

Trasferendosi dunque il contratto, le posizioni debitorie connesse passano nella loro interezza, senza che trovi applicazione l’art. 2560, secondo comma, c.c., (e quindi ancorché non iscritti nei libri contabili del cedente), in assenza di accollo da parte del cessionario e – si badi - con integrale liberazione del cedente[30].

 

6. Esaurito questo sintetico approfondimento in materia di corresponsabilità del cessionario d’azienda (che peraltro tornerà utile nel prosieguo della trattazione), si può ora verificare quando il trasferimento aziendale, effettuato in via preventiva rispetto all’adozione di uno di degli strumenti di composizione della crisi messi a disposizione dall’ordinamento, sia utile, efficiente e congruo rispetto alla soddisfazione di quei bisogni di un possibile investitore che sono stati precedentemente elencati.

Si può così iniziare a pensare ad un trasferimento d’azienda attuato nell’ottica di un piano attestato ex art. 67 L.F.

In questa prospettiva, va subito chiarito che - attesa la diffusa convinzione che lo strumento disciplinato dall’art. 67 L.F. non sia funzionale ad una ristrutturazione del debito realizzata attraverso la liquidazione del patrimonio della debitrice - più che di trasferimento d’azienda[31] dovrà trattarsi di trasferimento di ramo d’azienda. Il che per la verità non comporta sostanziali differenze ai fini delle valutazioni che ci si accinge a compiere, salva un’ulteriore limitazione alla responsabilità del cessionario qui circoscritta ai debiti di cui all’art. 2560, secondo comma, c.c., che siano esclusivamente[32]inerenti (e riferibili sulla scorta delle scritture contabili obbligatorie) al solo ramo d’azienda ceduto.

In tema di piano attestato di risanamento, le norme da considerare ai fini che qui interessano sono sostanzialmente due: l’art. 67, terzo comma, lett. d), L.F., e l’art. 217-bis L.F. Esse, rispettivamente, esonerano da revocatoria - nella ricorrenza delle condizioni di legge - “gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano” e privano di rilevanza penale - nei limiti positivamente prescritti - “i pagamenti e le operazioni compiute in esecuzione del piano”.[33]

In forza di ciò, si può allora concludere che il trasferimento del ramo aziendale attuato dall’impresa in crisi prima che il piano possa essere qualificato, ai sensi di legge, come “piano attestato di risanamento”:

(i) con specifico riferimento al profilo inerente la responsabilità del cessionario per i debiti del cedente, non comporta nessun privilegio (salve eventuali remissioni) rispetto alla diversa ipotesi in cui la cessione intervenga dopo che il piano spieghi gli effetti riconosciuti dalla legge;

(ii) è comunque idoneo a soddisfare le esigenze dell’investitore (a) di conseguire immediatamente il “controllo gestionale” dell’azienda e (b) di salvaguardarne i beni da iniziative individuali eventualmente promosse dai creditori del cedente.

Per contro, quello stesso trasferimento finirebbe col peccare di inefficienza rispetto ai bisogni del potenziale investitore di stabilizzare l’operazione in caso di futuro fallimento e di eliminare, nei limiti permessi dalla legge, il rischio che l’acquirente incappi in vicende aventi rilevanza penale.

E’ possibile ovviare a tali inconvenienti sul piano della redazione del contratto di cessione del ramo d’azienda?

Sembrerebbe di sì, almeno in parte, purché si sia disposti a perdere qualcosa per strada.

Lo strumento elettivo è ovviamente quello accidentale della condizione. Si può così immaginare un contratto traslativo di ramo aziendale concluso ante formalizzazione del piano, che:

(a) sia, senz’altro, sospensivamente condizionato all’intervenuta attestazione - in forma adeguata allo scopo - di un piano ai sensi dell’art. 67, terzo comma, lett. d), L.F., che, a sua volta, preveda fra i suoi punti qualificanti l’intervenuta efficacia del già concluso contratto di cessione d’azienda;

(b) possa ugualmente essere condizionato:

- all’intervenuta conclusione, o entrata in vigore, degli altri accordi decisivi per la realizzazione del piano;

- ed anche - tenendo conto del carattere definitivo del contratto e della sua adeguatezza a produrre effetti reali al realizzarsi delle altre condizioni - al pagamento del prezzo[34].

Le condizioni in parola dovrebbero poi essere:

(x) bilaterali o, ponendosi dal lato dell’investitore, unilaterali nel suo esclusivo interesse (ad evitare di veder divenire efficace un contratto non voluto in quanto appunto revocabile);

(y) scindibili, e cioè non riferite – per quanto si dirà a breve – all’intero contratto o, meglio ancora, a tutti gli obblighi previsti dal contratto, consentendosi per alcuni di tali obblighi che il contratto sia immediatamente efficace;

(z) irretroattive, onde evitare che il contratto, anche soltanto sotto il profilo temporale, non possa dirsi esecutivo del piano[35].

Per la verità, mediante questi accorgimenti, sembra possibile sostenere che la conclusione del contratto di cessione del ramo “ante piano” non impedisca di beneficiare dei vantaggi derivanti dall’adozione di un piano attestato.

Lo slittamento in avanti dell’efficacia del contratto non consentirebbe tuttavia di soddisfare immediatamente due esigenze che risulterebbero altrimenti soddisfatte qualora il contratto avesse efficacia immediata e cioè:

- il subitaneo conseguimento della gestione del complesso aziendale;

- la segregazione dei beni aziendali ancora del cedente al fine di salvaguardarli da azioni esecutive, cautelari nei suoi confronti o comunque finalizzate all’acquisizione di prelazioni individuali.

Quest’ultimo aspetto non è ovviamente superabile con il contratto di cessione.

Tuttavia, si può osservare che la scelta di adottare il piano attestato come strumento di composizione della crisi - mancando qui qualsiasi forma di protezione legale, ancorché temporanea e contingente, del patrimonio del debitore rispetto a possibili attacchi individuali - implica sempre, da parte dell’impresa che vi faccia ricorso, una valutazione preventiva sul basso rischio di aggressione di quello stesso patrimonio ad iniziativa dei suoi creditori.

Per ciò che concerne, invece, l’esigenza del subitaneo conseguimento della gestione del complesso aziendale, pare che ad essa, per via convenzionale, sia possibile riconoscere qualche soddisfazione.

Soccorre qui, per vero, l’esperienza contrattuale in materia di cessioni di pacchetti azionari e di complessi aziendali relativamente alle ipotesi in cui per ragioni di opportunità (effettuazioni di verifiche, compimento di azioni) o per necessità (ottenimento di autorizzazioni) debba decorrere un certo lasso di tempo tra la stipula del contratto che detta i termini e condizioni della compravendita e l'effettivo trasferimento.

Si tratterà dunque, avendo riguardo al periodo interinale di pendenza della condizione, di disciplinare accuratamente:

- quali atti possano o meno essere compiuti dall’alienante senza il consenso preventivo dell’acquirente;

- quali siano i criteri di gestione (per lo più ordinaria) cui l’alienante dovrà attenersi;

- gli eventuali diritti dell’acquirente di compiere ispezioni o verifiche quando non di sorvegliare sul rispetto, da parte dell’alienante, degli obblighi di gestione interinale;

- la definizione di sanzioni (di natura risarcitoria ovvero finalizzate alla cessazione del contratto) per il caso di violazioni degli obblighi predetti da parte dell’alienante.

La previsione di tali obblighi e il fatto che gli stessi - in forza della scindibilità della condizione - debbano ritenersi efficaci fin dalla (ed in forza della sola) stipula del contratto non contrasta, peraltro, con quanto previsto dall’art. 1358 c.c. ma contribuisce, piuttosto, a rafforzare il principio di buona fede cui la condotta dell’alienante deve conformarsi in pendenza della condizione, regolamentando (ancorché con esclusiva efficacia inter partes) il potere, comunque riconosciuto dall’art. 1361 c.c. all’alienante sotto condizione sospensiva, di porre in essere validi atti di amministrazione.

Per contro, vertendosi in ipotesi di cessione di ramo d’azienda, è difficilmente invocabile l’esperienza in materia di gestione dell’impresa in crisi - spesso sperimentata in tema di accordi di ristrutturazione con istituti bancari - che vede alcuni soggetti designati o di gradimento dei creditori (nel nostro caso all’acquirente) entrare negli organi gestori dell’impresa alienante, per l’intera pendenza della condizione.

Esperienza che nel caso di specie - come negli accordi di ristrutturazione cui si è accennato - si tradurrebbe nella previsione, all’interno del contratto di cessione d’azienda, di clausole finalizzate all’assunzione di obblighi di fare e/o non fare da parte della impresa in crisi; ovvero nella formulazione, sempre da parte dell’impresa medesima, di promesse del fatto del terzo; e/o, ancora, nella costituzione di un apparato sanzionatorio per il caso in cui gli obblighi o le promesse non fossero rispettati.

Sotto diverso profilo è pur vero che la conclusione di un contratto definitivo, ancorché condizionato, ha il vantaggio di fornire una soluzione self executing – quantomeno sul piano degli effetti reali – al verificarsi delle condizioni convenzionalmente previste e, in caso di inadempimento dell’alienante (rischio che qui può essere molto più attuale rispetto a quanto accadrebbe nell’ambito di una procedura concorsuale), esclude il ricorso ad una tutela costitutiva e quindi in sé “eterna” da conseguire, come accadrebbe nel caso di stipula di un preliminare.

 

7. Considerazioni analoghe a quelle appena svolte per il piano attestato possono ripetersi - con gli opportuni accorgimenti - per gli accordi di ristrutturazione disciplinati dall’art. 182-bis L.F..

Anche in questo caso, per cogliere i benefici di cui agli artt. 67, terzo comma, lett. e), e 217-bis L.F. non potrà che farsi ricorso all’istituto della condizione, cosicché il trasferimento possa dirsi realizzato in esecuzione dell’“accordo omologato”.

Proprio perché la legge parla di “accordo omologato”, l’evento dedotto in condizione nel caso specifico non sarà l’attestazione del piano, bensì l’intervenuta omologa oppure, come spesso si legge in questi accordi, l’intervenuta definitiva omologa.

In dottrina si sostiene che sotto il profilo strettamente cronologico - poiché gli accordi acquistano efficacia con la loro pubblicazione - l’omologazione opererebbe retroattivamente a tale data.

Ora però, a prescindere dalla difficoltà di qualificare la cessione di azienda ad un terzo non creditore - ancorché prevista dal piano - alla stessa stregua di un accordo di ristrutturazione dei debiti (suscettibile di pubblicazione) ex art. 182-bis L.F., resta il fatto che quello della retrodatazione degli effetti dell’omologa finisce per diventare un tema ininfluente ai fini della indagine in corso, posto che un conto è individuare l’evento condizionale (l’omologa) e determinare la retroattività (o meno) degli effetti del suo avveramento ex art. 1360 c.c. relativamente ad un dato contratto (quello di cessione di azienda appunto); altro è, invece, individuare il momento al quale ricollegare gli effetti della omologa in relazione agli accordi di ristrutturazione del debito[36].

Con riferimento all’omologa, poi, a quale evento condizionale della cessione e degli accordi di ristrutturazione ci si dovrà riferire? All’emissione del decreto ex art. 182-bis, quarto comma, L.F., o, invece, alla circostanza che quel decreto sia divenuto inoppugnabile (ovvero, come normalmente viene definita nella prassi, all’ “omologa definitiva”)?

La scelta fra queste due alternative è tutt’altro che banale e la sensazione è che, nella pratica (soprattutto in tema di accordi di ristrutturazione), essa venga spesso effettuata in modo non sempre meditato, senza cioè tenere conto che sovente la legge ricollega determinati effetti alla prima delle due possibili opzioni (ovvero all’omologa non definitiva).

Si pensi, ad esempio, all’art. 182-sexies L.F. Va da sé che ove questa norma avesse rilevanza concreta avendo riguardo al caso di specie, allora l’opzione per l’omologa definitiva imporrebbe di prevedere come porre rimedio agli effetti conseguenti a possibili situazioni di sotto capitalizzazione, giuridicamente rilevante, derivanti dal venir meno, con l’omologa, degli effetti previsti dalla disposizione in parola; tutto questo in presenza di accordi - quale quello di cessione d’azienda – che, sebbene fondamentali per la realizzazione del piano, in seguito all’omologa non diverrebbero per contro ancora efficaci.

Si pensi, ancora, al termine iniziale del periodo di centoventi giorni per il pagamento dei creditori non aderenti, i cui crediti siano scaduti ante omologa: termine che, anche sulla scorta di quanto previsto dall’art. 180 L.F. (in tema di provvisoria esecutorietà del decreto contemplato da questa norma), sembra doversi far decorrere dal deposito del decreto di cui all’art. 182-bis L.F. Con la conseguenza che ove le risorse per il pagamento di tali creditori – per restare al nostro caso – dovessero arrivare dai proventi derivanti dalla vendita dell’azienda e l’efficacia di tale vendita fosse invece condizionata alla definitiva omologa si finirebbe per generare una situazione capace di far collassare il piano[37] .

Proseguendo nel discorso, va ancora osservato come anche in tema di accordi ex art. 182-bis L.F., oltre all’intervenuta omologa dell’accordo, ben potranno essere contemplati altri eventi condizionali, del tutto analoghi a quelli previsti per il piano attestato. E la condizione dovrà anche qui ugualmente essere bilaterale, scindibile e ad efficacia non retroattiva.

Uguali considerazioni a quelle già svolte per il piano attestato potranno poi ripetersi per gli accordi di ristrutturazione in tema di responsabilità del cessionario dell’azienda ai sensi dell’art. 2560, secondo comma, c.c., tenendo tuttavia presente come per questi ultimi - attesa la maggiore frequenza di remissione di debiti o di rinuncia a crediti nei confronti dell’alienante - il contrasto interpretativo sulla natura (e quindi sulla configurazione) della solidarietà fra alienante ed acquirente potrà effettivamente costituire un limite all’individuazione di soluzioni certe ed efficienti.

Un esempio può essere utile per meglio chiarire quanto appena detto.

Posto che il carattere negoziale (o volontaristico) dell’accordo di ristrutturazione è ostativo all’applicazione della regola prevista dall’art. 184, primo comma, ultima parte, L.F.[38], nell’eventualità in cui non vi sia, sul piano convenzionale, alcun accollo del debito dell’alienante da parte dell’acquirente e il creditore del primo (ovvero dell’alienante) abbia liberato quest’ultimo per una frazione di quanto dallo stesso dovuto rimettendo parte del suo debito, sarà possibile sostenere che la responsabilità dell’acquirente l’azienda, ai sensi dell’art. 2560, secondo comma, c.c., sia quindi circoscritta solo alla parte del debito non rimessa? O dovrà invece ritenersi che, sulla scorta del primo comma della norma[39], analogamente a quanto avviene nell’assunzione del debito altrui tipica dell’accollo, la liberazione del primo debitore non incida sulla responsabilità del secondo?

Tornano qui utili le considerazioni fatte sulla natura della responsabilità del cessionario d’azienda per i debiti di cui all’art. 2560, secondo comma, c.c., per - in forza delle stesse – ritenere (probabilmente) preferibile la prima soluzione proposta (quella, cioè, che vede la responsabilità dell’acquirente limitata alla frazione del debito che non sia stata rimessa). Ciò perché, laddove si attribuisca alla responsabilità del cessionario d’azienda una funzione di garanzia per i creditori dell’alienante, ne dovrebbe necessariamente discendere la regola per cui l’obbligazione del garante non possa eccedere l’obbligazione garantita.

Nel caso specifico sembra inoltre corretto ritenere che – quantomeno tutte le volte in cui gli effetti della cessione dell’azienda si ricolleghino in modo non retroattivo all’omologa – il cessionario possa comunque finire per rispondere della sola frazione del debito di cui l’alienante non è stato liberato, anche qualora si ritenga che in forza dell’art. 2560, secondo comma, c.c., egli si sia assunto (cioè si sia accollato) il debito dell’alienante. Questo perché, se è vero che l’efficacia degli accordi, in forza dell’omologa, si fissa (retroattivamente) alla data di pubblicazione degli stessi (salva diversa pattuizione), v’è allora da ritenere che, da quel preciso momento, il debito dell’alienante non sia più quello originario, bensì quello conformato, appunto, dagli accordi.

Con l’ulteriore conseguenza che laddove successivamente taluno (nel nostro caso l’acquirente d’azienda) si assuma (vuoi ex lege vuoi in forza di espressa pattuizione) il debito aziendale non potrà farlo per come quel debito è nel momento in cui l’assunzione dello stesso diviene efficace.

Di qui poi subito un’altra questione.

Dal momento che il cessionario è coobbligato in solido con il cedente, la moratoria legale prevista nei confronti dei creditori non aderenti si estenderà anche a lui?

La dottrina più recente[40] pare propensa a ritenere che si tratti di un’eccezione strettamente personale[41] e, come tale, non opponibile al creditore/cessionario (art. 1297 c.c.) se sollevata dal coobbligato.

Ove però si ricostruisca la responsabilità del cessionario in termini di garanzia o comunque di solidarietà che si origina nella forma della solidarietà diseguale[42] e si ritenga pertanto che le obbligazioni di cui il cessionario risponde siano assunte (o, meglio, gli siano poste a carico dalla legge) a garanzia del ceto creditorio, bisogna davvero domandarsi se l’opinione predetta non possa essere rimeditata, quantomeno laddove gli effetti della cessione non si pongano in via temporalmente anticipata rispetto a quelli derivanti ex lege dall’omologa[43] (ovvero la cessione dell’azienda divenga efficace successivamente l’intervenuta omologa).

Cambiando prospettiva, va poi precisato che anche in tema di gestione d’azienda oggetto di cessione nell’ambito di un accordo di ristrutturazione possono valere le considerazioni svolte in materia di piani attestati di risanamento: certo è che, in tale ipotesi, la lunghezza dei tempi richiesti per l’omologa e/o la definitiva omologa rende ancora più pressante la necessità di intervenire sugli organi gestori dell’impresa alienante.

La disciplina si mostra invece significativamente diversa e, in questo senso, favorevole al potenziale acquirente laddove si affronti il tema relativo alla protezione dei beni aziendali: ciò, non solo in forza del divieto di azioni cautelari o esecutive o, ancora, del divieto di acquisizione di titoli di prelazione non concordati previsto dall’ art. 182-bis, terzo comma, L.F., ma anche per l’opportunità concessa all’alienante di servirsi degli istituti disciplinati dall’art. 182-bis, sesto comma, L.F., ovvero dall’art.161, sesto comma, L.F.. Con la nota differenza che, nell’ipotesi di cui all’art. 182 bis, sesto comma, L.F., il c.d., forse in modo tanto evocativo quanto fuorviante, automatic stay opererà solo per il periodo individuato ai commi secondo e sesto della norma mentre, laddove ci si avvalga dello strumento del concordato preventivo in bianco, la conservazione degli effetti protettivi si avrà fino all’omologazione degli accordi di ristrutturazione.

Opportunità che ben può essere vagliata già durante la redazione del contratto di cessione d’azienda mediante la previsione, vuoi di obblighi di fare a carico dell’alienante (e cioè di procedere nel senso a tal fine convenuto con l’acquirente), vuoi di soluzioni rimediali (condizioni risolutive o clausole che prevedono la risoluzione, il recesso, o risarcimenti forfettizzati del danno per il ritardo) in caso di inadempimento.

 

8. Un panorama completamente diverso si prospetta nel caso in cui l’imprenditore in crisi decida di accedere ad una procedura concordataria.

In una simile situazione, avendo sempre a mente i bisogni del potenziale investitore, oltre alle norme civilistiche precedentemente esaminate vengono in rilievo anche:

(i) l’art. 45 L.F. come richiamato dall’art. 169 L.F.;

(ii) gli artt. 67, terzo comma, lett. e), e 217-bis L.F.;

(iii) gli artt. 163 L.F. e, soprattutto,. 163-bis L.F. (in tema di proposte ed offerte concorrenti);

(iv) l’art. 169-bis L.F. (in materia di scioglimento di contratti);

(v) l’art. 160, ultimo comma, L.F. (in tema di condizioni di ammissibilità della proposta) e l’art. 186-bis L.F.;

(vi) l’art. 161, sesto comma, L.F.;

(vii) l’art. 184 L.F. (relativamente agli effetti del concordato preventivo sui coobbligati).

Mantenendo dunque sullo sfondo tutte queste disposizioni, si può cominciare col dire che anche nel concordato preventivo, affinché l’investitore possa beneficiare degli incentivi di cui agli artt. 67, terzo comma, lett. e) e 217-bis L.F.l’unica ipotesi concretamente immaginabile è quella - peraltro già vista - di un contratto di trasferimento sospensivamente condizionato all’omologa, ovvero all’autorizzazione, anteriore rispetto all’omologa, concessa ai sensi dell’art. 167 L.F.

Ipotizzando quindi un contratto condizionato nel senso appena indicato, si deve allora dedurre che l’imprenditore alienante resti alla guida della impresa durante il corso (di tutta o parte) della procedura e che la vendita dell’azienda in esercizio avvenga successivamente all’omologa o all’autorizzazione ex art. 167 L.F. Condizioni, queste, di per sé bastevoli - anche secondo i criteri qualificatori che provengono dal formante giurisprudenziale - sia a ricondurre la figura di concordato oggetto di disamina nell’alveo dell’art. 186-bis L.F., sia, conseguentemente, a far ritenere inapplicabile alla stessa la condizione di ammissibilità di cui all’art. 160, ultimo comma, L.F.[44]

La segregazione dei beni aziendali, invece, potrebbe essere garantita anche prima del deposito della proposta in forza di quanto previsto dall’art. 161, sesto comma, L.F., e perciò grazie al deposito di un ricorso prenotativo[45] (sebbene questa soluzione - per lo meno nella esperienza quotidiana - non sia un’opzione a costo zero, in termini di prontezza e flessibilità nella conduzione dell’impresa in crisi, tanto più ove si tratti una impresa, come accade spesso, in crisi da tempo).

Ancora, con specifico riferimento alla gestione dell’impresa, potrebbero poi utilizzarsi le soluzioni (anche contrattuali) di cui si è detto in precedenza, le quali però dovranno qui misurarsi con il regime di “gestione controllata e limitata” proprio della procedura concordataria.

In merito alla facoltà riconosciuta al debitore di sciogliersi da un contratto di cessione già concluso, seppur condizionato nei termini predetti, essa – ancorché di improbabile esercizio – non può essere esclusa mediante l’inserimento di apposite disposizioni all’interno dell’accordo traslativo dell’azienda.

L’art. 169-bis L.F. è infatti una norma inderogabile, e v’è da credere che, a ragione del suo tenore letterale[46], essa ben possa trovare applicazione non solo a quegli accordi che abbiano già generato obblighi che non siano stati completamente eseguiti, ma anche a quelli che non abbiano ancora ricevuto esecuzione per non essere divenuti efficaci in forza, appunto, di una condizione sospensiva.

Di certo però risulta difficile – almeno da un punto di vista pratico - comprendere come la norma possa concretamente trovare applicazione - e quindi in che modo la facoltà di scioglimento possa essere esercitata - rispetto ad un contratto fondamentale per il piano concordatario e in merito al quale si debba necessariamente aprire una procedura competitiva finalizzata alla presentazione di offerte concorrenti.

Va da sé, infatti, che se - ai sensi dell’art. 163-bis, primo comma, ultima parte, L.F. - v’è da credere che il meccanismo delle offerte concorrenti non possa applicarsi ad una cessione di azienda perfezionatasi prima dell’apertura della procedura e in cui - ad esempio - residui la mera obbligazione di pagamento del prezzo, deve per contro darsi per acquisito che il meccanismo non possa che trovare applicazione laddove il contratto di cessione sia sospensivamente condizionato all’omologa o ad un’autorizzazione giudiziale.

Cosicché, se da un lato si può sostenere che in tale ultima ipotesi - e cioè di contratto condizionato - nel concordato preventivo non si ravvisano spazi per soddisfare il bisogno dell’investitore di stabilizzare, in suo favore, l’assegnazione dell’azienda oggetto di cessione rispetto a possibili concorrenti interessati, dall’altro lato – tuttavia – occorre anche concludere che all’esito della procedura competitiva ex art. 163-bis L.F.:

- o vi saranno altre offerte, e allora l’originario contratto sarà destinato a cadere, con gli effetti di cui all’art. 163-bis, terzo comma, ultima parte, L.F.;

- o non vi saranno offerte concorrenti e allora l’originario contratto non potrà che trovare esecuzione pena, appunto, l’inattuabilità del piano.

Detto in altri termini, pare possibile opinare che, una volta esaurita la procedura competitiva, l’art. 169-bis L.F. - semmai avesse potuto essere invocato prima - non potrà più trovare applicazione.

Le eventuali vicende traslative dell’azienda ante concordato preventivo (giusto il rinvio operato dall’art. 169 L.F.), meritano anche di essere analizzate - quantomeno avendo riguardo all’ipotesi di contratto ad efficacia immediata - anche in relazione al disposto dell’art. 45, primo comma, L.F., il quale statuisce che “le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la dichiarazione di fallimento, sono senza effetto per i creditori”.

Per inquadrare meglio il problema occorre senz’altro prendere le mosse dalla pubblicità camerale contemplata dall’art. 2556, comma secondo, c.c. e dalla funzione che (oramai prevalentemente) le si attribuisce: quella cioè di rendere opponibile ai terzi l’atto di trasferimento dell’azienda solo relativamente alle vicende personali dell’imprenditore e non già rispetto a quelle patrimoniali inerenti a diritti reali sui beni che ne fanno parte.

Ora, secondo un primo orientamento, influenzato dalla concezione unitaria dell’azienda e supportato da una risalente pronuncia di merito[47], ai fini dell’opponibilità del trasferimento d’azienda alla procedura sarebbe sufficiente il previo e tempestivo espletamento della - sola - unitaria pubblicità camerale.

Secondo altra tesi - più prudente sul piano pratico e più convincente sul piano teorico, poiché aderisce al dato testuale dell’art. 2556 c.c., che parla di “forme”, ed ha come presupposto l’adesione alla sopra richiamata teoria sulla funzione della pubblicità camerale - occorrerebbe viceversa avere riguardo alle singole (potenzialmente plurime) formalità imposte per legge riguardo alle vicende circolatorie dei singoli cespiti costituenti il complesso aziendale (ad esempio, per i beni immobili, l'intervenuta trascrizione nel pubblico registro immobiliare[48] dell’atto traslativo mentre per i beni mobili non iscritti varrebbe l’usuale regola di cui all’art. 1155 c.c.)[49]. Cosicché in relazione a determinati beni si potrà assistere alla prevalenza di un soggetto che abbia acquisito la proprietà degli stessi rispetto ad un altro che abbia acquisito l’azienda, con effetti potenzialmente disgregativi del complesso aziendale, ferma restando, chiaramente, in capo all’acquirente di quest’ultimo, la possibilità di risolvere il contratto di trasferimento in rapporto all’importanza dei beni non acquisiti.

Quanto all’art. 184, primo comma, ultima parte, L.F., e all’ininfluenza degli effetti del concordato preventivo sui diritti dei creditori verso coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso del debitore in crisi, non v’è ragione per dubitare che la norma possa trovare applicazione nei confronti del cessionario in caso di cessione – immediatamente efficace – stipulata ante procedura. Per contro si deve concludere che non vi sia spazio per un suo utilizzo laddove il contratto di cessione sia sospensivamente condizionato all’omologa o all’autorizzazione ex art. 167 L.F., giacchè in quest’ultima ipotesi – come si è visto, ed indipendentemente dalla natura (liquidatorio o in continuità) del concordato, non troverebbe applicazione l’art. 2560 c.c..

È ben vero che saremmo qui di fronte ad un accordo stipulato al di fuori della procedura, perché conclusosi prima della sua apertura. È altrettanto vero, però, che una volta realizzatasi la condizione cui il contratto è sottoposto - il cui effetto retroattivo, pure in questo caso, non potrà che essere convenzionalmente escluso - esso non potrebbe che essere considerato – a maggior ragione laddove avesse superato indenne il meccanismo delle offerte concorrenti – come posto in essere in esecuzione del concordato. Con il risultato di poter applicare allo stesso le regole proprie delle cessioni d’azienda eseguite in seno alla procedura concordataria..

 

9. In conclusione, alla luce delle considerazioni fatte, può allora osservarsi che se la prassi non conosce un uso frequente dei contratti di trasferimento ante procedura, ancorché condizionati nel senso indicato, a tutto vantaggio di altri e diversi schemi contrattuali, è perché questi ultimi sono giudicati - forse non a torto - più efficienti rispetto (e maggiormente rispondenti) ai bisogni di un potenziale investitore interessato a rilevare il complesso aziendale di un’impresa in crisi.

Ed è proprio avendo come obiettivo il soddisfacimento di questi bisogni che il professionista che opera nel settore della crisi di impresa deve (o quantomeno dovrebbe) ingegnarsi, prefigurandosi e, successivamente, mettendo a punto soluzioni nuove ed originali, idonee a rappresentare valide alternative a quello che ancora oggi, in tema di cambio di mano dell’azienda, pare essere lo strumentario negoziale più spesso utilizzato: ovvero quello racchiuso nella sequenza affitto / preliminare acquisto.

In questo senso (si pensi, ad esempio, per semplicità, al caso di una di una società unipersonale), è condivisibile l’assunto secondo cui per il socio non vi sia molta differenza tra vendere l’azienda, che costituisce l’unico asset della società che controlla, ad esclusivo vantaggio dei creditori sociali e senza alcun ritorno in suo favore e vendere le proprie azioni a prezzo simbolico e prossimo allo zero

Se è così, è possibile allora immaginare proposte concordatarie fatte dalla società debitrice le quali, basandosi sulla convenuta cessione del pacchetto di controllo, passino attraverso aumenti di capitale destinati:

(a) a soddisfare il fabbisogno concordatario;

(b) a riportare la società post omologa in una situazione di patrimonio positivo (senza necessità di porla nel frattempo in liquidazione in virtù di quanto disposto dall’art. 182-sexies, L.F.);

Situazione, questa, che si crede sia possibile anche quando la proposta concordataria provenga direttamente dagli amministratori e dai liquidatori della società sulla scorta di un’offerta del terzo investitore: ovvero senza che quest’ultimo si sostituisca al vecchio socio il quale, se non sottoscrive il capitale di nuova emissione, finisce con l’essere estromesso (tutto ciò sulla scorta di quanto previsto dall’art. 163, quinto comma, L.F., e con la benedizione dell’attuazione coattiva contemplata al successivo art. 185, L.F.)[50].

In casi come quelli appena descritti (il primo più che il secondo), l’investitore vedrebbe così soddisfatte:

(i) l’esigenza gestionale (in forza della cessione delle azioni) e di segregazione del patrimonio sociale (grazie alla procedura di concordato preventivo, anche prenotativo);

(ii) l’esigenza (grazie alla procedura di concordato preventivo ed alla continuità) di stabilizzare l’operazione verso i rischi di interferenza dei terzi, pur mantenendo un regime di (indiretta) contendibilità della azienda e di competitività (quanto alle proposte concorrenti troverebbe luogo l’art. 163 L.F. ma non l’art. 163-bis L.F.);

(iii) l’esigenza di non incorrere in rischi di perdita dell’investimento in difetto di omologa (gli aumenti di capitale sarebbero infatti condizionati all’omologa ed eseguiti post omologa).

Non si porrebbe un problema di revocatoria (e di esenzione dalla revocatoria) in merito al trasferimento dell’azienda o ad altri atti dispositivi compiuti dall’imprenditore poi fallito. Ed ovviamente non si porrebbe neppure un problema di responsabilità per debito altrui.



[1] Lo scritto è la rielaborazione, arricchita con alcune minime note di natura bibliografica, dell’intervento tenuto, in qualità di relatore, al Convegno Nazionale di Studi del 3 marzo 2017, promosso dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e dalla Fondazione dei Dottori Commercialisti di Parma, avente ad oggetto “Il trasferimento dell’azienda quale elemento di soluzione della crisi di d’impresa”. Di qui il tono (in alcuni passaggi) inevitabilmente discorsivo della trattazione.

[2] Per quanto attiene ai rapporti tra tale disposizione e l’art. 2560 c.c. dottrina e giurisprudenza paiono concordi nel ravvisare un rapporto di specialità con conseguente “prevalenza” della norma tributaria. Sul punto si veda R. BAGGIO, Appunti in tema di responsabilità tributaria del cessionario d’azienda, in Rassegna Tributaria, 1999, 3; per la giurisprudenza v. Cass. Civ., Sez. Trib., 05 giugno 2013, n. 14169; Cass. Civ., Sez. Trib., 14 marzo 2014, n. 5979; Cass. Civ., Sez. VI, 09 giugno 2015, n. 11972.

Unanime è la dottrina nel ravvisare in tale ipotesi di solidarietà i connotati propri della sussidiarietà. Sul punto si veda A. FANTOZZI, La solidarietà tributaria, in Trattato di diritto tributario di A. Amatucci, Padova, 1994, 453; per la giurisprudenza v. Cass. Civ., Sez. Trib., 12 gennaio 2012, n. 255.

[3] Ci si riferisce a Cass. Civ., Sez. III, 30 giugno 2015, n. 13319; Cass. Civ., Sez. II, 21 dicembre 2012, n. 23828; Cass. Civ., Sez. I, 4 ottobre 2010 n. 20577; Cass. Civ., Sez. II, 3 dicembre 2009, n. 25403. Il principio risultava peraltro già accolto anche da parte risalente della giurisprudenza di legittimità tra cui, ex multis, Cass. Civ. Sez. lav., 3 aprile 2002 n. 4726; Cass. Civ., Sez. lav., 20 giugno 1998, n. 6173; Cass. Civ., Sez. I, 20 marzo 1990, n. 2319; Cass. Civ. 13 gennaio 1975, n. 113; Cass. Civ. 29 maggio 1972, n. 1726; Cass. Civ. 14 settembre 1967, n. 2158.

In dottrina, su tutti, P. RESCIGNO, Studi sull’accollo, Milano, Giuffrè, 1958, 247 ss; G. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, I, Torino, Utet, 2009, 157.

[4] Si veda Cass. Civ., Sez. II, 21 dicembre 2012, n. 23828, laddove si afferma che “In tema di cessione d'azienda, la disposizione di cui all'art. 2560, comma 2, c.c., secondo cui l'acquirente risponde dei debiti inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta soltanto se essi risultino dai libri contabili, è dettata non solo dall'esigenza di tutelare í terzi creditori, già contraenti con l'impresa e peraltro sufficientemente garantiti pure dalla norma di cui al comma 1 del medesimo art. 2560 c.c., ma anche da quella di consentire al cessionario di acquisire adeguata e specifica cognizione dei debiti assunti, specificità che va esclusa nell'ipotesi in cui i dati riportati nelle scritture contabili siano parziali e carenti nell'indicazione del soggetto titolare del credito, non potendosi in alcun modo integrare un'annotazione generica delle operazioni mediante ricorso ad elementi esterni di riscontro.”.

[5] Cass. Civ., Sez. III, 10 novembre 2010, n. 22831.

[6] Già a partire da Cass. Civ. 22 gennaio 1972, n. 171, in Giur. it., 1973, I, 1, 262 ss. Dello stesso avviso anche le più recenti Cass. Civ., Sez. Trib., 5 aprile 2017, n. 8786; Cass. Civ., Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 21938; Cass. Civ., Sez. III, 18 dicembre 2007, n. 26708; Cass. Civ., Sez. I, 29 aprile 1998, n. 4367; Cass. Civ., Sez. II, 3 marzo 1994, n. 2108.

[7] Così Cass. Civ., Sez. III, 30 giugno 2015, n. 13319 e Cass. Civ., Sez. I, 22 dicembre 2004, n. 23780. Per la dottrina si veda G.E. COLOMBO, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, Padova, Cedam, 1979, 136; V. COTTINO, Restituzione dell’azienda al locatore, nuova concessione in affitto e responsabilità per debiti da lavoro, in Riv. Dir. Lav., 1961, I, 270; A. DE MARTINI, in Giur. Compl. Cass. civ., 1949, I, 270; G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, Torino, Utet, 2014, 203; A. GRAZIANI, L’impresa e l’imprenditore, Napoli, Morano, 1959, 84 e 173.

[8] Cass. Civ., Sez. III, 3 dicembre 2009, n. 25403 parla espressamente, con riferimento all’art. 2560 c.c., di “solidarietà impropria” ovverosia quella che si riscontra ogniqualvolta ci si trova innanzi a “rapporti eziologicamente ricollegati a fonti diverse, e cioè i casi nei quali ad una obbligazione principale se ne ricollegano altre chiamate ad assolvere funzioni di garanzia, come avviene nei rapporti fideiussori, nascenti da un proprio ed autonomo atto negoziale, ovvero quelli di responsabilità senza debito, stabiliti dalla legge, quale, appunto, l’ipotesi di cui all’art. 2560, c.c.”. La stessa sentenza, richiamando una precedente pronuncia (Cass. Civ., Sez. lav., 23 marzo 2004, n. 13875), afferma che, nell’eventualità in cui uno dei condebitori (di una obbligazione solidale) sia dichiarato fallito, solo l’esistenza di una medesima causa obligandi rende operativa la vis attractiva del giudice fallimentare, cosicché a quest’ultimo compete pure la controversia inerente al “rapporto corrente tra il creditore ed il condebitore non fallito”; ciò, a differenza di quanto si verifica per le obbligazioni solidali di garanzia, o comunque di solidarietà impropria, laddove tale identità non è riscontrabile.

Per la dottrina si veda su tutti U. LA PORTA, L’assunzione del debito altrui, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 2009, in particolare p. 458.

Sono noti i termini del dibattito in ordine alla portata della disuguaglianza nella solidarietà. Per una parte della dottrina i limiti dell’operare della disuguaglianza sarebbero segnati dagli articoli 1298 e 1299 c.c., esprimendosi cioè la stessa soltanto in una differente disciplina dei rapporti interni tra i condebitori, ma non incidendo sui rapporti tra il gruppo debitorio ed il creditore. Secondo altra parte della dottrina, invece, la solidarietà disuguale non vedrebbe esaurite le proprie peculiarità di disciplina nei (soli) rapporti interni, che infatti esse si ripercuoterebbero anche sul piano esterno ovverosia nei rapporti con il creditore, diversamente da quanto accade nelle obbligazioni solidali uguali. In particolare, stando a questo orientamento, nei rapporti tra gruppo debitorio e creditorio nelle obbligazioni solidali disuguali, la caratteristica di disciplina essenziale sarebbe la presenza della sussidiarietà. Le obbligazioni solidali disuguali, in altri termini, sarebbero pur sempre delle obbligazioni solidali, poiché assoggettate al regime di cui all’art. 1292 c.c., nelle quali però, in considerazione dell’assenza di una comunanza di interessi tra i condebitori, il debitore senza interesse all’adempimento sarebbe tenuto, ancorché in solido, in via sussidiaria rispetto all’altro debitore, essendo quindi distinguibile, nell’ambito del gruppo debitorio, un debitorie principale da uno sussidiario. La compatibilità della sussidiarietà con la solidarietà è d’altronde confermata da numerose previsioni recate dal Codice Civile: basti sol pensare, fra le altre, alla disciplina in tema di solidarietà tra il delegato e il delegante rispetto al delegatario (art. 1268 c.c.), a quella in materia di rapporti tra accollante e accollato (art. 1273 c.c.) piuttosto che a quella dettata con riguardo alla solidarietà tra cedente e cessionario nella vendita di partecipazioni sociali non interamente liberate (artt. 2356 e 2472 c.c.). Disposizioni, quelle appena citate, che si ritiene non abbiano portata eccezionale ma, piuttosto, costituiscano espressione della generale compatibilità fra solidarietà e sussidiarietà.

[9] Con conseguenze anche sul piano processuale, dal momento che la legittimazione ad agire resta in capo al cedente e non si trasmette al cessionario. Sul punto si rimanda a Cass. Civ., Sez. I, 3 ottobre 2011, n. 20153.

[10] R. CASPANI, Responsabilità del cessionario per debiti inerenti al ramo d’azienda trasferito, in Giur. Comm., 2016, 5, 1012 ss.; COLOMBO, op. cit., 137.

[11] Si veda M. CASANOVA, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, Torino, Utet, 1974, X, 1°, 1, 735; F. FERRARA, La teoria giuridica dell’azienda, Firenze, Giuffrè, 1945, 112 ss.; G. MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, Morano, 1966, 124 ss.

[12] CASPANI, op.cit.

[13] Si veda Cass. Civ., Sez. I, 27 dicembre 2005, n. 28774.

[14] Circa la perdurante sussistenza, nella vigente disciplina delle obbligazioni solidali, della portata generale della facoltà di libera electio da parte del creditore basti sol pensare al confronto tra la formulazione testuale dell’art. 1189 del Codice Civile del 1865 e l’attuale formulazione dell’art. 1292 c.c. Per la perdurante sussistenza di tale facoltà si veda, fra le altre, Cass. Civ., Sez. III, 14 luglio 2006, n. 16125.

[15] Sul punto la giurisprudenza di legittimità – v. Cass. Civ., Sez. III, 30 giugno 2015 n. 13319, Cass. Civ., Sez. III, 3 ottobre 2011, n. 20153 e, ancora, Cass. Civ., Sez. I, 22 dicembre 2004, n. 23780 – ha escluso che l’alienante escusso, avendo pagato in difetto di un patto interno d’accollo, possa rifarsi sul cessionario, essendo lui il vero/originario debitore.

[16] Sulla determinabilità dei debiti di cui il cessionario è chiamato a rispondere si è recentemente occupata anche la Suprema Corte nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite 21 aprile 2016, n. 8090.

[17] Situazione che può determinarsi nella prospettiva della disciplina contrattuale applicabile: vuoi come modo di pagamento del corrispettivo per l’acquisto del complesso aziendale (mediante accollo del debito nei rapporti fra le parti); vuoi come riduzione del prezzo di cessione (evidentemente non ancora pagato) in relazione all’ammontare dei debiti che il cessionario sia chiamato a pagare; vuoi, ancora, come pagamento certo perché garantito dell’eventuale credito di regresso del cessionario verso il cedente.

[18] Dove, al comma quarto, si stabilisce espressamente che “Salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento”.

[19] Anche laddove vi sia una diversa convenzione, la soluzione nel concordato potrebbe divergere da quella configurabile in condizioni di normalità ovvero in seno a piani attestati o accordi di ristrutturazione: ciò per la necessità (di cui è esempio l’art. 105, ultimo comma, L.F.), nell’ambito delle procedure concorsuali, di rispettare obbligatoriamente la graduazione dei crediti (salve le eccezioni ammesse per legge).

[20] O. CAGNASSO – L. PANZANI, Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Torino, Utet, 2016, III, 3543 ss.

[21] App. Milano, 23 settembre 1969 e App. Catania 6 aprile 1987. Quest’ultima, in particolare, rileva peraltro come alla lesione della par condicio creditorum si sarebbe in realtà comunque arrivati anche nel caso in cui il prezzo di vendita dell’azienda non fosse stato decurtato dei debiti e si fosse, invece, riconosciuto il diritto di regresso dell’acquirente nei confronti del fallimento. Anche in questo caso, la lesione del diritto di parità si sarebbe manifestata per due ordini di ragioni: in favore dei creditori aziendali si sarebbe di fatto duplicata la garanzia patrimoniale – massa fallimentare, da un lato, e patrimonio dell’acquirente, dall’altro; in favore dell’acquirente dell’azienda, creditore della società per l’importo dei debiti pregressi accollati con l’acquisto, sarebbe sorta una voce di credito da soddisfare in prededuzione a scapito dei creditori chirografari, che avrebbero subito la riduzione della massa attiva a disposizione.

Anche il Tribunale di Torino, in una più recente pronuncia emessa in data 8 settembre 2008, afferma che la responsabilità dell’acquirente implicherebbe “lo sconto dal prezzo di vendita dell’intero ammontare dei debiti aziendali, con conseguente soddisfazione integrale dei creditori aziendali (che ricevono un nuovo debitore) a discapito – in virtù del minor prezzo realizzato – dei creditori extra aziendali: il tutto in patente violazione della par condicio creditorum”.

[22] Si veda, in questo senso, ancorché nel fallimento, la recente Cass. Civ., Sez. I, 8 febbraio 2017, n. 3310.

[23] P.G. CASALI, Debiti e contratti nel trasferimento d’azienda, in Giur. Comm., 2015, 5, 840;G.F. FERRARI, voce Azienda (dir. priv.), in Enc. Dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, 717; G. CAMPOBASSO, op.cit, 153; G.U. TEDESCHI, Le disposizioni generali sull’azienda, in Trattato di diritto privato, di P. Rescigno, XVIII, Torino, Utet, 1983, 42.

[24] Cass. Civ., Sez. II, 24 febbraio 2016, n. 3669; Cass. Civ., Sez. II, 23 settembre 2015, n. 18769; Cass. Civ., Sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22236; Cass. Civ., Sez. lav., 10 luglio 2013, n. 17127; Cass. Civ., Sez. III, 12 marzo 2013, n. 6107; Cass. Civ., Sez. I, 3 ottobre 2011, n. 20153; Cass. Civ., Sez. I, 16 giugno 2004, n. 11318. Per la giurisprudenza di merito si veda Trib. Milano, 3 marzo 2008.

[25] COLOMBO, op. cit., 70-73.;F. FERRARA e F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, Giuffrè, 2011, 127; V. BUONOCORE, Manuale di diritto commerciale, Torino, Giappichelli, 1997, 558; CAMPOBASSO, op.cit., 152.

[26] Con riferimento alla successione automatica nei contratti, una breve riflessione va dedicata ad un aspetto che ricorre frequentemente nella prassi operativa delle aziende e, in particolare, di quelle edili ovverosia il loro operare tramite società consortili di esecuzione, quasi sempre costituite nella forma delle società di capitali (per lo più del tipo della società a responsabilità limitata).

Occorre domandarsi, cioè, cosa accada alle partecipazioni di queste società in conseguenza del trasferimento dell’azienda o di un suo ramo. L’orientamento prevalente pare andare nel senso di ritenere operante anche in tale ipotesi l’art. 2610 c.c. che, in tema di consorzi, prevede l’automatico subentro nel contratto di consorzio, salvo patto contrario e fermo il rimedio successivo di cui al secondo comma della citata disposizione.

Sul piano redazionale del contratto di cessione sarà però sempre opportuno (per non dire imprescindibile) verificare preliminarmente la presenza - invero assai frequente - negli statuti delle predette consortili di clausole limitative della circolazione e, in ogni caso, individuare nel contratto di cessione d’azienda le partecipazioni trasferende.

Discorso differente sarebbe chiaramente da farsi per le società consortili personali nelle quali, infatti, vige il principio di intrasmissibilità della quota senza il consenso di tutti gli altri soci.

Ove si intenda dare vita ad un contratto di cessione con effetti traslativi differiti rispetto alla procedura, occorrerà altresì verificare che lo statuto sociale, sempre chiaramente nell’ambito delle s.r.l., non individui cause di esclusione che attengano al ricorso del socio agli strumenti di composizione della crisi: se è vero che rispetto al concordato in continuità potrebbe supplire il disposto dell’art. 186-bis, terzo comma, L.F. (a mente del quale “i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell'apertura della procedura”), rispetto alle altre ipotesi di concordato, piuttosto che agli ulteriori strumenti rimediali offerti dalla legge fallimentare, la presenza di tali clausole potrebbe invero ingenerare rilevanti problemi operativi aprendo la strada a provvedimenti di esclusione.

[27] Se è vero che la ratio dell’effetto successorio (e della conseguente liberazione dell’alienante) di cui all’art. 2558 c.c. risiede nella corrispettività delle prestazioni ancora da eseguire, ove si faccia questione di contratti di durata (somministrazione, locazione etc.), essa dovrà intendersi riferita alla sole prestazioni corrispettive future, non già invece ai singoli debiti o crediti relativi a coppie di prestazioni corrispettive pregresse, per i quali, rispettivamente, troveranno applicazione gli artt. 2560 e 2559 c.c. (cfr. ad es. artt. 1373, comma secondo, - 1360, comma secondo, - 1458, primo comma, c.c.) COLOMBO, op. cit., 76-79; M. CIAN, Diritto commerciale, I, Torino, Giappichelli, 2014, 153; U. MINNECI, Trasferimento di azienda e regime dei debiti, Torino, Giappichelli, 2007, 164.

Con riguardo al contratto di locazione di bene immobile nel quale è ubicata l’attività produttiva aziendale si veda Cassazione civile, sez. III, 2 luglio 2010, n. 15700 secondo la quale, avendo riguardo alla disciplina dell'art. 36 l. 27 luglio 1978 n. 392, la cessione o l'affitto di azienda non producono l'automatica successione del cessionario nel contratto di locazione dell'immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell'azienda, in quanto la successione è soltanto eventuale e richiede comunque la conclusione, tra cedente e cessionario dell'azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione, senza necessità, in tale seconda ipotesi, del consenso del locatore, in deroga all'art. 1594 c.c., ma salva comunque la facoltà di quest'ultimo di proporre opposizione per gravi motivi, entro trenta giorni dalla avvenuta comunicazione della cessione del contratto di locazione insieme all'azienda, proveniente dal conduttore.

[28] Si pensi al caso della successione in un contratto di vendita a consegne ripartite in cui il venditore debba eseguire l’ultima delle consegne ed il prezzo unitariamente determinato per tutti i beni consegnati e da consegnarsi debba essere pagato dal compratore, cedente l’azienda, contestualmente all’esecuzione dell’ultima consegna.

[29] La medesima situazione si attua anche nelle ipotesi di affitto d’azienda e di cessione in presenza di obbligazioni propter rem connesse ad immobili compresi nel complesso aziendale.

[30] Cass. Civ., Sez. III, 30 giugno 2015, n. 13319, laddove si afferma “L’art. 2558 c.c. è quello che più degli altri esprime la volontà del legislatore di tutelare l’unità dell’azienda, in quanto prevede il trasferimento, senza bisogno del consenso delle altre parti, di tutti i rapporti stipulati per l’esercizio dell’azienda. La norma prevede quindi il trasferimento sia dei contratti volti all’acquisizione di beni o servizi funzionali di beni e servizi per l’esercizio dell’azienda, cosiddetti contratti di azienda, sia dei contratti relativi ai rapporti in corso con la clientela, definiti contratti di impresa.

Questa disposizione fa si che l’acquirente possa acquisire immediatamente beni o servizi funzionali all’esercizio dell’azienda e contemporaneamente entrare in contatto con la clientela stessa.

L’applicazione di tale norma presuppone chiaramente che il contratto non abbia avuto esecuzione da entrambe le parti, in quanto in ipotesi di un contratto già eseguito, residuerebbe o un credito o un debito, il cui trasferimento è disciplinato dagli artt. 2559 e 2560 c.c.”. Resta tuttavia fermo quanto sopra precisato in ordine ai contratti a prestazioni corrispettive di durata.

[31] Solo per segnalare che in ambito societario, con specifico riferimento alle società a responsabilità limitata, quando si ha a che fare con la cessione di complessi aziendali, pur restando ferma la competenza riconosciuta al Consiglio di Amministrazione di predisporre e adottare il piano attestato di risanamento, la prassi operativa vede frequentemente ignorato (e conseguentemente violato) il disposto di cui all’art. 2479, primo comma, n. 5), c.c.; invero tale norma, come è noto, attribuisce inderogabilmente ai soci la decisione relativa al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale e tra le quali rientra, senza dubbio, pure la vendita dell’azienda e, verosimilmente o quantomeno potenzialmente, anche la cessione del solo ramo d’azienda.

[32] Il riferimento è sempre a Cass. Civ., Sez. III, 30 giugno 2015, n. 13319, secondo la quale il cessionario del ramo non sarebbe tenuto a rispondere, nemmeno pro quota, dei debiti contratti per far fronte a spese generali.

[33] Per i profili di responsabilità penale si veda, ex multis, Cass. Pen., Sez. V, 30 aprile 2015 n. 18208; per la giurisprudenza di merito v. Trib. Udine, 3 maggio 2016.

[34] Mancherebbe qui la consueta fase del closing.

[35] L’art. 1360 c.c. stabilisce infatti che la retroattività degli effetti dell’avveramento della condizione - che è la regola di default - può essere esclusa per volontà delle parti o per la natura del contratto.

[36] E’ vero peraltro che la retroattività degli effetti dell’omologa, se correlata alla irretroattività della condizione alla quale è sottoposto il contratto di cessione d’azienda, può - almeno così pare potersi opinare - influire sull’estensione della responsabilità del cessionario ai sensi dell’art. 2560, secondo comma, c.c., anche laddove si costruisca la stessa come assunzione del debito altrui.

[37] Rischio, questo, tanto più vero laddove si consideri che la Suprema Corte – con la recente sentenza resa a Sezioni Unite del 27 dicembre 2016, n. 26989 – ha riconosciuto, ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso il provvedimento della Corte d’Appello che abbia deciso sull’opposizione al decreto di omologazione di un accordo di ristrutturazione emesso dal Tribunale.

[38] Che recita “Tuttavia essi conservano impregiudicati i diritto contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”.

[39] Che ammette la liberazione del debitore originario.

[40] C. TRENTINI, Piano attestato di risanamento e accordo di ristrutturazione dei debiti, Milano, IPSOA, 2016, pp. 315, 391 e 438; S. DELLE MONACHE, Profili dei “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ., 2013, 557.

[41] Operando la stessa solo rispetto ad uno dei condebitori (il cedente) e non già direttamente sulla obbligazione ma “attraverso un particolare stato, una particolare condizione che esso venga a determinare sulla persona di quel consorte, di guisa che gli effetti sull’obbligazione siano solo una conseguenza di quello stato, di quella condizione.”,. Tale invero pare essere la situazione che ricorre nel caso degli accordi di ristrutturazione, ove il beneficio della moratoria trova il suo indiscusso fondamento nel provvedimento di omologa che, a sua volta, presuppone un vaglio legale positivo di un’attività negoziale per così dire qualificata posta in essere da un peculiare soggetto (imprenditore in stato di crisi). Ciò che pare marcare in modo sensibile le differenze rispetto alla fattispecie del mero accordo di dilazione di pagamento. Così D. RUBINO, Obbligazioni alternative, in solido, divisibili e indivisibili, Bologna, Zanichelli, 1968, 214 ss. il quale coerentemente considera l’eccezione derivante da un accordo di moratoria, quale eccezione personale, ma non strettamente personale

[42] RUBINO, op. cit. L’autore annovera proprio l’art. 2560, secondo comma, c.c., nelle ipotesi di obbligazioni di fonte legale poste ad esclusivo interesse di uno dei condebitori, rispetto alla quale eventuali accordi di moratoria stipulati preventivamente alla cessione darebbero al coobbligato (nel nostro caso il cessionario dell’azienda) la facoltà di opporre la relativa eccezione.

[43] Mentre per RUBINO (op.cit. 218-219) l’art. 1297 c.c. si applica anche alle eccezioni opponibili dal debitore privo di interesse proprio, non potendo farsi ricorso al disposto di cui all’art. 1945 c.c. poiché non applicabile al caso di specie né in via diretta né in via analogica, per BIANCA occorrerebbe invece aderire alla tesi opposta. C.M. BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, Giuffrè, 2015, 715-716.

[44] In forza della quale “concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari”.

[45] Sebbene questa soluzione, per lo meno nell’esperienza quotidiana, non rappresenti un’opzione a costo zero in termini di prontezza e flessibilità nella conduzione dell’impresa in crisi, tanto più se l’impresa, come sovente accade, attraversa una crisi di lunga data.

[46] La stessa fa infatti riferimento a contratti “ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso”.

[47] Tribunale di Genova, 3 marzo 2000, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2000, 810.

[48] Naturalmente, qualora l’atto traslativo della proprietà dell’azienda, in relazione alla componente immobiliare di quest’ultima, sia soggetto a trascrizione, occorrerà menzionare l’esistenza della condizione sospensiva (sulla cui possibile e mutevole configurazione si è già detto) nella relativa nota (art. 2659, comma secondo, c.c.). In caso di omissione di tale formalità, ritenendo che la stessa assolva la medesima funzione della trascrizione, il terzo sub acquirente potrebbe efficacemente opporre il suo acquisto all’alienante anche nell’ipotesi in cui l’evento condizionale sospensivo non si fosse verificato. Ad antitetica conclusione non potrebbe che pervenirsi ove si ritenga che l’art. 2644 c.c. non possa che trovare applicazione alle sole ipotesi espressamente individuate in tale disposizione. Così F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, 940.

[49] Ma non può non rammentarsi, oltre all’inequivoco disposto dell’art. 2559 c.c. con riguardo ai crediti aziendali, la tesi sostenuta da autorevole dottrina (COLOMBO, op. cit., 41-45; T. AULETTA, Dell’azienda, in Riv. Soc., 1963, 472 ss.) secondo la quale la priorità dell’iscrizione varrebbe comunque, sebbene in via residuale, a risolvere i conflitti tra più acquirenti la medesima azienda dallo stesso alienante: questo, però, solo rispetto a quei beni per i quali la legge non prevede regole specifiche di soluzione dei conflitti tra più acquirenti e, rispetto agli altri beni, solo se e fino a quando la formalità specificamente prescritta non sia stata attuata.

In una prospettiva concorsuale e restringendo l’indagine al solo scenario concordatario (nel quale, come la prassi insegna, il fenomeno traslativo anticipato e condizionato potrebbe ricorrere con maggior frequenza), sembrerebbe non porsi alcun problema interpretativo, posto che l’efficacia dell’atto di trasferimento è destinata a collocarsi in una fase nella quale, in ogni caso, l’art. 45, primo comma, L.F., (reso applicabile in forza dell’art. 169 L.F.) non è più operante e la traslazione del complesso aziendale, sopravvissuta alle forche caudine delle offerte concorrenti, è a tutti gli effetti atto esecutivo del piano e della proposta concordatari.

Fermo quanto sopra e data per acquisita la rilevanza della pubblicità camerale rispetto alla regola di cui all’art. 45, primo comma, L.F., occorre ricordare come dottrina maggioritaria e prassi, superando, con riguardo alle sole pubblicità c.d. secondarie (annotazioni, cancellazioni), il principio di tipicità degli atti soggetti ad iscrizione nel Registro delle Imprese, consentano oggi di assolvere all’onere di pubblicizzare il verificarsi o il mancato verificarsi dell’evento dedotto nella clausola condizionale sospensiva, quale esso sia. Chiaramente, dell’esistenza della clausola condizionale occorrerà dare atto in sede di originaria iscrizione nel Registro delle Imprese dell’atto di trasferimento.

[50] In questo senso si veda l’Orientamento n. 58 dell’Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti riuniti di Firenze, Prato e Pistoia.


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