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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 12/10/2021 Scarica PDF

Sugli interessi del contratto. Presupposizione, causa, motivi e negozio di accertamento (nonchè Cass. II Sez. 14618 del 24 Agosto 2012)

Micaela Lopinto, Avvocato in Brescia


Sommario: Abstract; Premessa; 1. La presupposizione nella causa oggettiva; 2. I motivi del contratto alla luce della causa concreta; 3. Patologie: difetto di presupposizione e motivo illecito tra recesso e carenza di causa; 4. Prime conclusioni sulla rilevanza dell’interesse delle parti; 5. Ancora: il rilievo degli interessi nel negozio di accertamento; 6. Riflessioni conclusive sull’indagine svolta.

     

Abstract.

Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di sottolineare, in modo volutamente schematico, il rilievo assunto nel nostro ordinamento dagli interessi individuali attraverso l’analisi dell’istituto della presupposizione, dei motivi, della causa contrattuale e del negozio di accertamento. 

 

Premessa.

Il rilievo che gli interessi individuali assumono nel nostro ordinamento è non solo ben noto agli operatori del diritto, bensì rappresenta il cuore pulsante della disciplina generale dei contratti. La stessa causa del contratto è, secondo una fortunata espressione, sintesi degli interessi delle parti. L’indagine, pertanto, si prefigge l’obiettivo di evidenziare il loro rilievo all’esterno del contratto, all’interno di esso e come strumento di qualificazione perfino di schemi negoziali che, di per sé, hanno rappresentato un incredibile terreno di scontro dottrinale e giurisprudenziale (ad oggi, ancora non del tutto sopito).

 

1. La presupposizione nella causa oggettiva.

Agli artt. 1119, 1120, 1121 e 1122 cc. e ss. il legislatore del codice del 1865 chiariva che “l’obbligazione senza causa, o fondata sopra una causa falsa o illecita non può avere alcun effetto”; “il contratto è valido, quantunque non ne sia espressa la causa”; “la causa si presume sino a che non si prova il contrario”; “la causa è illecita, quando è contraria alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico”. L’elemento causale era, dunque, ancorato all’interesse soggettivo delle parti contraenti. Il codice, non a caso, parlava di causa dell’obbligazione e non concepiva la causa come elemento unitario, bensì la identificava nelle singole prestazioni contrattuali[1]. Tale rilievo consente di cogliere con maggiore evidenza la differenza rispetto alla concezione di causa fornita dal codice del 1942, oggi in vigore. Il legislatore del codice del 1942 concepisce la causa del contratto come funzione economico – sociale e, dunque, consente di ricostruirla in termini astratti, oggettivi ed unitari. La causa secondo la teoria oggettiva è espressione della scelta del legislatore di attribuire una determinata funzione al contratto. Ad esempio, il contratto di compravendita, tipizzato agli artt. 1470 cc. e ss., possiede una causa di scambio. Ogni tipo legale, pertanto, possiede una specifica causa, la quale prescinde dalla valutazione degli effettivi interessi rilevanti che hanno spinto le parti alla stipula del contratto (si parla, infatti, di appiattimento della causa sul tipo). La concezione oggettiva, contrapposta alla teoria della causa concreta – la quale, per contro, impone una ricerca degli interessi individuali, dello scopo pratico del negozio – impediva una reale incidenza degli interessi individuali all’interno dello schema contrattuale. Al fine di sopperire a tale mancanza, si è fatto in passato largo uso dell’istituto della presupposizione, di origini germaniche, ma diffuso nella nostra prassi. La presupposizione fa riferimento ad un evento passato, presente o futuro (a differenza della condizione, che si riferisce ad un evento solamente futuro ed incerto) cui si intende subordinare l’efficacia di un determinato contratto ma che si colloca esternamente rispetto ad esso. Esempio classico, riportato costantemente tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, è l’affitto di un balcone, ma al precipuo fine di assistere ad un concerto o ad uno spettacolo. L’istituto, dunque, consentiva di attribuire rilievo all’interesse effettivo ed ultimo (l’assistere ad uno spettacolo), che le parti intendono perseguire, pur senza averlo specificamente inserito nello schema contrattuale. La collocazione esterna della presupposizione è, volendo provare a fornire un esempio più concreto, paragonabile alla collocazione esterna dell’interesse suscettibile di valutazione economica nella gratuità non donativa.

 

2. I motivi del contratto alla luce della causa concreta.

Il passaggio dalla “causa oggettiva”, intesa come espressione della funzione economico-sociale del contratto alla “causa soggettiva” da valutare alla stregua di una funzione economico-individuale del contratto consente di rendere rilevanti all’interno dello schema contrattuale gli interessi ultimi ed individuali delle parti, sminuendo l’utilizzo dell’istituto della presupposizione. Più precisamente, la causa concreta rappresenta la sintesi degli interessi delle parti, è espressione dello scopo pratico del negozio ed aggiunge, pertanto, un quid pluris alla causa astratta del singolo contratto. La funzione concreta della causa contribuisce pertanto ad affievolire (senza rimuoverlo) il rilievo dell’art. 1345 cc., rubricato motivo illecito. La norma, retaggio della teoria oggettiva della causa, chiarisce che il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. Letta, tuttavia, alla luce della causa concreta, con cui si abbandona l’idea di una causa etero - imposta, la norma diventa utile più che altro per distinguere da un punto di vista strutturale i motivi (interessi) che si oggettivizzano nella causa dai motivi esterni che assumono rilievo solamente nel momento in cui dovessero essere considerati sia illeciti sia esclusivi.


3. Patologie: difetto di presupposizione e motivo illecito tra recesso e carenza di causa.

Chiariti, seppur succintamente, i concetti di “presupposizione” e “motivo” ancorati alla causa contrattuale, occorre domandarsi cosa accada nel momento in cui i due elementi dovessero l’uno venir meno e l’altro manifestarsi in forma illecita. Si potrebbe ritenere, errando, che, in verità, entrambe le mancanze denotino un difetto di causa concreta. La carenza di presupposizione, infatti, dà vita alla rimozione dell’interesse che, seppur esterno allo schema contrattuale, se letto alla luce della causa concreta, si oggettivizza in essa. Pertanto, la predetta carenza si trasforma in una carenza di causa in concreto. Lo stesso non può dirsi, invece, per il motivo illecito. Come si è avuto modo di vedere, anche nell’ambito della teorica della causa concreta, il motivo illecito resta pur sempre un elemento esterno alla causa contrattuale (poiché collegato ad intenti che non sono in grado in alcun modo di oggettivizzarsi) idoneo a determinare la caducazione del vincolo contrattuale, il quale si considera nullo. La caducazione per motivo illecito, dunque, da un lato, si manifesta quale espressione di un autonomo strumento di repressione delle patologie contrattuali; dall’altro, presenta punti di contatto con la “teoria del recesso dal contratto” che pure ha interessato l’istituto della presupposizione. Più precisamente, anche avendo riguardo alla causa in concreto, secondo un diverso orientamento, si è affermato che la collocazione esterna della presupposizione rispetto allo schema contrattuale rende, contrariamente a quanto si è affermato in precedenza, non applicabile il rimedio del difetto di causa. Pertanto è apparso opportuno, ai sostenitori della predetta tesi contraria, ricondurre la carenza di presupposizione nell’ambito della disciplina del recesso contrattuale[2].

 

4. Prime conclusioni sulla rilevanza dell’interesse delle parti.

In conclusione, si può affermare che l’interesse delle parti assume rilievo, incidendo così sul mantenimento degli effetti contrattuali, sia quando è esterno allo schema contrattuale sia quando è interno ad esso e, precisamente, insito nella causa astratta/concreta.

 

5. Ancora: il rilievo degli interessi nel negozio di accertamento.

Anche per il negozio atipico di accertamento assumono rilievo gli interessi individuali delle parti. Pur essendo lo stesso “concepito” normalmente per dissipare i dubbi in ordine ad un rapporto fondamentale, è ben possibile che si renda necessaria una indagine degli interessi ultimi ed “egoistici” che possono fondersi con la causa contrattuale[3]. Ad esempio, può essere utile valutare se la parte abbia inteso realmente porre in essere un negozio di accertamento o se, per contro, non si celi, in realtà, dietro alla causa volta a dissipare i dubbi in questione, una rinuncia alla proprietà, dal momento che il negozio di accertamento si presta ad essere ricondotto sia nelle maglie di uno schema negoziale a struttura bilaterale sia nelle maglie di uno schema a struttura unilaterale, e ciò a conferma della già asserita difficoltà del suo inquadramento; difficoltà emergente in modo lampante dallo stesso tenore delle sentenze più remote[4].


6. Riflessioni conclusive sull’indagine svolta.

A conclusione di questa breve indagine appare evidente che l’evoluzione che ha interessato gli interessi individuali delle parti ha portato ad una esaltazione della loro funzione di risoluzione delle controversie aventi ad oggetto la qualificazione dei contratti. Sembra, pertanto, che la loro funzione si possa apprezzare in modo particolare (o meglio, assume sfumature davvero interessanti) quando gli stessi sono collocati all’interno dello schema contrattuale.



[1] Tra tanti su questa tematica classica, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, p. 813 e ss.; ROPPO, Il contratto, Ed. II, Giuffré, p. 311 e ss. e p. 341 e ss.; BIANCA M. C., Diritto civile, 2000, Giuffré, Vol. III, p. 458 e ss.; sulla teoria soggettiva, in sintesi, FRATINI M., Compendio di diritto civile, IV Ed., 2016 – 2017, p. 544 e ss.; GALGANO F., Trattato di diritto civile, Vol. II, Cedam, p. 239 e ss.

[2] Sul tema, tra tanti, BIANCA M. C., Diritto civile, op. cit., pp. 463, 467 e ss.

[3] Il negozio di accertamento è stato oggetto di particolare attenzione sotto quattro punti di vista: ammissibilità, causa, effetti e disciplina dell’errore. Con questo contributo si coglie l’occasione per affrontare anche queste quattro questioni, seppur sinteticamente, in alcuni casi per deduzione, e  solo qui in nota, al fine di non appesantire il testo principale, il quale, visto il tema centrale, non renderebbe possibile affrontare pienamente anche le questioni controverse sorte in relazione al binomio “accertamento ed errore”. Anzi, partiamo proprio dalla disciplina dell’errore e poi proviamo ad affrontare incidentalmente il problema della causa (anticipando subito che non sono mancati sostenitori della astrattezza del negozio) e degli effetti. Al riguardo può essere utile ricordare come il nostro ordinamento giuridico conosca due tipi di invalidità, riconducibili alle ipotesi che cagionano la nullità del negozio ed alle ipotesi che comportano l’annullabilità dello stesso. Diversamente rispetto al sistema amministrativistico, in cui l’annullabilità del provvedimento amministrativo rappresenta la regola, mentre, per contro, la nullità l’eccezione, il sistema puramente civilistico individua nella nullità la più importante patologia dei contratti. L’art. 1418 cc., notoriamente, suddivide le cause di nullità del contratto in strutturali, laddove le stesse attengano alla carenza degli elementi essenziali di cui all’art. 1325 cc., testuali, qualora le stesse trovino compiuta disciplina in una norma di legge e virtuali, volte a sanzionare la violazione di norme imperative. Proprio la peculiare portata delle censure testuali, strutturali ma soprattutto virtuali giustifica l’attribuzione del carattere della imprescrittibilità dell’azione di accertamento delle stesse, nonché la legittimazione assoluta, ovvero la possibilità, da parte di chiunque ne abbia interesse, di farle valere in giudizio. Tali caratteri, per contro, non si riscontrano nell’ambito del regime dell’annullabilità. Le cause di annullamento del contratto, non a caso, si definiscono – al pari delle nullità parziali di protezione – a legittimazione relativa, in quanto possono esser fatte valere solamente da parte del soggetto a favore del quale sono poste (art. 1441 cc.), e, proprio per tale ragione, sono soggette al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 1442 cc. Le stesse, dunque, sono pensate per la tutela di una “parte debole” e si suddividono, in linea di grande approssimazione e nei limiti di quel che interessa in questa sede ricordare, in ipotesi di annullabilità poste a tutela del soggetto incapace naturale o legale ed in ipotesi di annullabilità poste a tutela del contrante raggirato/forzato dall’altro stipulante. A tutela della prima categoria di ipotesi si pongono gli artt. 1425 e 1426 cc. Il primo chiarisce che il contratto si considera annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare, nonché nelle ipotesi in cui il soggetto incapace abbia contrattato con chi, in mala fede, abbia approfittato dello stato di incapacità (art. 428 cc.). Il secondo, per contro, sancisce l’annullabilità laddove il negozio sia stato posto in essere con un minore che abbia occultato la propria età. La seconda categoria – che costituisce il fulcro delle riflessioni che si andranno di qui a breve a svolgere – comprende, invece, i cd. vizi della volontà contrattuale: errore, dolo e violenza. Volendo soffermare l’attenzione solamente sul primo vizio occorre rilevare che, ai sensi dell’art. 1428 cc., l’errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall’altro contraente. Tale indicazione codicistica, tuttavia, è apparsa alla dottrina ed alla giurisprudenza non esaustiva, tanto da aver reso necessaria una ulteriore suddivisione in “errore vizio” ed “errore ostativo” (sul punto: M. C. BIANCA, Trattato di diritto civile, Vol. 3, Giuffré, 1987, p. 606). La dottrina maggioritaria tende a qualificare l’errore vizio come una situazione falsata, ovvero come una falsa percezione della realtà (M. C. BIANCA, Trattato di diritto civile – Il contratto, Vol. 3, Giuffré, 1999, p. 606: “l’errore è una falsa rappresentazione della parte in ordine al contratto o ai suoi presupposti”) che ha posto il soggetto nelle condizioni di contrattare sulla base di una volontà non corrispondente alle sue reali intenzioni. Non a caso l’errore vizio viene anche comunemente nominato “errore motivo” ovvero errore sulle ragioni che hanno portato alla stipula di un determinato contratto. L’errore dettato da una alterata percezione della realtà differisce dalle ipotesi di errore perpetratesi nella fase di trasmissione delle informazioni ad opera della persona o dell’ufficio che ne è stato incaricato (cd. errore ostativo). Il primo, dunque, è un vizio di formazione del consenso; il secondo, per contro, è un vizio di comunicazione del consenso. La predetta distinzione rappresenta il substrato per comprendere meglio per quale ragione l’ordinamento giuridico subordini l’annullamento del contratto ai requisiti della riconoscibilità ed essenzialità dell’errore. Il primo elemento richiede che qualsiasi persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo. Ciò in quanto si tratta di un errore palese, per la cui percezione non si richiede una specifica conoscenza/qualificazione. Tali considerazioni, se applicate alle ipotesi di errore ostativo, consentono di ritenere comunque valido il contratto qualora una parte abbia accettato la proposta della controparte nonostante quest’ultima, pur essendo completa di tutti gli elementi essenziali, presenti dei refusi o errori materiali che, se interpretati alla luce del canone di buona fede, potevano essere effettivamente comprensibili al momento della stipula e, dunque, non avrebbero fatto cadere la controparte in errore. L’elemento della riconoscibilità, se applicato, invece, alle ipotesi di errore motivo, richiede di considerare che il vizio in questione sarebbe stato percepibile dall’uomo medio avveduto avendo riguardo alle circostanze in cui si è concluso il contratto ed alla qualità delle persone stipulanti. La riconoscibilità dell’errore, come detto, non è sufficiente ai fini dell’annullamento del contratto, bensì si richiede anche l’elemento della essenzialità. Ai sensi dell’art. 1429 cc. l’errore si considera essenziale: 1. quando cade sulla natura o sull’oggetto del contratto; 2. quando cade sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso; 3. quando cade sull’identità o sulle qualità della persona o dell’altro contraente, sempre che l’una o le altre siano state determinanti del consenso; 4. quando, trattandosi di errore di diritto, è stato la ragione unica e principale del contratto.  Delle diverse forme di errore essenziale individuate a livello legislativo, quella che qui interessa è l’ipotesi di errore di fatto cadente sull’oggetto del negozio. Tale particolare tipologia di errore essenziale si ravvisa ogniqualvolta il bene oggetto del contratto venga travisato. Si pensi, al riguardo alle ipotesi in cui, di fatto, al posto di una pianta erbacea particolare ne venga acquistata un’altra di diversa natura. Sussiste, pertanto, errore in ordine al bene oggetto di contrattazione.  L’errore cadente sul bene negoziato costituisce un possibile strumento per censurare in sede giudiziale il negozio di accertamento. Più precisamente, il negozio di accertamento si qualifica come negozio atipico di dubbia natura. Volendo considerare in questa sede superate le perplessità in ordine alla ammissibilità – in un ordinamento come il nostro che non giustifica, se non in limitate ipotesi, l’idea di farsi giustizia da sé – di negozi giuridici atipici aventi capacità di risolvere dubbi sulla esistenza di un rapporto fondamentale, si può sinteticamente ricordare come una parte della dottrina qualifichi il negozio in esame come contratto unilaterale, altra parte della dottrina lo qualifichi come bilaterale. Alcuni lo inseriscono nel novero dei negozi di accertamento puro e semplice, pertanto improduttivi di effetti innovativi nell’ordinamento giuridico. Altri, per contro, lo qualificano come negozio causale dispositivo, idoneo ad innovare l’ordinamento giuridico, specie se inerente all’accertamento dei requisiti legali dell’usucapione, ad oggi trascrivibile ai sensi dell’art. 2643 cc. comma primo, n.12 bis. Tra le due tesi, sembra attualmente essere prevalsa quest’ultima, in ragione della collocazione sistematica della novella normativa rappresentata dal n. 12 bis del poc’anzi richiamato articolo: se l’accertamento dell’usucapione viene inserito nell’elenco degli atti a titolo derivativo trascrivibili, allora giocoforza si deve riconoscere a tale schema negoziale una portata quantomeno innovativa dell’ordinamento. La natura dispositiva (e non puramente di accertamento del negozio) consente di operare un parallelo con la transazione. Quest’ultima anche risolve conflitti in ordine ad un rapporto fondamentale, ma si differenzia dal negozio di accertamento perché ha ad oggetto una res litigiosa, pertanto produce effetti transattivi e non si limita ad accertare l’esistenza di un rapporto, bensì consente alle parti, a mezzo di reciproci sacrifici, di risolvere i conflitti insorti tra loro. Nonostante tali tratti di diversità, la dottrina ha operato continui parallelismi in punto di disciplina giuridica, ritenendo quella della transazione in alcuni casi applicabile anche al negozio di accertamento. In particolare, si è discusso in ordine alla applicabilità dell’art. 1969 cc., rubricato errore di diritto. La norma chiarisce che la transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti. Una parte della dottrina ha ritenuto estendibile tale divieto anche al negozio di accertamento (che, qualificandosi, come detto, alla stregua di un negozio atipico, rende pur sempre necessaria una attività di costruzione dottrinale e giurisprudenziale del suo regolamento). Pur volendo aderire all’orientamento dottrinale che non ammette, per le ragioni poc’anzi esposte, l’errore di diritto “puro” nel negozio di accertamento, occorre considerare come altra parte della dottrina, meno incline alla pedissequa applicazione del divieto, ammetta comunque l’annullabilità del negozio di accertamento per errore di fatto essenziale cadente sull’oggetto del negozio (per un approfondimento mirato delle controverse questioni inerenti al rapporto tra errore di fatto e negozio di accertamento, si vedano in particolare le tesi ed i lavori di M. Giorgianni). Qualora, infatti, l’accertamento abbia riguardato un rapporto fondamentale preesistente ma si verta in errore sull’oggetto della contrattazione, si dovrebbe in tal caso poter procedere all’annullamento, senza provare ad invocare un difetto di causa contrattuale per porre rimedio al predetto travisamento. In siffatti contesti, infatti, non è l’attività di regolazione, e, quindi, la causa astratta del contratto di accertamento, l’elemento mancante. Non si verte neppure in una ipotesi di mancanza di scopo pratico del negozio o di interessi complessivamente considerati non meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 comma secondo cc., bensì ciò che manca è la consapevolezza delle qualità del bene negoziato. Ne consegue, in conclusione, l’applicabilità della disciplina dell’errore di fatto essenziale sull’oggetto contrattuale anche in relazione a negozi di dubbia qualificazione giuridica come quello oggetto di attenzione, al fine di rendere possibile la rimozione degli effetti obbligatori, miranti ad imporre il mantenimento dell’assetto di interessi frutto dell’accertamento, che notoriamente sono fatti discendere da questo schema contrattuale atipico.

[4] A conferma della natura controversa del negozio di accertamento, si riporta un brano di una sentenza più lontana negli anni: “Nel negozio di accertamento, il quale persegue la funzione di eliminare l'incertezza di una situazione giuridica preesistente, la nullità per mancanza di causa è ipotizzabile solo quando le parti, per errore o volutamente, abbiano accertato una situazione inesistente, oppure quando la situazione esisteva, ma era certa. Pertanto, con riguardo ad una scrittura privata avente ad oggetto il riconoscimento di una determinata intestazione di proprietà immobiliare, la mancanza di effetti traslativi, e la circostanza che il documento non contenga un'espressa indicazione dei rapporti che l'hanno preceduta, non sono ragioni di per sé sufficienti per affermare la nullità ed inoperatività della scrittura medesima, per difetto di causa, rendendosi necessaria un'indagine sui possibili suoi collegamenti con negozi precedenti intercorsi fra le stesse parti, al fine di stabilire se ricorra l'indicata funzione, e se, quindi, sia configurabile un negozio di accertamento rivolto a rendere definitiva e vincolante una precedente situazione  incerta (Cass. n. 7274/83). Il fatto che il negozio di accertamento non costituisca esso stesso, proprio per l'assenza di una sottostante causa dispositiva, fonte del rapporto tra le parti, ed anzi che ne presupponga di necessità la preesistenza, non significa, però, che il medesimo rapporto debba essere provato altrimenti, che, diversamente, la stessa funzione del negozio d'accertamento sarebbe postulata invano. E', piuttosto, la nullità del contratto da cui si origina il rapporto che, ove dimostrata, ne travolge l'accertamento convenzionale, e non, come vorrebbe parte ricorrente, che quest'ultimo sia inidoneo a provare il rapporto preesistente per il solo fatto di essere un negozio di tipo dichiarativo”.    La pronuncia di cui si è riportato un brano è libera in rete, accessibile a tutti e visibile per esteso al seguente indirizzo web, consultato in data 05 Ottobre 2021:   https://e-l.unifi.it/pluginfile.php/37920/mod_resource/content/1/Cass.%2014618%20del%202012.pdf.



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