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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 03/02/2022 Scarica PDF

Ancora sull'art. 92 c.p.c. - Appunti riassuntivi e note in ordine sparso a margine della ordinanza interlocutoria n. 28048 del 2021 [1]

Micaela Lopinto, Avvocato in Brescia


Sommario: Abstract; 1. Premessa: un breve riepilogo di un precedente scritto; 2. Segue: il contrasto dottrinale e giurisprudenziale emergente dall’ordinanza interlocutoria; 3. Ancora: il caso concreto; le prime conclusioni offerte dall’ordinanza interlocutoria; 4. Conclusioni: dal processuale civile, passando per il civile, fino al diritto amministrativo. Bibliografia: letture, dottrina e giurisprudenza utilizzate.

   

Abstract Ita

Il presente contributo vuole soffermare l’attenzione su una recente pronuncia del 2021, al fine di arricchire di nuove sfumature le statuizioni di pronunce passate della Corte costituzionale. Si coglierà, inoltre, l’occasione per approfondire in chiave critica alcuni dettagli che, pur essendo nati nel terreno processualcivilistico, costituiscono un ottimo substrato per affrontare numerose questioni civilistiche ed amministrativistiche, dalla compensatio lucri cum damno all’art. 26 cpa.

 

Abstract Eng

The following paper focuses on a recent interesting judgement which is able to add a considerable number of new shades to the principles issued in a past judgement of the Constitutional Court. Moreover, this research wants to study the details of these judgements in depth and critically, because of their ability to be applied not only in civil procedure matter, but also in civil (for instance, discussing about the “compensatio lucri cum damno”) and administrative law, for example, discussing about the article no. 26 Italian Code of administrative procedure (the legislative decree no. 104 of 2 July 2010, which cannot be mixed up with the Law no. 241 of 1990, broadly speaking translated in the same way, nevertheless it contains the administrative proceedings).

 

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1. Premessa: un breve riepilogo di un precedente scritto.

Al fine di meglio cogliere alcune sfumature di una recente ordinanza interlocutoria, appare opportuno non solo rinviare ad un precedente contributo (specie per quel che concerne la nozione di soccombenza reciproca[2] la cui portata operativa, paradossalmente ed a seguito delle modifiche normative, sembrava essere aumentata a dismisura per sopperire a quella che si è definita una forma di “eccessiva tipizzazione” dei motivi di compensazione), ma provare ad evidenziarne alcuni aspetti. Si è detto qualche anno[3] fa che l’eccessivo potere equitativo della Francia dell’800 era stato recepito nel codice del 1865 e che tra il 2005 ed il 2009 l’art. 92 c.p.c. era stato oggetto di modifiche che avevano recepito la necessità di evitare, da un lato, l’abuso processuale della parte attrice/ricorrente, dall’altro, la carenza di motivazione del giudice (Anno 2005: i ‘giusti motivi’ si trasformano in giusti motivi ‘esplicitamente indicati nella motivazione’. L’obiettivo della modifica era probabilmente quello di “spegnere” le critiche inerenti alla carenza di motivazione, percepita come una scelta (forse tendente verso l’arbitrarietà?) dell’organo giudicante. Anno 2009: i giusti motivi mutano ancora forma e diventano ‘gravi ed eccezionali ragioni’. Sebbene, di fatto, nessuna indicazione chiara vi era prima su cosa significasse giusto motivo e nessuna indicazione chiara vi fu dopo sul significato della locuzione del 2009, l’esser passati ad un uso terminologico più facilmente percepibile, più eclatante, indusse a ritenere che il legislatore avesse ridotto lo spazio di azione del giudicante”). Si è detto ancora che nel 2014, con le novelle normative, si era giunti ad una eccessiva tipizzazione dei motivi di compensazione (Anno 2014: il legislatore, dunque, sostituisce la clausola ‘gravi ed eccezionali ragioni’ con due ipotesi nominate identificabili nella novità della questione trattata e mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti (prescindendo dalla soccombenza reciproca, mai mutata ma,[…], anch’essa difficilmente definibile), identificabili nella novità della questione trattata e mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. La ratio di questo ulteriore e forse poco riuscito intervento legislativo emerge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge n. 132 del 2014 nella quale si legge che ‘nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione’. L’intervento normativo, dunque, doveva essere funzionale a garantire lo ‘sgombero’ delle aule dei Tribunali, fin troppo affollate”) a loro volta scardinati dalla pronuncia di legittimità costituzionale del 2018. Con essa si sono ripristinati i valori di uguaglianza, il diritto alla piena tutela giurisdizionale e si è ricondotto a criteri di ragionevolezza il comma secondo dell’art. 92 c.p.c. disponendo, nel PQM, che deve essere dichiarata:

“l’illegittimità costituzionale [della suddetta norma] nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

A tale intervento costituzionale, come si è detto qualche anno fa, si è mossa la classica critica del cd. ritorno al passato, alla equità, alla discrezionalità generale dell’organo giudicante nell’applicazione dell’istituto e nella scelta delle ragioni per le quali l’istituto può essere utilizzato in sentenza. A tal critica si è contrapposta la visione di chi ha, invece evidenziato che la rigidità della tassatività dei motivi di compensazione lede il diritto alla tutela giurisdizionale, il canone del giusto processo e che la mitigazione degli effetti negativi della tipizzazione mediante la dichiarazione di illegittimità non importa di certo un ritorno alla carenza motivazionale, dal momento che il giudicante sarà chiamato a motivare in ordine all’esistenza nel caso concreto delle ragioni che stanno alla base del criterio della soccombenza. Pertanto, la pronuncia, di fatto, non ha riespanso illimitatamente il potere del giudicante nel momento in cui si dovesse voler leggere il PQM, poc’anzi riportato, in combinato con la parte della sentenza che tocca il tema delle “situazioni imprevedibili”. Secondo tale visione, l’espansione del potere sarebbe limitata alle situazioni impreviste ed imprevedibili che non potevano rientrare nelle ipotesi tipizzate. Seguendo questa impostazione, la pronuncia della Corte costituzionale avrebbe ridimensionato gli effetti negativi delle modifiche del 2014 senza sconfinare in un ritorno all’eccessivo potere dell’organo giudicante svincolato perfino dalle motivazioni.


Riferimenti normativi

La disposizione (o meglio, la formulazione della disposizione) oggetto di discussione è la seguente: “[Art. 92: Rubrica: Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese]. Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte. Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero (1). Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.

 (1)Comma così sostituito dall’art. 13, comma primo, del D.L. 12 Settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, nella L. 10 Novembre 2014, n. 162. Ai sensi dell’art. 13 comma secondo, la disposizione trova applicazione in relazione ai procedimenti introdotti a decorrere dal 30° giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. La Corte costituzionale, con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma, nel testo modificato dall’art. 13, comma primo, del D.L. n. 132/2014, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensarele spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.

 

2. Segue: il contrasto dottrinale e giurisprudenziale emergente dall’ordinanza interlocutoria.

Questione

Premesso che, come poc’anzi a più riprese indicato, la Corte costituzionale, con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, si è pronunciata in termini di illegittimità costituzionale nel momento in cui non si prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, occorre ora risolvere il seguente quesito (aggiungendolo alle riflessioni precedentemente svolte non solo in merito all’evoluzione normativa, bensì anche in relazione al concetto di soccombenza reciproca, di cui si è ampiamente discusso nel precedente contributo e di cui si sono forniti ulteriori estremi giurisprudenziali più recenti nella nota 2) domandandoci: “Se l’art. 91 c.p.c. consenta di condannare alla rifusione delle spese di lite in favore della controparte l’attore che abbia visto sì accogliere la propria domanda, ma in misura notevolmente inferiore rispetto a quanto richiesto”.


Primo orientamento

L’attore che – per ipotesi – chiedesse ‘100’, e vedesse accogliersi la domanda per ‘10’, non potrebbe ritenersi ‘soccombente’ per i fini di cui all’art. 91 c.p.c. e quindi non potrebbe mai essere destinatario, nemmeno in minima parte, di una condanna alle spese. Ad avviso di questo orientamento infatti la riduzione, sia pure sensibile, della somma richiesta con la domanda giudiziale, non vale a realizzare il concetto di soccombenza ai fini dell’attribuzione dell’onere delle spese e può, quindi, solo consentire la relativa compensazione totale o parziale”.


Secondo orientamento

“[Si] ritiene invece che sussista una ipotesi di ‘soccombenza’ in senso tecnico anche quando l’attore abbia formulato una sola domanda, articolata in un unico capo, la quale venga accolta in misura quantitativamente inferiore al richiesto. Questo principio è stato affermato da innumerevoli decisioni. Esso è stato […] sostenuto con maggiore spessore di argomentazioni da Sez. 3, Sentenza 3438 del 22/02/2016. Tale sentenza aveva ad oggetto una fattispecie processuale in cui: 1.) il titolare di un credito aquiliano vide accolta la propria domanda in primo grado; 2.) il creditore propose tuttavia appello per ottenere una più cospicua liquidazione del danno; tale gravame venne accolto, ma in misura inferiore a quanto richiesto; 3.) il giudice d’appello condannò l’appellante vittorioso alla rifusione in favore dell’appellato soccombente dei tre quarti delle spese di lite, compensando la parte restante. La sentenza di questa Corte n. 3438 del 2016, con ampia motivazione ritenne corretta la decisione del giudice d’appello, in base ad argomenti così riassumibili: a.) la parte che vede accolta la propria domanda in misura inferiore a quanto richiesto è tecnicamente un ‘soccombente’: prova ne sia che altrimenti non avrebbe titolo per proporre alcune impugnazioni, e dunque, in quanto ‘soccombente’, ben può essere condannato alle spese in favore della controparte; b.) la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere ‘maggiori oneri’ di difesa; infatti, le spese sostenute dal convenuto per remunerare il proprio difensore saranno parametrato al petitum non al decisum; sicché sarebbe iniquo lasciare a carico del convenuto spese causate dalla eccessiva pretesa di controparte; c.) l’art. 92 c.p.c. stabilisce quando le spese possano essere compensate anche in parte, ma non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate: e dunque consente la condanna anche a carico della parte ‘poco vittoriosa’, vale a dire vittoriosa solo in parte o solo in minima parte”.


Contrasto

Il contrasto, dunque, riguarda l’ipotesi in cui all’esito del giudizio si registri un rilevante divario tra petitum e decisum. Mentre alcune decisioni ritengono che ricorra in tal caso un’ipotesi di soccombenza reciproca (o parziale: la terminologia non è costante, e le due definizioni sono talora usate come sinonimi, talora no) altre ritengono che ricorra soltanto un ‘giusto motivo’ ex art. 92 c.p.c. per la compensazione delle spese. L’ovvia conseguenza è che il primo orientamento ammette nella suddetta ipotesi non solo la compensazione delle spese, ma anche la condanna dell’attore ‘esoso’ alla rifusione delle spese in favore della controparte. Il secondo orientamento, invece, ammette nella suddetta ipotesi solo la compensazione delle spese, ma non anche, neppure in parte, la condanna della parte che sia risultata vittoriosa in misura inferiore al richiesto. Nel caso di specie, aderendo al primo degli orientamenti più sopra ricordati, il ricorso dovrebbe giudicarsi infondato, dal momento che l’odierno ricorrente è stato parzialmente soccombente (la sua opposizione, infatti, fondata su più motivi, è stata accolta solo su un punto e solo in misura largamente inferiore a quanto preteso): e la parte ‘parzialmente soccombente’ potrebbe, secondo quell’opinione, essere condannata in parte alle spese di lite. Se, invece, si aderisse al secondo degli orientamenti di cui si è detto, il ricorso sarebbe fondato”.

 

3.Ancora: il caso concreto; le prime conclusioni offerte dall’ordinanza interlocutoria.

Il caso concreto

Con l’ausilio della sentenza, come si è fatto nel precedente paragrafo, con suddivisione per questioni ed orientamenti, al fine di risparmiare al lettore lo sforzo del testo integrale, si può ricordare che: “Tizio”, “Caio”, “Sempronio”, “Mevio” e “Mevia” ebbero una lite giudiziaria con “Caia”.

All’esito di quel giudizio, la Corte d’Appello di Napoli condannò “Caia”, a rifondere alle controparti le spese di lite, quantificate in euro XXX al netto di IVA e contributo previdenziale destinato alla cassa avvocato. Le parti creditrici, forti di tale sentenza, intimarono precetto a “Caia”, chiedendo il pagamento della somma di euro XXX.

Tale somma venne così determinata nel precetto: a) euro XXX pari all’importo liquidato nel titolo esecutivo, maggiorato di IVA e cassa avvocati; b) euro XXX, a titolo di spese ed onorari dovuti per l’atto di precetto.

Caia” propose opposizione a precetto dinanzi al Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia. A fondamento dell’opposizione dedusse che il precetto presentava vari profili di nullità (carenza di procura, omessa indicazione della data di notifica del titolo, omessa indicazione della data di apposizione della formula esecutiva); che le somme precettate erano maggiori di quelle indicate nel titolo esecutivo; che i compensi professionali pretesi per la notifica del precetto erano errati per eccesso, in quanto il valore della causa andava determinato in base al valore nominale della somma portata dal titolo esecutivo, al netto dell’IVA e del contributo per la Cassa avvocati.

Con sentenza del n. 29 del 2017 il Tribunale di Napoli, sezione di Ischia, accolse in parte l’opposizione. Il Tribunale ritenne che: a) la somma indicata nel titolo esecutivo era stata erroneamente maggiorata, nel precetto, di euro XXX; b) il valore della causa, ai fini della determinazione degli onorari dovuti per il precetto, andava determinato in base all’importo risultante dal titolo esecutivo, al netto dell’IVA e del contributo per la Cassa avvocati.

Eseguiti i dovuti conteggi, il Tribunale stabilì che l’ammontare effettivo del credito e degli onorari per il precetto ammontava ad euro XXX, e dunque era inferiore di euro XXX rispetto alla somma precettata (pari, come s’è detto, ad euro XXX). La decisione venne impugnata dai creditori (“Tizio”, “Caio”, “Sempronio” e “Mevio”). La Corte d’appello di Napoli con sentenza n. 3318 del 2018 accolse parzialmente il gravame e rideterminò la pretesa creditoria in euro XXX. In sostanza, all’esito di due giudizi di merito l’importo precettato risultò decurtato – e quindi l’opposizione risultò fondata – nei limiti di euro XX.

Quanto alle spese del doppio grado di giudizio, la Corte d’appello le compensò per un decimo e pose i restanti nove decimi a carico del debitore opponente “Caia”.

Quest’ultimo, pur vittorioso sull’opposizione per XX euro, fu condannato a pagare ai quattro creditori cumulativamente la somma di euro XXX per il primo grado di giudizio ed euro XXX per grado di appello (al netto della compensazione del 10%).

 Avverso la suddetta sentenza “Caia” ha proposto ricorso per cassazione basato su un solo motivo. Le controparti sono rimaste intimate. Il ricorso, già fissato per la trattazione dinanzi alla sesta sezione di questa Corte, nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., con ordinanza interlocutoria 16 giugno 2020, n. 11606, è stato rimesso alla pubblica udienza del 20 aprile 2021.


Le prime conclusioni offerte dall’ordinanza interlocutoria

Agli occhi dell’organo rimettente non appare soddisfacente l’orientamento che consente la condanna della parte ‘parzialmente vittoriosa’ alla rifusione delle spese di lite, sia sul piano della interpretazione letterale, sia sul piano dell’interpretazione logica, sia sul piano dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

Sul piano della interpretazione letterale, condannare la parte che ha visto accolta la propria domanda, sia pure solo in parte, è conclusione che trascura il rapporto che la dottrina da sempre ravvisa tra gli artt. 91 e 92 c.p.c., il quale è un rapporto di regola ad eccezione. L’art. 91 c.p.c., infatti, detta la regola generale victus victori (a livello dottrinale, anche per i riferimenti offerti, R. DI GRAZIA); l’art. 92 c.p.c. consente tre deroghe a quella regola, la quale non s’applica quando la parte vittoriosa abbia violato il dovere di correttezza, quando vi sia soccombenza reciproca o quando ricorrano “gravi motivi” (Nb. Come la stessa pronuncia in commento testualmente ricorda “quest’ultima ipotesi è quella risultante dall’intervento manipolativo della sentenza della Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77”). Il rapporto di regola ad eccezione esistente tra l’art. 91 e l’art. 92 c.p.c. ha per ovvia conseguenza che, venuto meno il presupposto dell’eccezione, risorgerà la regola. Dunque, se vi è soccombenza reciproca o parziale ed il giudice decida di compensare le spese solo in parte, l’aliquota di spese che il giudice ritenesse di non compensare resta disciplinata dall’art. 91 c.p.c.

Concludendo su questo punto, “non sembra dunque condivisibile l’argomento speso dall’orientamento di cui si dubita, secondo cui l’art. 92 c.p.c. stabilisce quando le spese possano essere compensate anche in parte, ma non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate. E’, vero, piuttosto, l’esatto contrario, l’art. 92 c.p.c. “non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate” per l’ovvia ragione che non aveva bisogno di farlo, dal momento che a tanto provvede l’art. 91 c.p.c.”.

Sul piano dell’interpretazione logica, reputa il Collegio non condivisibile l’argomento secondo cui “la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa, sicché sarebbe iniquo lasciare a carico del convenuto spese causate dalla eccessiva pretesa della controparte”. Le ragioni del mancato raggiungimento di un incontro di posizioni sono affidate a due motivi principali, uno dei quali suddiviso in altri quattro sottomotivi.

Con particolare riferimento al primo motivo, la Corte evidenzia come la dottrina sia incline a sostenere che il diritto al rimborso delle spese non si manifesta come diritto preesistente alla sentenza, bensì nasce con essa.

Con riferimento, invece, al secondo motivo, la Corte sostiene che la considerazione riassumibile nella seguente citazione testuale “la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa” non convince, in primo luogo, perché confonde il profilo delle spese di soccombenza con quello delle spese di resistenza.

Inoltre: a.) il codice di procedura civile, agli artt. 91 e 92 c.p.c., si occupa solo delle spese di soccombenza ma si disinteressa delle spese di resistenza; b.) con riferimento alle spese di soccombenza, nel caso di domanda di condanna risultata eccessiva, il soccombente è tutelato dal principio per cui le spese dovute alla parte vittoriosa vanno liquidate in base al decisum e non in base al petitum;  c.) con riferimento agli oneri di remunerazione del difensore sostenuti dalla parte convenuta non potrebbe mai giustificare la condanna alle spese della parte vittoriosa, in quanto: 1.) se l’eccessiva onerosità era evidente, il soccombente è tutelato dall’art. 5 comma secondo, dm. 55/14; 2.) se l’eccessiva onerosità non era evidente, la parte vittoriosa non potrebbe mai essere condannata alle spese: sia perché in questo caso i ‘maggiori oneri’ sostenuti dal convenuto non potrebbero dirsi inutili; sia perché mancherebbe la colpa dell’attore; sia perché mancherebbe la causalità tra l’iniziativa attorea ed i suddetti ‘maggiori oneri’; d.) in ultima analisi, la Corte afferma che potrebbe risultare velleitario pretendere di distinguere gli oneri dai cd. maggiori oneri.

 

4. Conclusioni: dal processuale civile, passando per il civile, fino al diritto amministrativo.

La Corte, a mò di motivo conclusivo, ricorda come la dottrina abbia sempre segnalato gli abusi della giurisprudenza nell’interpretazione delle norme sulla regolazione delle spese. La stessa, più precisamente, affronta e ricorda il tema dell’ampliamento giurisprudenziale della discrezionalità nell’atto della compensazione e, dunque, nei provvedimenti. Forte di questa considerazione, con l’ordinanza interlocutoria, si rivolge alle Sezioni Unite con il testuale (e consequenziale) quesito: “se sia corretta e costituzionalmente orientata l’interpretazione dell’art. 92 c.p.c. secondo cui, nel caso di rilevante divario tra ‘petitum’ e ‘decisum’, l’attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di una aliquota delle spese in favore della controparte”. Tale questione non è di poco momento poiché, a conti fatti, ricalca la (seppur sempre diversa) questione concettuale connessa alla compensatio lucri cum damno (a sua volta da non confondere con la compensazione delle spese ex art. 1241 cc., in tutte le sue declinazioni e nella sua variante tecnica ed atecnica, con cui pure potrebbero essere svolti interessanti parallelismi aventi scopo illustrativo, pur nella consapevolezza della diversità di requisiti e della diversità di ambito applicativo dell’istituto), ed impone di tener conto delle ripercussioni delle decisioni prettamente processualcivilistiche nella sfera di azione applicativa e pratica del diritto amministrativo; ciò in quanto, con l’art. 26 del Codice del Processo Amministrativo, rubricato spese di lite, il legislatore, non ha caso ed in ragione della forte connessione esistente tra il processuale civile ed il processuale amministrativo, ha scelto di rinviare proprio de plano agli artt. 91 e 92 c.p.c. del Codice di procedura civile. La disposizione, per l’esattezza, prevede che “1.) Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’articolo 3 comma 2. In ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati. 2.) [secondo comma omesso]”. Con particolare riferimento al rapporto tra compensazione delle spese ex art. 92 c.p.c. e compensatio lucri cum damno,pur dovendo essere pienamente consapevoli della diversità dei due piani (sostanziale e processuale) su cui operano questi due istituti (diversità concettuale evidenziata con vigore nella manualistica più frequente) e, soprattutto, pur dovendo essere consapevoli degli specifici requisiti che caratterizzano la compensatio, anche alla luce della evoluzione dottrinale e giurisprudenziale intervenuta tra il 2017 ed il 2018, non può non notarsi come il periodo del quesito dell’ordinanza interlocutoria “l’attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di una aliquota delle spese in favore della controparte” in un certo senso sembri rispondere alle logiche puramente civilistiche (sostanziali) che impongono di riequilibrare la situazione patrimoniale del soggetto, riconducendola al cd. (volendo usare una locuzione davvero atecnica, colloquiale, ma che rende l’idea) “prima dell’evento”, senza ingiustificate locupletazioni, ragionando sui criteri di causalità (anche alla luce dell’art. 1227 cc.) ed  integralità del ristoro; ciò che occorrerà valutare (in aggiunta rispetto alle questioni già precedentemente evidenziate) a conti fatti è se la vittoria parziale, su un piano processuale, debba essere valorizzata così come debba essere valorizzata la divergenza concettuale che si cela dietro alle assonanze terminologiche tra diritto processuale e diritto civile sostanziale (nonostante il riferimento esplicito ai cd. maggiori oneri, alla inversione logica evidenziata tra momento della nascita del diritto alle spese che, paradossalmente, viene anticipato e momento di instaurazione del giudizio che, ancora paradossalmente, viene posticipato ed alla generale confusione creatasi tra decisum e petitum) oppure se possa essere dequotata (compensando il carattere parziale dell’esito del giudizio con una parziale rifusione delle spese in favore dell’avversario) seguendo logiche che somigliano a quelle tipiche degli istituti sostanziali terminologicamente simili poc’anzi richiamati (sul punto, come in nota, M. FERRARI, la quale, nell’elencare le diverse declinazioni concettuali della compensazione processuale e civile, ricorda come l’unico limite riferito alla compensabilità delle spese processuali sia la vittoria unica e piena dell’attore, poiché l’accoglimento totale della domanda giudiziale rende illegittima la compensazione delle spese, così aprendo le porte, in chiave critica, a parallelismi più semplici tra sostanziale e processuale in ipotesi di vittoria parziale)[4]. Non sfugge a chi scrive la circostanza secondo la quale le spese siano un quid pluris, calcolato con il classico dm. 55/2014, rispetto ad eventuali poste risarcitorie. Ma è innegabile che il concetto di vittoria o soccombenza sia connesso all’accoglimento o meno della domanda e, dunque, alla corresponsione o meno, ad esempio, del risarcimento. Pertanto, pur dovendo essere ben consapevoli delle diversità degli istituti e delle discipline, il parallelo, ai fini risolutivi della questione, non è affatto peregrino. Si tratterà, in fin dei conti, di decidere se la parte vittoriosa solo in parte possa far ricadere sulla controparte il peso di un giudizio che, per metà (o per un importo notevolmente inferiore, con quel che ne consegue in ordine alla capacità di autodeterminazione e di formulazione delle difese anche in termini di capacità deflattiva della consulenza legale, che potrebbe portare ad evitare il giudizio ed a  risolvere la controversia in via stragiudiziale), poteva essere evitato o se, per contro, potrà essergli addebitata una quota; logica questa che innegabilmente richiama, se non la compensatio nella sua accezione più tecnica (alla luce dei suoi requisiti anche post SSUU del 2018 e CdS del 2018 e fermo restando il suo richiamo in questa sede a scopo più illustrativo che realmente applicativo), quantomeno le logiche, anche selettive, della causalità, che rappresentano, non a caso (con un giro di parole che somiglia alla classica situazione di chi esce dalla porta e rientra dalla finestra) il cuore delle varie forme di compensazione conosciute nel diritto sostanziale, oltre che criterio fondante della responsabilità civile qui intesa in senso lato, anche in termini di attribuzione di rilievo alle condotte colpose del danneggiato (la tesi è sostenuta anche da  F. ANTONIO GENOVESE, C. ILARIA RISOLO; nell’opera, datata, si badi bene ai fini dell’evoluzione normativa indicata nel primo §, 2010, come in riferimenti bibliografici, si chiarisce che […] secondo l’orientamento tradizionale affermato in dottrina, la possibilità per il giudice di compensare le spese del processo si fonda invece sul principio di causalità, la cui applicazione importa che sia condannata alle spese la parte che, attraverso il proprio comportamento antigiuridico, cioè posto in violazione di norme di diritto sostanziale, ha provocato la necessità del processo”.Gli autori, tuttavia, danno atto dell’esistenza di orientamenti più recenti che leggono l’art. 92 c.p.c., in particolare comma secondo, solamente in chiave processuale, considerando il comma secondo come fonte di responsabilità esclusivamente processuale”. Tale ragionamento, di conseguenza, si riflette nel diritto amministrativo, terreno che non solo ben conosce ed applica il principio di causalità degli addebiti nonché gli stessi principi (effettivi del o semplicemente sottesi all’) istituto della compensatio lucri cum damno, bensì ha risentito dell’impatto della sentenza della Corte Cost. n. 77 del 2018, al punto che la stessa è presente oggi in quasi ogni volume o collana dedicata al processo amministrativo. Non si può pertanto far altro che attendere le evoluzioni e gli spunti dottrinali che deriveranno dall’ordinanza in esame e dalla risposta al quesito evidenziato non solo nell’ambito del diritto processuale civile bensì anche nel terreno del diritto amministrativo.


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Bibliografia: letture, dottrina e giurisprudenza utilizzate.

Risorse in rete

M. LOPINTO, Compensazione delle spese ex art. 92 c.p.c.: origini, mutamenti legislativi e profili di ragionevolezza, In Riv. IlCaso.it, www.ilcaso.it, 23 Luglio 2018;

M. LOPINTO, La compensatio lucri cum damno tra problematiche dottrinali e recenti soluzioni giurisprudenziali, in Diritto.it, Novembre 2018;

Sui profili distintivi e sui punti di contatto tra compensazione civile e processuale civile: M. FERRARI, La compensatio lucri cum damno come utile strumento di equa riparazione del danno, Milano, Giuffré, 2008, http://books.google.it/books?id=AuGxbmv75hlC.

Risorse cartacee

R. DI GRAZIA, Sulla compensazione delle spese giudiziali in caso di soccombenza totale, In Riv. Diritto Processuale, Gennaio-Febbraio 2019, pp. 261 e ss;

Sulla applicazione del principio di causalità alla compensazione processuale: F. ANTONIO GENOVESE, C. ILARIA RISOLO, Le nuove leggi civili – La riforma del processo civile, Giuffrè, 2010, in particolare p. 67.



[1] La pronuncia è stata pubblicata sul sito ufficiale della Corte di cassazione,  www.cortedicassazione.it.

[2] Con particolare riferimento alla concezione di soccombenza reciproca, a mò di aggiornamento giurisprudenziale rispetto alle pronunce riportate nel precedente contributo: Cassazione civile sez. II, 08/10/2021, n.27364; Corte appello L'Aquila sez. I, 19/07/2021, n.1137; Consiglio di Stato sez. II, 30/11/2021, n.7962.

Ancora sulla compensazione delle spese in generale: Corte appello Reggio Calabria sez. I, 09/11/2021, n. 635.

[3] M. LOPINTO, Compensazione delle spese ex art. 92 c.p.c: origini, mutamenti legislativi e profili di ragionevolezza, in Riv. Ilcaso.it, www.ilcaso.it, 23 Luglio 2018.

[4] Le somiglianze e le differenze tra gli istituti del diritto processuale civile e la compensazione (anche atecnica) civilistica sono state evidenziate da:

 M. FERRARI, La compensatio lucri cum damno come utile strumento di equa riparazione del danno, Milano, Giuffré, 2008, pp. 6 e ss.


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